Fantasmi
Posted: Mon Jan 25, 2021 7:28 pm
Non posso mettere il link al Writer's Dream perché il racconto è stato cancellato.
La luce del mattino filtra dalle tende, pallida e incolore. Come te.
Con fatica sposti una mano sul ventre, ormai dovrebbe essere una piccola sfera e invece è piatto, quasi incavato. Come te.
Nelle lunghe ore di veglia parli a lungo a questo bambino che, temi, non vedrà mai la luce. Lo hai voluto così tanto e, ora che sei incinta, pare che il tuo corpo ce la stia mettendo tutta per rigettarlo, neanche fosse un mostro radicato nell’utero: un abominio da divellere a viva forza dalla propria fibra.
Prigioniera dentro il tuo letto puoi solo guardare la fredda luce di gennaio che lenta cede il passo a quella più tiepida di febbraio e marzo. Quest’anno, però, il terreno è ancora avvolto dalla ferma mano del gelo e la primavera stenta a tornare al mondo.
Vedi una curiosa simmetria fra queste due stagioni e la tua storia.
Per anni, insieme alle tue sorelle, sei stata cristallizzata in una vita di decorosa sussistenza, dove ogni piccolo agio doveva essere guadagnato lavoro dopo lavoro, umiliazione dopo umiliazione.
I lavori da istitutrici, le piccole malevolenze dei bambini, la sottile cattiveria dei padroni mascherata da condiscendenza. Quando Anne aveva trovato il posto giusto vostro fratello aveva mandato tutto all’aria ed ecco, lo spettro della miseria che s’agitava ancora.
Tre sorelle, quasi senza dote, senza lavoro, cosa avreste fatto alla morte di vostro padre?
E un’idea si era fatta strada nella tua mente, a fatica avevi convinto le altre, specie Emily aveva puntato i piedi, ma tu sapevi che era la cosa giusta. Se di qualcosa bisognava pur vivere che fosse di scrittura, il vostro talento nascosto, il vostro mondo segreto.
La corrispondenza vi aveva permesso di celarvi sotto falso nome: ammantate dall’alone della segretezza i tre fratelli Bell avevano portato i loro romanzi alla luce, e con quale successo! Nei circoli letterari non si parlava che di questi tre uomini che rifiutavano di uscire allo scoperto. Quale ingegno, quale talento! Quanto avevate riso della cecità di chi non voleva credere che in realtà i Bell fossero delle donne, tre zitelle rintanate dentro un cottage.
Finalmente eravate serene, poi la vita aveva preteso un pagamento.
Una vita quasi per ogni titolo. Nessun Bell sembrava destinato a sopravvivere alla propria fama, a parte te.
Alla fine eri rimasta sola: un pallido fantasma che s’aggirava nervoso fra le pareti del salotto dove avevate trascorso una vita intera. La tua voce mormorava solitaria fra quelle spoglie pareti senza carta da parati, mute spettatrici del vostro incessante lavorio; non più un circolo di anime e menti, ma una donna sola, sull’orlo della mezza età. Pregavi per risentire le loro voci, ma ti rispondeva solo il silenzio, così pesante e opprimente da schiacciarti il petto, come se il corsetto fosse divenuto di pietra e ti tirasse verso terra.
Verso chi non c’era più.
Per restare viva avevi mormorato per le assenti, parlato con loro fingendo che fossero lì con te, in fondo le conoscevi così bene da poter prevedere ogni dubbio od osservazione .
“Questo lavoro è mediocre, Charlotte” sentivi il tono sferzante di Emily “manca di nervo, di coinvolgimento, di passione” e potevi vedere tua sorella china sul davanzale, intenta a scrivere alla fioca luce della candela.
“Ora non pensarci, cara, devi solo finirlo e portare a casa un po’ di soldi” ed ecco Anne avvolta nello scialle, seduta al suo solito posto al lato destro del tavolo. Quel tavolo segnato dal tempo attorno al quale avevate tessuto mondi e trame, sedute su seggiole rigide e infagottate dentro scialli di lana perché la casa era piena di spifferi ed esposta ai venti del nord e ai miasmi del cimitero.
Nel silenzio assordante rispondevi a fior di labbra perché nessuno ti sentisse “So che è mediocre, ma non riesco a fare di meglio. Sono sola. Voi siete morte, siete tutte morte” .
