Alle ore del vento
Posted: Thu Sep 11, 2025 6:33 pm
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Non seppe quando cominciò. Forse già verso sera, quando il cielo si trasformava nel tramonto violaceo e l’aria tratteneva il respiro nell'attesa di quel breve momento. Il giorno si era trascinato via con lentezza, faticando a disfarsi di sé. Clara era rientrata più tardi del solito, le mani fredde, nonostante la primavera già inoltrata.🜂
NOTE DELL’AUTORE
🜖 Perché un corpo cambi deve assumere dentro di sé nuove informazioni che gli descrivano in che cosa mutare. Le mani fredde sono un segnale dell’eccesso di informazione che si accumula.
Non seppe quando cominciò. Forse già verso sera, quando il cielo si trasformava nel tramonto violaceo e l’aria tratteneva il respiro nell'attesa di quel breve momento. Il giorno si era trascinato via con lentezza, faticando a disfarsi di sé. Clara era rientrata più tardi del solito, le mani fredde, nonostante la primavera già inoltrata.🜂
Spense la televisione alle prime immagini di guerra del telegiornale: era stanca di quella finestra sul mondo che le appiccicava addosso tutta quella violenza.🜍 Sospirò. “Quanto vorrei scendere.” confessò allo schermo cieco.
Non ebbe risposta.
Erano all'incirca le otto di sera quando i suoi gesti persero coerenza.
Le mani infreddolite le tremavano.🜖 Aveva perfino sbagliato il verso del cucchiaio riponendolo nel cassetto e il riflesso nell’acciaio le aveva mostrato il proprio viso sfocato, come visto da sotto l’acqua. Le sembrava di non ricordare esattamente come si stesse in piedi, quale fosse la giusta inclinazione della schiena e il peso del proprio corpo nello spazio. Ogni gesto le richiedeva più attenzione e fatica del solito: dal togliersi le scarpe al salire e scendere le scale.🜏
Perché c’era qualcosa di opaco in lei. Come una febbre leggera che non saliva mai ma aspettava una tensione che non aveva nome, ma che le faceva tremare le spalle. Anche da ferma le comprimeva lo sterno e serrava la mandibola. Non dolore, non ancora. Ma qualcosa che sembrava essere capace di stringerla dentro.🜔
Mancavano pochi minuti alle ventuno quando, dopo aver bevuto mezzo bicchiere d’acqua e guardato il cielo sbagliato🜁 del soffitto della cucina, si era trascinata in camera. Passò accanto alla pendola che rintoccava quietamente l’ora.
Fissò il quadrante mentre la lancetta dei minuti rallentava dentro di lei; il pendolo oscillò ancora, fino a puntare al culmine. E qui si fermò. Passato e futuro si fusero in quell’istante. Tutti i muscoli e le ossa le facevano male, come all'inizio di un'influenza. Desiderava con ogni fibra un sonno lungo e riposante. L'acqua le aveva lasciato un gusto anomalo nella bocca leggermente impastata. Si strappò via da lì e proseguì verso la camera.🜖
Tutto sembrava così estraneo in quella stanza un po' angusta. La lampada, i cuscini, perfino il letto. Si sedette sul bordo con una strana inquietudine. I vestiti le aderivano in modo fastidioso alla pelle, la opprimevano. Mal sopportava l'aria calda e leggermente viziata: si alzò e andò verso la finestra per aprirla.
Aveva un improvviso e viscerale bisogno di aria, di libertà che le scorresse sulla pelle e sul viso. Sfiorò la maniglia con un formicolio. No, più profondo. Un irrigidimento interno. La pelle del dorso della mano sembrava sottile, o forse troppo tesa. Le dita le ubbidivano solo con sforzo. La maniglia girò, ma le nocche fecero resistenza, intorpidite e rigide, incapaci realmente di chiudersi e stringere.🜎
Tirò comunque verso di sé. La finestra finalmente si aprì con uno scatto secco e l’aria entrò fredda e rigenerante. Clara la accolse come un sollievo, ma le mani… le mani continuavano a farle male. Se le guardò girandole da sotto a sopra: i palmi, le nocche, le unghie che sembravano… più sottili. Più lunghe?
Aveva pensato che aprire la finestra potesse darle sollievo e invece ora più che mai c’era in lei una spinta insoddisfatta, un anelito a liberarsi, ad uscire dallo spazio ristretto della stanza.
