“Mio papà non mi lascia”. Era un ritornello familiare a Gaia. Non ci vedeva nulla di strano, lei era la bambina e lui l’adulto; spettava a lui decidere cosa fosse adatto a lei o no. Comunque, lei, da sola, non l'avrebbe saputo. I pericoli che si celavano dietro certe azioni ancora non avevano perso agli occhi di Gaia la loro aura sacrale. Per esempio, sapeva che aprire lo sportello della stufa per mettere nuova legna era pericoloso, ma allora non capiva perché il fuoco bruciasse solo i bambini e non gli adulti, che aggiungevano in continuazione nuovi ceppi. Quei divieti creavano come una cortina di mistero che rendeva il mondo degli adulti inaccessibile e poco appetibile. Gaia era una di quelle poche bambine che il fantasma della fretta di crescere aveva risparmiato. Era contenta, a nove anni, di dare il tè agli orsacchiotti nelle tazzine di plastica e far muovere marionette di cartone nel teatro di una scatola da scarpe. Non era infantile, indietro nello sviluppo, come si suol dire. Al contrario, era ben consapevole dei suoi privilegi di infante, che saggiamente cercava di prolungare il più possibile. Aveva iniziato a sentirsi a disagio coi divieti paterni solo con l'ingresso alla scuola elementare, e, in particolare, per colpa del corso di nuoto. Gaia non si era mai avvicinata all'acqua. La sua famiglia non faceva vacanze al mare, ma solo in montagna o, più di rado, nelle città d’arte. Ora, che Gaia non sapesse nuotare non era grave alla sua età: nella sua classe c'erano altri due bambini che ancora non avevano imparato. Era a questo che serviva il corso di nuoto proposto dalla scuola. Solo che lei, a differenza loro, non avrebbe avuto la possibilità di imparare perché suo padre non aveva firmato l'autorizzazione. Era allora che erano cominciate le domande e che la sua formula magica abituale, "mio papà non mi lascia", non era più bastata. I compagnetti avevano fatto spallucce e subito perso interesse per la questione, ma non era così per gli adulti. La maestra, se non altro, aveva captato il suo imbarazzo e, dopo un po’, l'aveva lasciata in pace. Non era stato lo stesso con le due mamme rappresentanti di classe. Avevano interesse a vederci chiaro in quella faccenda anche perché il consiglio di classe aveva delegato a loro il compito di trovare un'alternativa per Gaia durante le due ore del corso. Una piccola spiegazione, Gaia si era sentita di fornirla, perlomeno onde evitare che le congetture delle due rappresentanti si spingessero troppo lontano. Aveva detto: «È perché è pericoloso. Nuotando si può annegare, per questo mio padre non mi lascia». In cuor suo, era contenta del buon senso del suo papà che la voleva lontana dai pericoli. Aveva un sacrosanto terrore dell'acqua, ma non sarebbe stato esatto dire che era quella la ragione per cui il mercoledì se ne stava seduta sugli spalti della piscina, stretta tra Mamma Rosa e mamma Martina, cercando di completare le parole crociate per bambini che le due le consegnavano con fierezza alla mattina. Dico "cercando di completare" perché Gaia era costantemente interrotta dalle loro domande, poste con regolarità come se fossero casuali.
«E tuo padre, sa nuotare?»
«E al mare come fai, stai tutto il tempo sotto l'ombrellone?»
«Lo sai che hanno detto in televisione che il nuoto è lo sport più completo e quindi più adatto nella fase della crescita?»
Gaia sentiva quelle domande più o meno retoriche risuonarle nella testa ben più a lungo delle due ore del corso. Un sabato pomeriggio decise di affrontare la questione direttamente con suo padre. Non riuscì a scoprire molto: il padre sapeva nuotare, sì, e sì, aveva imparato da piccolo. No, non gli aveva insegnato suo padre, ma suo nonno. Era strano vedere il padre, di solito così affabile e chiacchierone, schivo e laconico. Per sfuggire all'interrogatorio, si era alzato dal divano ed era scappato e riparare qualcosa in garage. Gaia ebbe un po' di timore di quella reazione insolita, sentiva che si stava addentrando su un sentiero delicato, un sentiero che scorreva lungo la schiena di suo padre e su cui lei camminava con tacchi a spillo di ferro. Ogni passo in quella direzione gli faceva del male, era questa la sensazione. Decise quindi di lasciarlo in pace e rivolgersi a zia Marina, sorella di suo padre. Zia Marina al mare ci andava in vacanza tutti gli anni, Gaia lo sapeva perché ad Agosto arrivava sempre una cartolina con su scritto: “Saluti salati da Loano". Gaia aveva sempre pensato che forse c'era qualcosa, nel nome della zia, a proteggerla dai pericoli del mare. Suo padre da piccola le ripeteva spesso che l'aveva chiamata Gaia così non sarebbe mai stata triste. Se quel nome proteggeva lei dalla tristezza, allora anche zia Marina era protetta dalle insidie del mare. Erano sedute insieme alla caffetteria delle Mura, davanti a una cioccolata fumante, come ogni lunedì. La zia allungò un braccio sul tavolino e le fece una carezza sulla mano. «E tuo padre, non ti ha risposto?». Gaia la guardo fissa, e quello servì come risposta. La zia sorrise mestamente: «Parlagli seriamente una volta che ha tempo. Digli che è importante per te capire. Non spetta a me spiegartelo».
