L'uomo che dava i nomi alle stelle
Inviato: mer dic 04, 2024 10:46 am
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Verso i sette anni, Aku, guardando le tre misere galline che la madre possedeva, e ascoltando il loro buffo crocchiare, decise di imporre loro un nome, visto che non aveva altro da fare. A quella più grossa, che beccava le altre due, diede il nome di Aar-Maakaa; alla più piccola e spennacchiata Aar-Vivilaa, e alla terza Aar-Cudu. Decise, Aku, che tutte le galline dovevano avere un nome che iniziasse con “Aar”, perché il suono aar gli pareva intimamente connesso alla terra, alla polvere, al razzolare su e giù. Quando lo disse alla madre lei sorrise per quell’invenzione infantile e non vi fece molto caso, perché doveva ancora raccogliere la legna per il camino, frugare nell’orto per un po’ di insalata scampata alle lumache e fare altre cento cose, come sempre.
Aku, che si annoiava sempre molto e amava poco la compagnia degli altri ragazzini di Belpoggio, incominciò così, per gioco, ad assegnare nuovi e inauditi nomi alle cose attorno a lui. Il cane rognoso dei vicini divenne Buk-Malin, perché ad Aku la bestia faceva un po’ schifo e lo spaventava, e il suono buk gli rappresentava bene quel sentimento, che impose più tardi alla palude a sud, che era insidiosa e tutti la evitavano, che divenne Buk-Waagah. Il grande albero che dominava dal poggetto a nord, da dove si vedeva tutto il villaggio, fu invece Gaal-Federoss, e tutte le cose belle e grandi sarebbero state gaal perché quel suono era, assieme, fluido e imponente, chiaro e rassicurante. E ricevettero il loro nome i gatti del villaggio, anche se i loro padroni già ne avevano assegnati altri, il ruscello a valle, che si chiama Pinda per tutti, ma Aku lo ribattezzò Fetfet-Boo, perché quello scorrere umido e allegro doveva per forza essere un fetfet.
A otto anni andò a badare le pecore per Calamao. Non che ne avesse tante; quattordici pecore, dalle quali ricavava un po’ di lana, latte e ogni tanto un bell’agnello. Calamao portò con sé Aku il primo giorno e gli spiegò come doveva fare; che poi era tutto abbastanza semplice: all’alba si andava al recinto, si apriva il cancello e si facevano passare le pecore contandole, per sicurezza. Poi, con uno schiocco della lingua accompagnato da un “Ohi, ohi!”, le si incitava a proseguire verso il pascolo. Verso sera, schiocchi e ohi ohi, tutte indietro fino al recinto, contandole un’altra volta.
Ma Aku non sapeva contare, i numeri lo confondevano. Semplicemente diede a ogni pecora un nome, preceduto da cuu, che gli pareva azzeccato per animali così stupidi; cuu era una testimonianza di stolida rassegnazione, placida tranquillità e sciocca inconsapevolezza, e le pecore, ad Aku, parevano certamente essere cuu. Gli bastava, mattina e sera, nominarle tutte a vista, ché aveva grande occhio per i dettagli e le distingueva benissimo, e poiché aveva una memoria eccezionale capiva subito se tutto l’elenco di pecore che aveva in mente era completo oppure no. Così portava al pascolo Cuu-Gaamaa, Cuu-Reebee, Cuu-Aamii, Cuu-Daatee, Cuu-Kooloo, Cuu-Geecee, Cuu-Faateo, Cuu-Veekoo, Cuu-Liibii, che era in realtà un castrato scampato all’arrosto ma ovviamente, per Aku, contava come una pecora, poi Cuu-Dregaa, Cuu-Tuubaa, Cuu-Jaajaa, Cuu-Aahma e infine Cuu-Oioo, che era la più vecchia e forse non avrebbe superato l’inverno.
I mesi volarono, e iniziarono a passare gli anni. Ogni tanto una pecora moriva o, più frequentemente, veniva macellata, e altre giovani pecore venivano aggiunte al gregge. Aku dava alle nuove arrivate il nome appropriato, non usando mai quelli di pecore precedenti, già macellate, vendute o morte per un accidente. I nomi, pensava Aku, devono racchiudere in qualche modo l’essenza dell’animale, dell’oggetto, dell’albero, e nessun altro poteva avere le medesime, identiche, caratteristiche.