Aveva pensato che aprire la finestra potesse darle sollievo e invece ora più che mai c’era in lei una spinta insoddisfatta, un anelito a liberarsi, ad uscire dallo spazio ristretto della stanza.
Ma perché si sentiva a disagio in quel modo?
Con rabbia strattonò le tende, lasciando appena uno spiraglio.🜚 E si mise a letto, vestita del solo pigiama. Il tessuto della maglietta la infastidiva ancora, i pantaloni le serravano le ginocchia. Forse avrebbe dovuto toglierseli. Ma non aveva più voglia di muoversi. Si rannicchiò sul lato esausta, aggrappata al cuscino ancora freddo e si addormentò in sogni confusi che sapevano di quel gusto in bocca.🜖
Verso le ventidue, quando la pendola aveva appena smesso di battere l'ora, l’odore della stanza cambiò improvvisamente, destandola. Troppo ferro. Troppo vivo. L’aria sapeva di piccole prede, anche se non c’era nessuno. Si era seduta sul letto, ma non riusciva a starci comoda: le gambe non sapevano più come piegarsi, le ginocchia dolevano. Il respiro era diventato più rapido, corto.🜹
O il letto era diventato troppo grande. O lei, troppo piccola.
I pantaloni del pigiama erano cresciuti in lunghezza su gambe più magre.
Fuori era già notte. I primi rumori di richiamo degli uccelli notturni entrarono nella stanza, con un ritmo ipnotico e a lei familiare che la cullò. Intanto l’orlo dei pantaloni si svuotò ancora verso l’alto di un paio di centimetri alla volta.🜄
Si assopì.
Alle undici di sera si svegliò di soprassalto: la piccola pendola nel corridoio era intenta a definire i nuovi rintocchi. Uno. Due. Tre. Perse il conto verso quello che poteva essere stato il decimo.🝩
L’ultimo colpo inatteso le entrò nelle ossa con una vibrazione sorda che echeggiava nei tessuti. Non era solo suono: era una pressione dall'interno verso l'esterno. Cercò di chiudere gli occhi, di liberarsene, ma ogni rumore era amplificato: il fruscio delle lenzuola sotto la pelle, il ronzio del caricabatterie nella presa elettrica, il crepitio remoto dei muri. Fu l’udito a spezzarsi per primo. Non nel senso della perdita, ma in quello della mutazione.🜃 Le pareti si sfaldarono in un silenzio straniero: non era quiete, era attenzione. Ogni scricchiolio, qualsiasi fruscio divenne richiamo, mappa nell’aria. Sentì qualcosa che non doveva esserci. Un topo, due piani sotto, a destra. L’orecchio umano non avrebbe mai potuto udirlo. Tentò di distogliere l’attenzione da quel rumore, ma il suo corpo non le obbedì. Si tese tutto in quella direzione e lei rimase indietro, testimone di sé stessa: era uno zampettare leggero sulle assi di legno del pavimento che si fermava, attendeva e poi procedeva ancora in un piccolo trotto. Non poteva crederci, ma non poteva fare a meno di udirlo. Qualcosa di lei faceva ancora resistenza a quei sensi acuiti, come se non fosse del tutto pronta. Eppure doveva. Lo sapeva, nel profondo di sé. La forte pressione sul suo corpo era necessità e le elici si chiusero indietro, appiattendo le orecchie al cranio mentre i padiglioni venivano riassorbiti. I rumori divennero più nitidi, se possibile assordanti. I capelli sottili si ritrassero attorno alle orecchie ormai scomparse mentre la pelle in più veniva rapidamente dissolta. Non rimasero che due fori, privi di ostacoli. Sensibilissimi, sotto capelli che si diradavano a vista d'occhio su tutta la testa. Alcuni divennero peluria morbida che andò a proteggerli, nel posto delle orecchie. Ma lei non se ne rendeva conto: i suoi sensi erano già rivolti verso un'altra direzione.
La casa lì attorno si era risvegliata in un mondo che non le era mai appartenuto. Clara rabbrividì. Non di freddo. Ma di allarme. Provò a parlare, ma la voce non le uscì, come se la gola fosse strozzata e afona. La lingua secca.