In quei momenti crollavi sul divano: come una canna che resiste al vento di tramontana s’aggrappa al terreno, tu ti tenevi stretta ai ricordi e lasciavi che il dolore ti sommergesse, per poi refluire. Accarezzavi la stoffa rosa sforzandoti di non ricordare quale fosse l’angolo preferito di ognuna di voi o di non pensare a ogni volta che vi eravate sedute ascoltando l’altra declamare versi o leggere nuovi brani delle vostre saghe.
Non era mai una cosa breve, a volte consumavi una candela intera in quella veglia dolorosa.
Col tempo eri riemersa dalla nebbia grigia della morte e avevi creduto che la vita non avesse più nulla da offrirti. Sì, era bello andare a Londra, conversare con altri letterati e godere delle delicate attenzioni di Mr. Smith, ma era come mangiare una minestra senza sale. Fra nutrirsi e avere appetito c’era una bella differenza, eppure continuavi a sfamarti perché sapevi che il digiuno intellettuale t’avrebbe trasformato in un fantasma. A quel punto saresti diventata un relitto umano perso nella bruma del passato con il solo scopo di cercare in eterno coloro che erano morti prima di te.
Una morta con il cuore che batteva.
E poi la vita aveva fatto un colpo di coda: Arthur aveva chiesto la tua mano. Se fosse dipeso da te avresti accettato prima ancora che finisse di parlare, ma ti eri trattenuta.
Sapevi cosa succedeva quando ti veniva messa davanti una cosa buona: l’avresti pagata, come sempre.
C’era anche tuo padre, vecchio e cieco, che dipendeva da te e le finanze di Arthur erano inferiori alle tue. Soprattutto ti spaventava il tuo lavoro; scrivere è un’esperienza totalizzante che non tollera ingerenze o impegni sociali e domestici.
Chi mai avrebbe sopportato una moglie scrittrice?
Ma il curato, un irlandese pratico, tenace e intransigente, aveva perseverato, e tu avevi camminato a lungo nella brughiera per poter interrogare i tuoi fantasmi fino a scegliere la risposta che più ti andava a genio “Dì di sì Charlotte. Te la meriti un po’ di felicità.”
E sì avevate detto, in una bella mattina di giugno. Finalmente l’inverno era finito ed era arrivata la primavera. La tua scrittura non era stata un problema, nessuna intransigenza per te o per il tuo lavoro. Eri tu a non voler scrivere, troppo impegnata a mettere insieme la tua felicità per intingere il pennino nell’inchiostro.
E ora, nove mesi dopo, la vita presentava il conto. Di nuovo.
Se non fosse stata la vita, la responsabile? Forse è il bambino che non ti vuole, che ti martoria per liberarsi dalla prigione di carne e sangue in cui lo hai portato. Tu stessa sei stata a malapena una figlia. Di tua madre serbi un ricordo fumoso ed evanescente: lei è il più bello e sfocato dei tuoi fantasmi.
La zia Elizabeth ha fatto del suo meglio ma, in tutta coscienza, ti senti disarmata e intimorita. Cosa ne sai tu di amore materno?
Sei cresciuta nello spirito stoico di tuo padre, un uomo niente affatto incline alle manifestazioni d’affetto o alle rassicurazioni.
Il risultato è una donna capace di grande durezza e onestamente, credevi che la fonte della tua tenerezza ormai fosse asciutta, prosciugata da una vita troppo aspra e rigida, ma Arthur l’aveva trovata e quando era sgorgata il senso di meraviglia stato tale da toglierti il fiato.
Da allora la custodisci con la gelosia con cui un drago sorveglia il suo tesoro, tutta per tuo marito ed è qui che s’annida il tuo dubbio.
Forse è insufficiente per due persone e per questo il bambino non ti vuole. Preferisce morire che avere per madre un guscio vuoto.
E con lui muori anche tu.
Da due mesi il tuo organismo rifiuta qualsiasi cosa, reggi giusto qualche sorso di vino o acqua. Appena vedi il cibo lo stomaco si contrae su sé stesso e il corpo si lacera, come se due cavalli lo tirassero in direzioni opposte.
Il medico ha provato di tutto per guarirti: salassi, pozioni, tonici, impiastri, tutto inutile.
