Bonus-commento "Premio Lab 14"
Chicca era tornata a casa dopo il turno pomeridiano al supermercato. Aveva comprato un paio di buste di surgelati senza neppure guardare bene che roba era.
Ora si trattava di prendere una padella, forse due; accendere i fuochi; versare l’olio, aggiungere sale, pepe e altre cose come aglio, oppure prezzemolo, chissà. Poi avrebbe dovuto, forse, cercare i coperchi; prendere la paletta di legno e girare quegli intrugli, controllarne la cottura e, nel frattempo, mettere sul tavolo un piatto, un bicchiere, le posate, uno o due tovaglioli di carta, la brocca d’acqua. Oppure posizionare tutto questo su un vassoio da portare davanti a quella noiosissima televisione.
Decise che era troppa fatica.
Schiacciò le buste nel freezer, si lavò le mani, tirò le scarpe dove capitava, afferrò una confezione di pane in cassetta e la mela che stava sulla credenza da qualche giorno; si andò a sedere sul divano davanti al televisore.
Sistemò il cuscino dietro la schiena e distese le gambe. Prese da terra un giornale che non ricordava di aver comprato e lo sfogliò tanto per fare una cosa che non fosse accendere subito la televisione.
Mentre guardava le figure, comprese che non le importava niente della vellutata di zucca o del tortino ai frutti autunnali. Posò il giornale sul bracciolo panciuto e lasciò cadere la testa all’indietro. Chiuse gli occhi. Le sembrò di sentire il rumore della pioggia: non aveva voglia di andare a controllare se c’erano panni stesi fuori e si abbandonò a quel ticchettio leggero.
Le venne in mente di quando una mattina di fine settembre, in campagna dalla nonna, si era allontanata insieme al figlio del contadino confinante per andare vedere il vitello appena nato.
Erano scesi fino alla stalla, avevano carezzato il pelo umido dell’animale, poi si erano inoltrati tra i rovi per cogliere le ultime more.
Lui raccontava del cavallo che il giorno prima aveva cavalcato senza sella, rischiando di rompersi il collo, mentre lei raccoglieva assorta quegli strani piccoli frutti composti di tante palline nere assemblate, li puliva velocemente con le mani e li mangiava.
Voleva portarne una manciata alla nonna, ma dove conservarli? Mentre si guardava intorno per cercare qualcosa che fungesse da contenitore, il sole si era oscurato e un tuono violentissimo li aveva sorpresi.
Il ragazzo l’aveva afferrata per il polso e insieme avevano corso giù lungo il sentiero che conduceva a un piccolo ricovero invernale per le bestie.
Erano entrati zuppi di pioggia nella casupola fatta di pietre e si erano stesi ridendo sui residui di fieno ingiallito.
Le gocce battevano sul tetto di selci e colavano lungo le pareti come tante piccole cascate: dall’uscio posto di fronte osservavano silenziosi l’intensità violenta di quel temporale d’autunno.
Erano rimasti così a lungo, senza parlare, come se anche loro appartenessero a quel luogo solitario e la sua selvatichezza li rendesse effimeri come il fieno su cui sedevano e imperituri come il tempo che su quelle campagne ostili aveva posato lo sguardo al loro primo apparire.
«Io da grande voglio essere ricco» – aveva detto il ragazzino, attorcigliando intorno alle dita uno stelo ancora verde. «Voglio essere ricco, e comprarmi case in tutto il mondo. Voglio andare via da qui. Voglio conoscere la gente importante. Guarda! Ho una coccinella sul dito! Guarda com’è bella.»
«Ti comprerai tante case quante sono le macchioline nere che ha sulle ali» – aveva sussurrato lei. «Le coccinelle portano fortuna, lo so. Io invece farò il medico, come mio padre: voglio guarire le persone, sentire i cuori che battono. Sarò un medico eccezionale, mamma lo dice sempre.»
«Dovrai studiare per tantissimi anni, non ti stuferai? A me già non mi va d’andare a scuola.»