Alla mezzanotte, proprio quando la pendola aveva battuto l’ultimo dei rintocchi, il tormento della sete la destò. Si alzò e andò a bere in bagno. Ci arrivò in qualche modo, inciampando sulle estremità flosce e troppo lunghe dei pantaloni; si trovò davanti al lavandino un po' alto con il rubinetto aperto che scrosciava. Non ricordava come lo avesse aperto. A fatica lo raggiunse, allungandosi verso l'alto. Non sentì il sapore dell'acqua corrente: percepì soltanto in bocca la lingua coriacea, per la quale nulla aveva più un gusto. L'acqua scorreva attraverso la gola senza lasciarle nulla, tranne un breve sollievo.
Provò a parlare ad alta voce per capire se fosse un sogno, ma le parole vennero fuori sottili e indistinte: aveva del tutto perso la voce.🝎
Fatica e disperazione la diressero verso il letto, l’ultimo rifugio in una notte di febbre e malessere. Non si era guardata nello specchio troppo in alto nel buio, non si era resa conto di non avere nemmeno acceso la luce per camminare nelle stanze. Soprattutto non si era accorta che la sua sensibilità era tale da dirigerla con assoluta certezza nell'oscurità, individuando gli oggetti attorno a lei, prima di arrivarci vicina.🝔
La percezione degli odori esplose non appena toccò il letto, come una valanga che la travolse. La stanza aveva un sentore stantio di chiuso. Lei stessa… sapeva di qualcosa che non era più completamente lei, ma nemmeno altro. Come se il suo stesso profumo le sfuggisse appena cercasse di chiarirlo nella sua memoria. Eppure tutti gli odori erano più netti e fastidiosi, attraverso il respiro, ma non sulla lingua insensibile. La sete era tornata di nuovo, implacabile. Perse coscienza di se stessa e piombò nel dormiveglia.
Al rintocco della mezz’ora🝘 sobbalzò in una contrazione. L'aria densa le fluì dentro in un lunghissimo respiro e uscì a lungo, forzatamente, fino a soffocarla. Con terrore cieco capì di non riuscire a inspirare. Nell’apnea emise un lunghissimo rantolo: naso e mento si allungarono l'uno verso l'altro: da sotto e da sopra intrappolarono in mezzo il profilo della bocca dalle labbra sottili, fino a sfiorarsi. La pelle morbida terminò il movimento e irrigidì rugosa. Poi si rapprese in cornea, rimpicciolendo. Il becco roseo schioccò completamente formato con narici a spillo verso l'alto. L'aria e la vita rifluirono dentro di lei in un primo cortissimo respiro, ma naturale. Anche se insufficiente.
Il gusto non esisteva proprio più, la lingua ridotta a una piccola scaglia il cui unico scopo era diventato strappare. Provò di nuovo a parlare. Nessuna parola: la gola era diventata incapace di far passare il suono attraverso. Già i pensieri cominciavano a sbriciolarsi in immagini. In vento, in sangue, in libertà. Le ore, i minuti, i secondi passavano, sfilacciandosi indistinti nelle sue nuove sensazioni, diventando un tutt’uno verso il successivo cambiamento.🜙
Il rintocco successivo le esplose come un lampo dietro la fronte. Clara non sapeva più in realtà che ore fossero. La parola "Clara" non aveva nemmeno più senso per lei. Non sapeva più come si facesse ad articolarla. Se ne disfò.
Non ebbe tempo di capirlo: il tempo scorreva avanti con i rintocchi nella notte. Un dolore improvviso le colpì la schiena, premuta da dentro verso l'alto. Si rannicchiò, ma non riuscì a urlare: questa volta uno stridio acuto e inumano uscì dal suo torace compresso.🝬 Il dolore si estendeva lungo la colonna vertebrale, tirava le scapole verso l’esterno. La carne cedeva sotto la spinta dell’osso, sempre di più. D’istinto allargò le braccia e quelle si distesero sottili e leggere, artigliavano l'aria a ventaglio senza dita, su e giù, estendendosi in ogni dimensione e perdendo muscoli, carne e forma. Le scapole si spalancarono completamente e il torace rimpicciolì. Un calore feroce irradiò la schiena. Stava diventando ancora più piccola, sì. Ma anche più affilata. Più precisa. Il tessuto della maglia le si attorcigliava addosso, finché la cucitura non cedette con uno strappo prolungato sul fianco. I vestiti scivolarono via inutili. Non con grazia. Ma come involucri troppo grandi per contenerla.