Nelle settimane che seguirono, il papà di Gaia sembrava non avere un secondo libero. Persino le storie della sera erano più corte del solito, i finali affrettati e a volte poco credibili. Gaia si chiedeva se erano le qualità di cantastorie di suo padre a essere peggiorate o se non fosse semplicemente lei che stava crescendo. Una sera, Gaia prese coraggio e disse: «Niente storia stasera, Pa’».
Il padre restò per un attimo interdetto. Nel suo sguardo passarono, nell'ordine, tristezza, risentimento e una serena esultante comprensione, come di chi crede di aver risolto un enigma; sua figlia stava crescendo. Fece per alzarsi e spegnere l'abat-jour, ma Gaia sporse un braccio fuori dalle coperte ben rimboccate e lo toccò per fermarlo.
«Aspetta. Al posto della storia, spiegami perché non hai dato l'autorizzazione al corso di nuoto». Esitò un attimo, poi riprese, supplicante: «Ci metterà lo stesso tempo della storia».
Il padre si risedette con lentezza sulla sedia a fianco del lettino di Gaia. Guardava qualcosa davanti a sé, e taceva. Quando cominciò a parlare doveva essere passato molto tempo, perché Gaia sobbalzò: nonostante la tensione del momento il sonno aveva quasi avuto la meglio.
«Io non sono il minore dei miei fratelli. Zia Marina era la più grande, io ero quello di mezzo, e... Eravamo in tre, da piccoli. C'era anche Osvaldo. Passavamo i mesi delle vacanze scolastiche a Loano, nella casa che i nostri nonni affittavano tutta l'estate. È lì che ho… Che abbiamo, tutti, imparato a nuotare. Osvaldo aveva la tua età, io tre anni di più, eppure era lui il più bravo. Sapeva fare lo stile libero, il delfino, dorso e rana, e vinceva sempre le gare di apnea. Al tramonto, quando le spiagge si svuotavano dei turisti alla giornata, facevamo delle spedizioni per cercare i ricci tra gli scogli. Li portavamo ai pescatori, che li avrebbero rivenduti al mercato del pesce all’alba. Coi quattro soldi che ci davano ci pagavamo i baracconi la sera. Il riccio, la femmina, quando è la stagione si mangia; è una prelibatezza»
Solo in quell’ultima frase Gaia riconobbe il tono che ben conosceva, di chi è sempre pronto a spiegare, a raccontare usi e costumi di altrove o di altre epoche. Ma la voce cambiò repentinamente mentre continuava: «C'era uno scoglio che conoscevamo, che era sempre pieno di ricci. Non si accedeva dalla riva, e a nuoto non era vicinissimo. Era un blocco di rocce a circa un metro di profondità. Ci andavamo col canotto, poi ci immergevamo con la maschera e a mano a mano che prendevamo i ricci li buttavamo a bordo, nei secchi. Quella sera il tempo non era bello, minacciava pioggia. Era già fine settembre. Il sole vicino alla linea dell’orizzione era ridotto ad una piccola palla rossa offuscata, troppo debole per tingere il cielo dei colori del tramonto. Il mare era grosso, ma non troppo, avevamo fatto di peggio. Quando col canotto arrivammo in prossimità della roccia, vidi un'esitazione in Osvaldo e gli dissi «Dai, facciamolo e torniamo indietro». Mentre lavoravamo per riempire il canotto il mare si alzò e noi non ce ne accorgemmo. A un certo punto riemergemmo contemporaneamente con due ricci ciascuno e il canotto non c'era più, o eravamo noi che eravamo stati spostati dalle onde. Lo vedevamo appena, parecchi metri più in là. Faticavamo a stare a galla, le onde erano troppo alte. Persi di vista Osvaldo e continuai a fare bracciate in quella che pensavo fosse la direzione del canotto e della riva, pensando che sicuramente mio fratello, che era un nuotatore migliore, mi precedeva. Ricordo che in testa avevo che dovevo nuotare il più veloce possibile per raggiungerlo, perché non si preoccupasse per me. Io ero il più grande, ma in mare era lui che proteggeva me. Quando finalmente