Ogni giorno diventi più pallida: le ossa traslucide fanno capolino da sotto la pelle, i muscoli e i nervi si ritirano lasciando spazio a un teschio rivestito di carne. Ciocche di capelli neri restano sul cuscino e se avessi la forza di toccarti la testa sentiresti delle chiazze calve, ma ormai la forza sta finendo. Con la poca rimasta ti attacchi alla vita con sanguigna ferocia, ti ci tieni aggrappata con quelle dita scheletriche che ti ritrovi, ma non sei certa di poter vincere contro di lei. O contro tuo figlio.
Seduto lì accanto c’è tuo marito, pallido e smunto quasi quanto te: ha gli occhi spiritati di chi divide il letto col terrore e il colorito cereo di chi non mangia o esce a sufficienza.
Ti vede sveglia e tende la mano: il suo calore ti scalda le dita e stringi, cerchi persino di sorridere e allora lo fa anche lui, un sorriso tirato e colmo di paura. La cameriera entra e apre le tende: il gelo ancora non molla e tu vuoi vivere per vedere il susino fiorire, vuoi farlo vedere a tuo figlio e, sopra ogni cosa, vuoi mostrargli che lo saprai amare.
Dio ti concederà una piccola grazia? A te, al tuo vecchio padre orbato dei figli, a tuo marito divorato dal seme dell’angoscia?
Devi chiamare a raccolta ogni singolo rimasuglio di energia per aprire la bocca, la mascella è così serrata da dover far forza per schiuderla. «Non sto per morire vero? Siamo stati così felici tu e io.» Senti una lacrima rotolare lungo lo zigomo e Arthur ti stringe le dita fino a farti male, ma non protesti: se senti dolore, vuol dire che sei viva.
«No, vita mia, tu vivrai, io…» la sua voce è così bella, oh quanto ami la passione che mette nei suoi sermoni, vorresti tanto stare ad ascoltarlo, ma qualcosa si muove attorno a te: delle figure ti fissano con amorevolezza.
«Anne» mormori allungando le dita sulla coperta di lana «Emily, Maria, Branwell…»
«Charlotte, Charlotte!» La voce di Arthur è allarmata, ma lontana, fatichi a udirla e la sua sagoma china su di te, con lo sguardo trasfigurato dal dolore, è appena distinguibile.
«Andiamo a casa» Anne si piega a baciarti la fronte.
I tuoi fantasmi sono giunti a prenderti.
È ora di partire.
L’ultimo pensiero semilucido è una preghiera: che Dio ti permetta d’esser madre nel suo regno.
La luce del mattino filtra dalle tende, pallida e incolore. Come te.
Con fatica sposti una mano sul ventre, ormai dovrebbe essere una piccola sfera e invece è piatto, quasi incavato. Come te.
Nelle lunghe ore di veglia parli a lungo a questo bambino che, temi, non vedrà mai la luce. Lo hai voluto così tanto e, ora che sei incinta, pare che il tuo corpo ce la stia mettendo tutta per rigettarlo, neanche fosse un mostro radicato nell’utero: un abominio da divellere a viva forza dalla propria fibra.
Prigioniera dentro il tuo letto puoi solo guardare la fredda luce di gennaio che lenta cede il passo a quella più tiepida di febbraio e marzo. Quest’anno, però, il terreno è ancora avvolto dalla ferma mano del gelo e la primavera stenta a tornare al mondo.
Vedi una curiosa simmetria fra queste due stagioni e la tua storia.
Per anni, insieme alle tue sorelle, sei stata cristallizzata in una vita di decorosa sussistenza, dove ogni piccolo agio doveva essere guadagnato lavoro dopo lavoro, umiliazione dopo umiliazione.
I lavori da istitutrici, le piccole malevolenze dei bambini, la sottile cattiveria dei padroni mascherata da condiscendenza. Quando Anne aveva trovato il posto giusto vostro fratello aveva mandato tutto all’aria ed ecco, lo spettro della miseria che s’agitava ancora.
Tre sorelle, quasi senza dote, senza lavoro, cosa avreste fatto alla morte di vostro padre?
E un’idea si era fatta strada nella tua mente, a fatica avevi convinto le altre, specie Emily aveva puntato i piedi, ma tu sapevi che era la cosa giusta. Se di qualcosa bisognava pur vivere che fosse di scrittura, il vostro talento nascosto, il vostro mondo segreto.
La corrispondenza vi aveva permesso di celarvi sotto falso nome: ammantate dall’alone della segretezza i tre fratelli Bell avevano portato i loro romanzi alla luce, e con quale successo! Nei circoli letterari non si parlava che di questi tre uomini che rifiutavano di uscire allo scoperto. Quale ingegno, quale talento! Quanto avevate riso della cecità di chi non voleva credere che in realtà i Bell fossero delle donne, tre zitelle rintanate dentro un cottage.