Crescendo solo e strambo, finì coll’essere schernito dagli abitanti del villaggio, che lo ritenevano scemo, un po’ come Alimu, il figlio di Oriste, che aveva lo sguardo fisso, sbavava e mugolava tutto il giorno. Certo, Aku non sbavava, e sapeva accudire le pecore, ma quella stranezza di dare nomi a tutto e a tutti era decisamente una cosa poco normale, e anche il magio del villaggio diceva che sì, Aku era utile e non dava fastidio a nessuno, ma non era una persona normale. Così Aku crebbe nella solitudine, senza amori e senza affetti, e anche dopo la morte della madre continuò a fare il custode di pecore, semmai con greggi, mai sue, più grandi.
Aku non aveva mai sentito il bisogno di compagnia. Fin quando poteva dare nomi al mondo, lui era sereno, se non proprio felice. Ma attorno ai vent’anni di cose senza nome non ce n’erano più, e Aku sentì un fastidioso prurito nella sua testa, un prurito che non riusciva a grattare.
Finché una sera, meditando sotto il grande Gaal-Federoss, alzò gli occhi al cielo e vide tutte quelle stelle, in attesa che lui trovasse loro il nome.
Oh, che spettacolo, che impresa, che fantastica sensazione!
Decise immediatamente che le stelle erano aah, perché quello gli parve il suono della meraviglia, dello stupore, della sospensione, ma anche della luce, della salvezza.
Così cominciò da Aah-Rety, per passare alla luminosa Aah-Tyry, e lì vicino c’era Aah- Fertyghan, e poi Aah-Mnetsy, Aah-Givorax…
La sera dopo proseguì; e quella successiva, e per innumerevoli sere, ché la volta celeste mutava notte dopo notte e nuove stelle comparivano all’orizzonte.
Aku memorizzava esattamente le posizioni degli astri, e ogni notte le rammentava tutte, finché non furono talmente tante che, se voleva pronunciare il nome di ciascuna, non gli rimaneva tempo per darne uno alle innumerevoli stelle rimaste ancora senza. E questo non doveva accadere, perché senza un nome distintivo, così pensava Aku, semplicemente sarebbero potute sparire senza che qualcuno se ne accorgesse. E le sue notti sotto Gaal-Federoss si allungavano, lui dormiva sempre meno per portare avanti l’impresa, il suo sonno si accorciava e con sempre maggiore malumore conduceva le pecore al pascolo; finché un mattino fu trovato dormiente sotto l’albero, le pecore ancora chiuse nel recinto, e il padrone lo cacciò in malo modo.
A chi gli chiese come avesse potuto, in maniera così sciocca, perdere il lavoro che, unico, gli dava di che vivere, Aku rispondeva che stava dando i nomi alle stelle, ma che erano così tante, ma così tante!
Finché qualcuno, forse per prenderlo in giro, forse perché incuriosito dalla stramberia, lo raggiunse sotto l’albero e gli chiese - Come si chiama quella stella?
- Quale dici? - rispose Aku.
- Quella lì, la terza di quel gruppo che pare formare una linea…
- Quella è Aah-Tresside.
- E quella?
- Se intendi quella azzurrina si tratta di Aah-Fahalith.
- E quella là? Quella molto luminosa…
- Ah, quella… Non è una stella.
- Ah no? E come sarebbe?
- Le stelle vere sono immobili. Ma alcune si muovono, sembra che non vogliano stare al loro posto. Quella è Ruu-Valika.
- E perché si chiama così?
- Perché ruu è il suono dell’indisciplina, del disordine… e quelle stelle strane sono indisciplinate, non vogliono seguire le regole del cielo.
Così altra gente incominciò a salire sulla collinetta, di sera, per farsi dire i nomi delle stelle, chi portando un pane, chi una fiasca di latte. Aku di giorno dormiva, e di sera dava i nomi alle stelle, che sembrava non finissero mai, e li spiegava ai visitatori che gli portavano cibo, a volte una coperta, un po’ di compagnia.
Una sera arrivò Virna. Lei gli chiese: - Come mi chiamo io? - Ma Aku non seppe rispondere, perché non l’aveva mai vista, non era del villaggio. Lei lasciò scivolare la tunica dalle spalle, e rimanendo nuda di fronte a lui gli chiese: - E questo, come si chiama? - E ancora Aku non seppe rispondere perché mai aveva visto le forme femminili, anche se le aveva sempre immaginate e desiderate. Non ricevendo ancora risposta lei si fece ardita, lo spinse a terra e gli montò sopra. - Come si chiama questo? - Chiese ancora senza ricevere risposta. Infine Virna prese ad Aku ciò per il quale era venuta; si alzò, rimise la tunica e gli disse: - Io ti ho capito. Tu possiedi tutti i nomi del vuoto e delle cose, ma ti mancano i nomi del pieno e della vita.