sentii la sabbia sotto i piedi, vidi che sulla spiaggia c'era tanta gente, e in mare aperto dei motoscafi della Guardia costiera. Mi stavano cercando. Ancora pensavo che Osvaldo fosse già sano e salvo a riva da un pezzo. Invece no, trovarono il corpo tre ore più tardi frantumato sugli scogli del molo. La corrente era stata più forte di lui e l'aveva trascinato in quella direzione. Lui, che nuotava meglio e più veloce». Tacque per un attimo, poi disse a voce più bassa, come se stesse ripetendo tra sé e sé una sorta di mantra: «Nuotare è pericoloso. Anche i migliori possono affogare». Il padre non piangeva, non esternava emozioni, e il che era terrificante. Nei suoi occhi vuoti e nella rigidità della mascella Gaia poteva leggere la profondità di un dolore inestinguibile e incondivisibile. La testa le ronzava, respirava a fatica e tutto in lei era tristezza e pena. Forse per la prima volta, provava sulla sua pelle che nessun nome ha il potere di proteggere dalla vita.
«E tuo padre, sa nuotare?»
«E al mare come fai, stai tutto il tempo sotto l'ombrellone?»
«Lo sai che hanno detto in televisione che il nuoto è lo sport più completo e quindi più adatto nella fase della crescita?»
Gaia sentiva quelle domande più o meno retoriche risuonarle nella testa ben più a lungo delle due ore del corso. Un sabato pomeriggio decise di affrontare la questione direttamente con suo padre. Non riuscì a scoprire molto: il padre sapeva nuotare, sì, e sì, aveva imparato da piccolo. No, non gli aveva insegnato suo padre, ma suo nonno. Era strano vedere il padre, di solito così affabile e chiacchierone, schivo e laconico. Per sfuggire all'interrogatorio, si era alzato dal divano ed era scappato e riparare qualcosa in garage. Gaia ebbe un po' di timore di quella reazione insolita, sentiva che si stava addentrando su un sentiero delicato, un sentiero che scorreva lungo la schiena di suo padre e su cui lei camminava con tacchi a spillo di ferro. Ogni passo in quella direzione gli faceva del male, era questa la sensazione. Decise quindi di lasciarlo in pace e rivolgersi a zia Marina, sorella di suo padre. Zia Marina al mare ci andava in vacanza tutti gli anni, Gaia lo sapeva perché ad Agosto arrivava sempre una cartolina con su scritto: “Saluti salati da Loano". Gaia aveva sempre pensato che forse c'era qualcosa, nel nome della zia, a proteggerla dai pericoli del mare. Suo padre da piccola le ripeteva spesso che l'aveva chiamata Gaia così non sarebbe mai stata triste. Se quel nome proteggeva lei dalla tristezza, allora anche zia Marina era protetta dalle insidie del mare. Erano sedute insieme alla caffetteria delle Mura, davanti a una cioccolata fumante, come ogni lunedì. La zia allungò un braccio sul tavolino e le fece una carezza sulla mano. «E tuo padre, non ti ha risposto?». Gaia la guardo fissa, e quello servì come risposta. La zia sorrise mestamente: «Parlagli seriamente una volta che ha tempo. Digli che è importante per te capire. Non spetta a me spiegartelo».
Nelle settimane che seguirono, il papà di Gaia sembrava non avere un secondo libero. Persino le storie della sera erano più corte del solito, i finali affrettati e a volte poco credibili. Gaia si chiedeva se erano le qualità di cantastorie di suo padre a essere peggiorate o se non fosse semplicemente lei che stava crescendo. Una sera, Gaia prese coraggio e disse: «Niente storia stasera, Pa’».
Il padre restò per un attimo interdetto. Nel suo sguardo passarono, nell'ordine, tristezza, risentimento e una serena esultante comprensione, come di chi crede di aver risolto un enigma; sua figlia stava crescendo. Fece per alzarsi e spegnere l'abat-jour, ma Gaia sporse un braccio fuori dalle coperte ben rimboccate e lo toccò per fermarlo.