Se avesse potuto vedersi il suo disgusto e la sua disperazione avrebbero seguito lo stupore e la perdita. Cos'era rimasto su quel letto se non un mucchietto frastagliato di ossa, pelle e muscoli? Cosa fosse veramente non lo sapeva più.
La notte attese con pazienza e altri rintocchi le portarono delle fitte. Miriadi di aghi pungevano il tessuto ancora nudo su tutte le sue superfici. Poi piume bagnate, sottili come lame, spuntavano ovunque e si seccavano, subito gonfiandosi lungo le dita oblunghe, sulle braccia, espandendosi vaporose ed intrecciandosi. Da qui lungo il collo, il petto, la coda delle remiganti. Riempivano ogni spazio vuoto in un puzzle salvifico ma necessario, definendola nella superficie di un essere che non aveva più spazi per il tessuto umano. La sua piccola sagoma esile prese nuovamente forma. C'era più spazio vuoto fra le innumerevoli piume gonfie, che ossa e carne. Ma così era più piccola e leggera, aggraziata nelle forme.🜞
Ritta sul letto agitò i piedi sui vestiti informi sotto di lei. Ma come? Tra le articolazioni gonfie, le dita si fondevano assieme, affusolate. Le rimasero tre, forse quattro dita per piede. Quelle appena fuse si piegarono all'indietro con uno strappo lancinante, radicandosi. Le rimanenti non erano più dita: con le unghie si assottigliarono in artigli. Cercò di aggrapparvisi ma non fece altro che lacerare di netto i tessuti sottostanti. Ossa, muscoli, pelle e piume si liberavano e cambiavano verso. Chiuse gli occhi ma non gridò, non capì. Non poteva fare altro che sostenere tutto il proprio peso sulle articolazioni capovolte.🜍
Sulla testa minuta i capelli erano quasi spariti. I pochi esili ciuffi rimasti si ritraevano in piume finché il cranio non ne fu completamente avvolto, in ogni sottile sfumatura. Il becco ingiallito e adunco.🜸
Alcuni rintocchi successivi arrivarono come una fitta dietro lo sterno. Forse era l’una o forse aveva perso qualche rintocco ed erano già le tre o le quattro? I numeri non significavano più molto man mano che uscivano per sempre da lei. Divennero pochi o molti, nulla di più.🝝
E si sentiva così totalmente persa che il panico le accelerò il cuore. Come un tamburo minuscolo, batteva sempre più forte, sempre più rapido, correndo. Superò ogni limite e poi... si mantenne: divenne precipitoso e leggero, ma stabile. Il panico sparì nella normalità, mentre il respiro attraverso il becco si fece rapido, sincronizzato con le pulsazioni ora molto più veloci.🜒
Era quasi completamente piuma. Il letto la circondava come i bordi di un cratere. Lenzuola enormi. Cuscini inaccessibili. Il tatto era un tormento: ogni piega, ogni granello erano scosse che urtavano la sua sensibilità. Ma era venuto il momento in cui poteva solo sentire i rintocchi continui, non contarli. Le attraversarono il corpo. Ciascuno di essi come una pulsazione. Un’onda elettrica che saldava qualcosa nel sangue, nei nervi, nelle ossa.🝗
La fame.
Il volo.
Un tuffo nel vuoto.