Quella sera Aku non riuscì a guardare il cielo. Dopo avere seguito con lo sguardo la donna che si allontanava nelle tenebre, rimase pensoso, intimorito, confuso. Lui, che aveva dato un nome a praticamente ogni cosa, ogni bestia, ogni paesano gli si fosse parato davanti negli ultimi anni, proprio lui, che stava compiendo l’opera gigantesca di dare un nome a ogni stella, a ogni stella! Lui, proprio lui, non aveva nomi per ciò che gli era successo. Cosa gli era successo? Non era un fatto di carne (fla, poi il tipo di carne: di persona, di animale commestibile, di animale domestico…); non era un fatto di femmina (hu, poi il tipo di femmina: madre, figlia, una donna sconosciuta…); non era nemmeno l’atto sessuale in sé, che conosceva bene avendolo visto fare fra galli e galline, montoni e pecore, stalloni e giumente, e sì, certo, sapeva che era necessario per fare figli, e aveva capito che era piacevole, e segreto, e per tutto questo si chiamava wuu perché quello è il suono che aveva l’atto sessuale, la pudicizia, la segretezza, assieme al piacere e a una certa vergogna. Aku capiva che non aveva un nome, per ciò che aveva fatto con la ragazza, perché non si trattava di cose. Le cose, gli animali, le montagne, hanno un nome perché possiedono un suono segreto che ne racchiude l’essenza, che è immutabile. Ma quella cosa…
Non era immutabile. Non aveva un essenza ma molteplici. Possibile che avesse molteplici nomi? Ma non era una cosa ma piuttosto… come le cose stavano fra loro.
Trovò straordinaria questa scoperta. Non solo cose, immutabili; ma qualcosa che succede fra le cose, in particolare fra le persone, che è invero assai mutabile.
Aku si addormentò, fra mille nuovi pensieri.
Si svegliò all’alba, ricomponendo le idee dove le aveva lasciate. Più tardi arrivò Camen, una vecchia affezionata che gli portava spesso pane e formaggio, ritenendolo un magio, quindi propizio e da propiziare. Aku la guardò e le chiese: - Che stai facendo Hu-Lee-Camen? - perché lee era il suono che apparteneva alla vecchiaia.
- Ti ho portato un po’ di pane e formaggio.
- E come chiami questo tuo portare?
- Oh bella… non so cosa risponderti…
- È pietà? Amicizia? Devozione, stima, prudenza? È una specie di invocazione agli dei, il ricordo di quando ti prendevi cura dei tuoi figli, o del tuo defunto marito? Forse ti ricordo lui, forse desideri che io sia lui, è così? Oppure è un’abitudine, questo tuo portare, una sfida al magio del villaggio, una burla, una gara con le altre comari… potrebbe essere, no? Una fissazione da vecchia, un rituale da te stessa non compreso, la forma della tua follia, il desiderio di essere considerata buona, di ottenere un premio dagli dei, eh? Cos’è, vecchia, questo tuo portare?
La donna, un po’ spaventata, lasciò il cibo vicino ad Aku e disse, soltanto: - Aku, non so cosa mi chiedi, né perché tu lo faccia. Hai elencato tante ragioni possibili e io non so se siano tutte giuste, o una soltanto o nessuna. Ti ho portato il cibo, eccolo; spero ti sazi, almeno per oggi.
E ciò detto la donna si voltò e tornò indietro.
Allora Aku iniziò a pensare di averla offesa, o indispettita, annoiata, importunata, o forse confusa, alienata, allontanata da lui, allontanata dalla sua stessa carità, o viceversa divertita, in fondo in fondo, ché avrebbe avuto di che raccontare alle altre vecchie. E tutto questo, tutto questo, come lo si poteva chiamare?
Assai più tardi, verso il tramonto, arrivò una guardia dalla Città. Aku lo identificò come guardia per il buffo costume giallo e blu che portava, che aveva già visto molti anni prima quando il Vescovo era venuto in visita pastorale, e dallo spadone che rendeva ridicolo il suo incedere su per la collina. Arrivato a pochi passi lo apostrofò con voce aspra: - Sei tu Aku, il magio di Belpoggio?
- Sono certamente Aku, e abito a Belpoggio; che io sia un magio lo dice la gente.
- Sua Eccellenza il Priore della Città, che governa l’intera Provincia, ha sentito molto parlare di te e ti chiede di incontrarlo da qui a dodici giorni, quando passerà per il suo villaggio, diretto al Signore di Villablù. Sarai disponibile? Hai un vestito adatto? Potrai lavarti e renderti presentabile?
Aku lo guardò e, per tutta risposta, chiese alla guardia: - Come chiami questo tuo chiedere?
- Lo chiamo obbedire a un ordine, e ti suggerisco di rispondere in fretta, che è quasi il tramonto e devo cercarmi un alloggio in paese.