«Aspetta. Al posto della storia, spiegami perché non hai dato l'autorizzazione al corso di nuoto». Esitò un attimo, poi riprese, supplicante: «Ci metterà lo stesso tempo della storia».
Il padre si risedette con lentezza sulla sedia a fianco del lettino di Gaia. Guardava qualcosa davanti a sé, e taceva. Quando cominciò a parlare doveva essere passato molto tempo, perché Gaia sobbalzò: nonostante la tensione del momento il sonno aveva quasi avuto la meglio.
«Io non sono il minore dei miei fratelli. Zia Marina era la più grande, io ero quello di mezzo, e... Eravamo in tre, da piccoli. C'era anche Osvaldo. Passavamo i mesi delle vacanze scolastiche a Loano, nella casa che i nostri nonni affittavano tutta l'estate. È lì che ho… Che abbiamo, tutti, imparato a nuotare. Osvaldo aveva la tua età, io tre anni di più, eppure era lui il più bravo. Sapeva fare lo stile libero, il delfino, dorso e rana, e vinceva sempre le gare di apnea. Al tramonto, quando le spiagge si svuotavano dei turisti alla giornata, facevamo delle spedizioni per cercare i ricci tra gli scogli. Li portavamo ai pescatori, che li avrebbero rivenduti al mercato del pesce all’alba. Coi quattro soldi che ci davano ci pagavamo i baracconi la sera. Il riccio, la femmina, quando è la stagione si mangia; è una prelibatezza»
Solo in quell’ultima frase Gaia riconobbe il tono che ben conosceva, di chi è sempre pronto a spiegare, a raccontare usi e costumi di altrove o di altre epoche. Ma la voce cambiò repentinamente mentre continuava: «C'era uno scoglio che conoscevamo, che era sempre pieno di ricci. Non si accedeva dalla riva, e a nuoto non era vicinissimo. Era un blocco di rocce a circa un metro di profondità. Ci andavamo col canotto, poi ci immergevamo con la maschera e a mano a mano che prendevamo i ricci li buttavamo a bordo, nei secchi. Quella sera il tempo non era bello, minacciava pioggia. Era già fine settembre. Il sole vicino alla linea dell’orizzione era ridotto ad una piccola palla rossa offuscata, troppo debole per tingere il cielo dei colori del tramonto. Il mare era grosso, ma non troppo, avevamo fatto di peggio. Quando col canotto arrivammo in prossimità della roccia, vidi un'esitazione in Osvaldo e gli dissi «Dai, facciamolo e torniamo indietro». Mentre lavoravamo per riempire il canotto il mare si alzò e noi non ce ne accorgemmo. A un certo punto riemergemmo contemporaneamente con due ricci ciascuno e il canotto non c'era più, o eravamo noi che eravamo stati spostati dalle onde. Lo vedevamo appena, parecchi metri più in là. Faticavamo a stare a galla, le onde erano troppo alte. Persi di vista Osvaldo e continuai a fare bracciate in quella che pensavo fosse la direzione del canotto e della riva, pensando che sicuramente mio fratello, che era un nuotatore migliore, mi precedeva. Ricordo che in testa avevo che dovevo nuotare il più veloce possibile per raggiungerlo, perché non si preoccupasse per me. Io ero il più grande, ma in mare era lui che proteggeva me. Quando finalmente sentii la sabbia sotto i piedi, vidi che sulla spiaggia c'era tanta gente, e in mare aperto dei motoscafi della Guardia costiera. Mi stavano cercando. Ancora pensavo che Osvaldo fosse già sano e salvo a riva da un pezzo. Invece no, trovarono il corpo tre ore più tardi frantumato sugli scogli del molo. La corrente era stata più forte di lui e l'aveva trascinato in quella direzione. Lui, che nuotava meglio e più veloce». Tacque per un attimo, poi disse a voce più bassa, come se stesse ripetendo tra sé e sé una sorta di mantra: «Nuotare è pericoloso. Anche i migliori possono affogare». Il padre non piangeva, non esternava emozioni, e il che era terrificante. Nei suoi occhi vuoti e nella rigidità della mascella Gaia poteva leggere la profondità di un dolore inestinguibile e incondivisibile. La testa le ronzava, respirava a fatica e tutto in lei era tristezza e pena. Forse per la prima volta, provava sulla sua pelle che nessun nome ha il potere di proteggere dalla vita.