Il silenzio perfetto prima della caccia.🝤
Non c’era più nessuna Clara. Ma il corpo che la definiva era quasi del tutto compiuto. Pochi colpi risuonarono nella stanza: gli occhi ancora veramente umani si spalancarono per l'ultima volta là dentro. Ogni cosa era più netta: l'insetto sul muro, la crepa, il profilo irregolare della finestra. Scordò così le tante sofferenze che aveva patito, chi? Chi lo aveva fatto? Le pupille risposero e si dilatarono e contrassero più volte, ritmicamente. Attorno a loro al primo palpito le iridi scolorivano, abbandonando il loro primitivo colore. Al successivo si riempivano d’ambra liquida, di giallo vetroso, come metallo scaldato, ma vivo e attento. In pochi palpiti l'ambra ebbe la meglio. L’intero bulbo si irrigidì, scavandosi nelle piccole orbite. Mosse la testa per guardarsi attorno e palpebre velate scattarono rapide sugli occhi. Più volte.🝪
Fuori la prima luce del giorno.🜹
Il giorno altro non era che l'alternarsi di sonno e di caccia, niente di più. Nella notte il pendolo aveva solo indicato i due estremi con lo scandire dei colpi: l’essere umano era scivolato disfacendosi dall’altra parte del sentiero. Dove, profondamente mutata, lei occupava il medesimo spazio di prima. Nulla era diverso. E tutto lo sarebbe stato d’ora in poi.🜎
Il pensiero svanì privo di significato mentre la visione si allungò, davanti e oltre, al di fuori della finestra, tra la tenda che oscillava in una lieve brezza. Il mondo fuori dalla stanza non era più un fuori separato dal dentro: era una mappa promettente di distanze, profondità, movimenti minimi. Non aveva più neppure bisogno di chiudere gli occhi: non per riposare, non per piangere, non per pensare. Il suo sguardo era aperto, immobile, perfetto. E non apparteneva a lei. Apparteneva al cielo, alla preda, alla distanza. Lei non era più la stessa.🝡
Assorbí tutto nel medesimo istante, senza esitazione.
I movimenti degli ultimi gufi lontani, le ali dei pipistrelli che correvano a rifugiarsi. L’aria smossa da una falena che cercava rifugio dal primo calore del giorno. Ogni cosa era contorno netto e colore vivido in movimento nella profondità.
Sul letto stava immobile un piccolo sparviero. Respirava e aspettava. Aveva ali chiuse. E occhi aperti.
Poi la brezza.
Lo spiraglio.
La finestra: quella aperta all’inizio della notte.🝞 Un gesto umano sulla maniglia di metallo. Il ricordo di chi lo aveva compiuto era scivolato via senza appigli. C’era solo un varco aperto che aveva senso davanti a lei, ora.
Con un solo movimento saltò giù dal letto, verso il davanzale, e stendendo le ali si lasciò cadere. Non lo fece con grazia, ma con la precisione meccanica di un ingranaggio che si tende e comincia la propria corsa. Appena sotto la finestra spinse le ali in un solo battito ben calibrato.
E il cielo là fuori la prese.🜍
Dietro di lei, sul letto, un mucchio di vestiti laceri. Una sola piuma di sparviero. E il vuoto sulle coperte si richiuse nel graduale riassestarsi del materasso senza più un peso sopra a deformarlo. In una manciata di istanti la forma della carne, di un nome, di una donna…
Svanì.🜔NOTE DELL’AUTORE
In quest’epoca in cui pensiamo di sapere tutto ma ignoriamo quello che veramente conta, può accadere di vivere in prima persona una perdita. Possiamo accettarla, non capirla o subirla: dipende dai casi.
Questo racconto non è facile e parla anche di perdita. Non offre spiegazioni immediate, non si fa avanti in punta di piedi. Per chi scrive è stata una soglia, e forse lo sarà anche per chi legge. Per questo motivo i glifi alchemici, distribuiti lungo il testo, orientano il lettore ed evitano inutili fraintendimenti. A chiunque si inoltri in queste pagine, rimarranno addosso sensazioni e forse anche turbamenti. Quali che siano, è giusto che siano vostri. Teneteli con voi per un po’, poi lasciateli andare. Non vergognatevi di quello che ci rende un po' più umani in questi tempi complicati.
🜂 Il tramonto chiude il ciclo della giornata, l'attesa accentua e preannuncia il flusso degli eventi che da qui seguiranno.
🜍 Come è vero che la mutazione accade, è anche vero che la discesa verso la violenza può essere un elemento che la accentua e finisce per agevolarne l'accettazione.🜖 Perché un corpo cambi deve assumere dentro di sé nuove informazioni che gli descrivano in che cosa mutare. Le mani fredde sono un segnale dell’eccesso di informazione che si accumula.
🜏 La quotidianità fa di noi ciò che siamo. Faticare a inserirsi in essa è sintomo che sta avvenendo un cambiamento.
🜔 Quando ancora nulla è accaduto nel piano fisico la mutazione già si manifesta come un malessere.