Finalmente eravate serene, poi la vita aveva preteso un pagamento.
Una vita quasi per ogni titolo. Nessun Bell sembrava destinato a sopravvivere alla propria fama, a parte te.
Alla fine eri rimasta sola: un pallido fantasma che s’aggirava nervoso fra le pareti del salotto dove avevate trascorso una vita intera. La tua voce mormorava solitaria fra quelle spoglie pareti senza carta da parati, mute spettatrici del vostro incessante lavorio; non più un circolo di anime e menti, ma una donna sola, sull’orlo della mezza età. Pregavi per risentire le loro voci, ma ti rispondeva solo il silenzio, così pesante e opprimente da schiacciarti il petto, come se il corsetto fosse divenuto di pietra e ti tirasse verso terra.
Verso chi non c’era più.
Per restare viva avevi mormorato per le assenti, parlato con loro fingendo che fossero lì con te, in fondo le conoscevi così bene da poter prevedere ogni dubbio od osservazione .
“Questo lavoro è mediocre, Charlotte” sentivi il tono sferzante di Emily “manca di nervo, di coinvolgimento, di passione” e potevi vedere tua sorella china sul davanzale, intenta a scrivere alla fioca luce della candela.
“Ora non pensarci, cara, devi solo finirlo e portare a casa un po’ di soldi” ed ecco Anne avvolta nello scialle, seduta al suo solito posto al lato destro del tavolo. Quel tavolo segnato dal tempo attorno al quale avevate tessuto mondi e trame, sedute su seggiole rigide e infagottate dentro scialli di lana perché la casa era piena di spifferi ed esposta ai venti del nord e ai miasmi del cimitero.
Nel silenzio assordante rispondevi a fior di labbra perché nessuno ti sentisse “So che è mediocre, ma non riesco a fare di meglio. Sono sola. Voi siete morte, siete tutte morte” .
In quei momenti crollavi sul divano: come una canna che resiste al vento di tramontana s’aggrappa al terreno, tu ti tenevi stretta ai ricordi e lasciavi che il dolore ti sommergesse, per poi refluire. Accarezzavi la stoffa rosa sforzandoti di non ricordare quale fosse l’angolo preferito di ognuna di voi o di non pensare a ogni volta che vi eravate sedute ascoltando l’altra declamare versi o leggere nuovi brani delle vostre saghe.
Non era mai una cosa breve, a volte consumavi una candela intera in quella veglia dolorosa.
Col tempo eri riemersa dalla nebbia grigia della morte e avevi creduto che la vita non avesse più nulla da offrirti. Sì, era bello andare a Londra, conversare con altri letterati e godere delle delicate attenzioni di Mr. Smith, ma era come mangiare una minestra senza sale. Fra nutrirsi e avere appetito c’era una bella differenza, eppure continuavi a sfamarti perché sapevi che il digiuno intellettuale t’avrebbe trasformato in un fantasma. A quel punto saresti diventata un relitto umano perso nella bruma del passato con il solo scopo di cercare in eterno coloro che erano morti prima di te.
Una morta con il cuore che batteva.
E poi la vita aveva fatto un colpo di coda: Arthur aveva chiesto la tua mano. Se fosse dipeso da te avresti accettato prima ancora che finisse di parlare, ma ti eri trattenuta.
Sapevi cosa succedeva quando ti veniva messa davanti una cosa buona: l’avresti pagata, come sempre.
C’era anche tuo padre, vecchio e cieco, che dipendeva da te e le finanze di Arthur erano inferiori alle tue. Soprattutto ti spaventava il tuo lavoro; scrivere è un’esperienza totalizzante che non tollera ingerenze o impegni sociali e domestici.
Chi mai avrebbe sopportato una moglie scrittrice?
Ma il curato, un irlandese pratico, tenace e intransigente, aveva perseverato, e tu avevi camminato a lungo nella brughiera per poter interrogare i tuoi fantasmi fino a scegliere la risposta che più ti andava a genio “Dì di sì Charlotte. Te la meriti un po’ di felicità.”
E sì avevate detto, in una bella mattina di giugno. Finalmente l’inverno era finito ed era arrivata la primavera. La tua scrittura non era stata un problema, nessuna intransigenza per te o per il tuo lavoro. Eri tu a non voler scrivere, troppo impegnata a mettere insieme la tua felicità per intingere il pennino nell’inchiostro.