«Allora come farai a diventare ricco se non vuoi studiare? Cos’è che vuoi fare?»
«Vado in America da mio zio: lui fa il commerciante ed è diventato milionario. Papà ha detto che appena sono maggiorenne posso andare.»
«E quando io verrò in America ti cercherò: tu sarai il padrone di tanti ristoranti famosi e m’inviterai a cena. Va bene?»
«Certo! Farò venire apposta per te il pesce dall’Alaska e stapperemo un vino da ricchi.»
Avevano riso, mentre guardavano la coccinella aprire le ali e svolazzare delicata sui corpi freschi, sui capelli bagnati.
«E poi, se non ti sei ancora sposata e anche io sono libero, ci innamoriamo e facciamo tanti figli» – aveva proseguito lui prendendole una mano e intrecciando le sue dita nelle proprie. «E se mi ammalerò, tu mi curerai.»
Lei lo aveva guardato negli occhi scuri e gli aveva poggiato il capo sul petto.
«Senti come batte il tuo cuore? Finché il cuore batte siamo vivi, e respiriamo, e possiamo toccare le cose. Quando sarò medico sentirò anche petti dove il cuore ha smesso di battere, e questo mi fa paura. Perché so che, dopo, è tutto buio per sempre.»
«Mia nonna dice che quando si muore subito scende un angelo dal cielo e porta via l’anima con sé, tenendola stretta tra le braccia. Poi la dà a Dio.»
«Hai i denti bianchissimi, tutti dritti» – aveva sussurrato lei guardandogli la bocca mentre lui parlava. «Tu hai mai dato un bacio a una ragazza?»
«Oh, certo che sì! Ho dodici anni, cosa credi? E tu, invece, hai mai baciato un ragazzo?»
«Nei miei sogni tante volte. Quindi non so dirti se sì o no.»
«Ma nella realtà, quando sei sveglia, hai mai baciato un ragazzo?»
«Intendi dire fuori dai sogni? Se ho baciato la bocca di qualcuno come ora ho toccato con la testa il tuo petto? No, in quel modo mai.»
«Se vuoi ti insegno io. Sono bravo, sai.»
Lei lo aveva fissato ed egli era arrossito: l’aveva vista così bella, coi capelli neri ormai asciutti e gli occhi grandi pieni di domande, la pelle liscia e profumata di more.
«Come prima cosa si devono toccare le labbra, così» – e aveva avvicinato delicatamente la bocca a quella tremante di lei. «Vedi? È facile, finora. Come se baciassi una mano, o un braccio. Poggi le labbra e premi un pochino.»
Lei aveva chiuso gli occhi e lasciato che la sfiorasse.
«Poi devi aprire un po’ la bocca e fare uscire la punta della lingua, come se volessi assaggiare una cosa buona: ecco, proprio così.»
Chicca ricordava bene di aver assaporato la bocca, il volto tutto e il collo del suo amico e, mentre la pioggia scemava e l’aria di nuovo brillava di luce dorata, di aver avuto la voglia di fermarsi lì per sempre, nel tepore.
Una mano del ragazzino già si insinuava sotto la camicetta leggera, e lei era balzata in piedi, fiera e scarmigliata.
«Andiamo, ha smesso di piovere. Forse qualcuno ci sta cercando.»
Lui si era alzato di malavoglia. Erano usciti dal ricovero e avevano risalito il sentiero senza parlarsi mai.
Appoggiata a un muretto della stalla, la nonna li attendeva.
Uno schiaffo violento aveva colpito il ragazzino sulla nuca, e un altro Chicca sulla guancia già calda.
Non aveva mai più incontrato il suo amico: neppure ricordava il nome.
La vita, questa strana cosa che chiamiamo vita, gli aveva poi accordato benevolenza, aveva rovesciato su di lui in abbondanza i doni della sua cornucopia?
La pioggia era cessata. Chicca tirò fuori dalla busta una fetta di pane e accese la tv.
* da Kierkegaard