🜁 La mente già percepisce di essere nel posto sbagliato e vuole essere nello spazio fuori dalla stanza considerata innaturale.
🜖 Prima alterazione del senso del gusto. Il tempo si contrae a far combaciare passato e futuro in un istante che diventa soglia. Una volta attraversata (si strappò) si mettono in moto gli eventi.
🜎 Le strutture ossee e muscolari hanno cominciato a perdere le loro funzioni.
🜚 Serve uno spiraglio non solo perché le cose accadano, ma anche perché le storie abbiano inizio.
🜖 Nuova leggera manifestazione dell’alterazione dei sensi.
🜹 Sottili mutamenti si instaurano nel corpo.
🜄 I suoni della natura, ovvero la nuova quotidianità che l'attende, cullano e accelerano insieme la trasformazione.
🝩 Qui comincia la perdita della capacità di contare, rimpiazzata da altri sensi.
🜃 Prima cambiano i sensi, dopodiché la fisiologia dell'organismo si adatta al cambiamento e muta nella struttura.
🝎 Qui inizia la perdita della voce.
🝔 Le capacità venute meno sono state rimpiazzate da un ottimo orientamento nello spazio.
🝘 La scansione delle ore cambia. Qui si parla della mezz’ora per la prima volta perché la percezione dello scorrere del tempo da questo punto in poi si altera per poi divenire indistinta, non più importante ai fini del racconto.
🜙 La perdita della concezione dei numeri e del tempo accelera la metamorfosi.
🝬 Il primo suono inumano per la vecchia forma è il suono naturale per la nuova creatura che lei sta diventando.
🜞 Qui le mutazioni si accumulano e stratificano una dopo l'altra. I cambiamenti passano dal mostruoso al necessario, mentre le piume ridanno grazia e forma esterna al nuovo organismo.
🜍 Si mette nella posa naturale dello sparviero, ovvero appollaiata.
🜸 Con sfumature si intende l'alternanza cromatica delle piume, mentre il becco prima rosato assume la propria consistenza e colorazione finale.
🝝 I numeri scompaiono nella connotazione “pochi” e “molti”, in un concetto di sopravvivenza. Non più risultato di un'addizione ma percezione per istinto.
🜒 Il battito cardiaco accelerato dal panico diventa naturale e si sincronizza con il respiro.
🝗 I battiti del pendolo seguono tutte le fasi della metamorfosi e verso la sua fine la suggellano. Il tempo è prima guardiano e infine custode di quanto accaduto.
🝤 I pensieri divengono brevi, secchi, intervallati: simboleggiano le fasi dell'istinto che ha sostituito la coscienza dell'essere umano. Rimarranno da qui in poi frammenti di pensiero umano, destinati ad essere pensati solo per un’ultima volta, per poi svanire.
🝪 Riferimento anatomico alle palpebre nittanti degli uccelli rapaci.
🜹 L'alba ha il ruolo di finale nel ciclo notturno della metamorfosi, iniziato con il tramonto. È simbolo di rinascita, ma anche di chiusura in questo caso.
🜎 La metamorfosi avvenuta non ha motivazione: non è castigo o scelta ma un processo fisico irreversibile, analogo al sasso che scivola per gravità lungo una discesa.
🝡 Attraverso la mutazione completa degli occhi si disfano gli ultimi pensieri umani. Questa è la conclusione della metamorfosi.
🝞 1) Il racconto non ha inizio dall’alba, ma dal tramonto così che l’alba diventa finale e rinascita di tutto, analogamente a quanto avviene in maniera simbolica in altre opere letterarie.
2) Mentre la percezione dei colpi della pendola diventa metronomo della trasformazione, la finestra assume il ruolo simbolico di soglia, in un circolo che collega l’inizio e la fine del racconto.
🜍 Fuori da quella finestra lei, altro da quella che era, viene accolta e trova il proprio posto nell'ordine naturale delle cose.
🜔 Non è solo scomparsa di un profilo sul letto o di un essere vivente, perché quella persona mutata in sparviero ha trovato solo una sua nuova collocazione nell’insieme degli esseri viventi. L’universo non ama il vuoto, ma l’equilibrio e quindi la metamorfosi non è un annullamento, ma un diverso disporsi degli elementi. Dal particolare al generale e da quest’ultimo il ritorno a un diverso particolare