E ora, nove mesi dopo, la vita presentava il conto. Di nuovo.
Se non fosse stata la vita, la responsabile? Forse è il bambino che non ti vuole, che ti martoria per liberarsi dalla prigione di carne e sangue in cui lo hai portato. Tu stessa sei stata a malapena una figlia. Di tua madre serbi un ricordo fumoso ed evanescente: lei è il più bello e sfocato dei tuoi fantasmi.
La zia Elizabeth ha fatto del suo meglio ma, in tutta coscienza, ti senti disarmata e intimorita. Cosa ne sai tu di amore materno?
Sei cresciuta nello spirito stoico di tuo padre, un uomo niente affatto incline alle manifestazioni d’affetto o alle rassicurazioni.
Il risultato è una donna capace di grande durezza e onestamente, credevi che la fonte della tua tenerezza ormai fosse asciutta, prosciugata da una vita troppo aspra e rigida, ma Arthur l’aveva trovata e quando era sgorgata il senso di meraviglia stato tale da toglierti il fiato.
Da allora la custodisci con la gelosia con cui un drago sorveglia il suo tesoro, tutta per tuo marito ed è qui che s’annida il tuo dubbio.
Forse è insufficiente per due persone e per questo il bambino non ti vuole. Preferisce morire che avere per madre un guscio vuoto.
E con lui muori anche tu.
Da due mesi il tuo organismo rifiuta qualsiasi cosa, reggi giusto qualche sorso di vino o acqua. Appena vedi il cibo lo stomaco si contrae su sé stesso e il corpo si lacera, come se due cavalli lo tirassero in direzioni opposte.
Il medico ha provato di tutto per guarirti: salassi, pozioni, tonici, impiastri, tutto inutile.
Ogni giorno diventi più pallida: le ossa traslucide fanno capolino da sotto la pelle, i muscoli e i nervi si ritirano lasciando spazio a un teschio rivestito di carne. Ciocche di capelli neri restano sul cuscino e se avessi la forza di toccarti la testa sentiresti delle chiazze calve, ma ormai la forza sta finendo. Con la poca rimasta ti attacchi alla vita con sanguigna ferocia, ti ci tieni aggrappata con quelle dita scheletriche che ti ritrovi, ma non sei certa di poter vincere contro di lei. O contro tuo figlio.
Seduto lì accanto c’è tuo marito, pallido e smunto quasi quanto te: ha gli occhi spiritati di chi divide il letto col terrore e il colorito cereo di chi non mangia o esce a sufficienza.
Ti vede sveglia e tende la mano: il suo calore ti scalda le dita e stringi, cerchi persino di sorridere e allora lo fa anche lui, un sorriso tirato e colmo di paura. La cameriera entra e apre le tende: il gelo ancora non molla e tu vuoi vivere per vedere il susino fiorire, vuoi farlo vedere a tuo figlio e, sopra ogni cosa, vuoi mostrargli che lo saprai amare.
Dio ti concederà una piccola grazia? A te, al tuo vecchio padre orbato dei figli, a tuo marito divorato dal seme dell’angoscia?
Devi chiamare a raccolta ogni singolo rimasuglio di energia per aprire la bocca, la mascella è così serrata da dover far forza per schiuderla. «Non sto per morire vero? Siamo stati così felici tu e io.» Senti una lacrima rotolare lungo lo zigomo e Arthur ti stringe le dita fino a farti male, ma non protesti: se senti dolore, vuol dire che sei viva.
«No, vita mia, tu vivrai, io…» la sua voce è così bella, oh quanto ami la passione che mette nei suoi sermoni, vorresti tanto stare ad ascoltarlo, ma qualcosa si muove attorno a te: delle figure ti fissano con amorevolezza.
«Anne» mormori allungando le dita sulla coperta di lana «Emily, Maria, Branwell…»
«Charlotte, Charlotte!» La voce di Arthur è allarmata, ma lontana, fatichi a udirla e la sua sagoma china su di te, con lo sguardo trasfigurato dal dolore, è appena distinguibile.
«Andiamo a casa» Anne si piega a baciarti la fronte.
I tuoi fantasmi sono giunti a prenderti.
È ora di partire.
L’ultimo pensiero semilucido è una preghiera: che Dio ti permetta d’esser madre nel suo regno.