- No, no… non mi capisci… Si chiama forse obbedire, sì, come dici tu, ma cosa significa? Devozione, paura, abitudine? Addestramento? Stupidità, inconsapevolezza oppure il suo contrario, potrebbe essere il suo contrario… Percepisco anche noia, disinteresse, fatica, stanchezza che ti svuota la mente e ti fa agire senza porre domande. E il tuo tono… Minaccia? Imposizione, costrizione, intimidazione, autorità, violenza latente? E poi, accidenti com’è complicato, c’è pure codesto Priore… Curiosità, diletto, dileggio, convinzione, passatempo, per non dir del caso… È troppo… è troppo…
E Aku sperse lo sguardo nel vuoto e non sentì più il soldato, che dopo un po’ perse la pazienza e abbandonò quel matto tornando al villaggio.
Le relazioni fra cose potevano essere semplici, decise Aku. Ma le relazioni fra persone, per gli dei! Che confusione, che complicazione, che intrico di cose dentro cose dentro altre cose…
Aku capiva che le relazioni fra quelle “cose” che erano le persone erano così difficili da determinare che diventava impossibile dare loro un nome. Anche quelle, enormemente più semplici, fra persone e animali, richiedevano uno sforzo immane per coglierne l’essenza. Tutto questo dava ad Aku un senso fastidioso di vertigine, un disorientamento che lo faceva vacillare. Capiva, lo capiva chiaramente, che poteva perdere la ragione proseguendo lungo questo sentiero.
Molto meglio lasciare perdere.
Che la donna le portasse il pane, se credeva. Che il soldato ordinasse, che la giovane sconosciuta venisse e si denudasse, se lo desiderava. Lui avrebbe accettato il pane, ascoltato il milite, accondisceso alla donna, ma non avrebbe cercato i nomi profondi delle loro azioni, motivazioni, sentimenti, desideri, quelli che avrebbero dovuto racchiudere l’essenza dei loro perché e percome, dei loro quando e dove, delle loro essenze, fatte di relazioni fra altre essenze, compenetrate da altre ancora, incrociate da fatti, tempi, volti, sentimenti, motivi, casualità, desideri, paure, abitudini, e mille e mille altri accidenti e fattori che, solo a cercare di pensarli, parevano ad Aku più vasti dell’intero firmamento.
Meglio, molto meglio, dedicarsi alle stelle.
Da quella sera Aku tornò a rimirare il cielo. Così rassicurante, immobile, prevedibile, finito. Aveva ancora un bel po’ di stelle da nominare. C’era ancora tanto lavoro.
Passarono gli anni; Aku aveva dato i nomi, ormai, a quasi tutte le stelle che riusciva a vedere, quando si accorse che la vista iniziava a ingarbugliarsi, e là dove erano fitte fitte, e piccole piccole, faticava sempre più a distinguerle, e a nominarle correttamente.
Aku capì che era un segnale. Pian piano, con dispiacere, si accomiatò dai monti che erano gaal, dal villaggio che era btu perché chiassoso e polveroso, dalle sue stelle che conosceva tutte, o quasi tutte, per nome, e le salutò con gratitudine e gioia, tutte assieme, in un unico abbraccio. Salutò tutto, perché tutto aveva nominato e tutto era da lui conosciuto.
Una sera salì al grande albero il fabbro, che si chiamava Malli ma Aku l’aveva rinominato Dek-Malli, perché dek, a suo dire, era l’essenza del ferro che lui lavorava. Capì subito che Aku era morto. Stava con la schiena appoggiata al grande albero, un’espressione serena sul volto… Malli gli chiuse gli occhi, lo sistemò in una posizione più dignitosa, e decise di andare a chiamare un paio di vicini per seppellirlo lì, sotto l’albero. Un attimo prima di girarsi, l’uomo alzò gli occhi cielo. Però… tutte quelle stelle… E ciascuna aveva avuto un nome!
Verso i sette anni, Aku, guardando le tre misere galline che la madre possedeva, e ascoltando il loro buffo crocchiare, decise di imporre loro un nome, visto che non aveva altro da fare. A quella più grossa, che beccava le altre due, diede il nome di Aar-Maakaa; alla più piccola e spennacchiata Aar-Vivilaa, e alla terza Aar-Cudu. Decise, Aku, che tutte le galline dovevano avere un nome che iniziasse con “Aar”, perché il suono aar gli pareva intimamente connesso alla terra, alla polvere, al razzolare su e giù. Quando lo disse alla madre lei sorrise per quell’invenzione infantile e non vi fece molto caso, perché doveva ancora raccogliere la legna per il camino, frugare nell’orto per un po’ di insalata scampata alle lumache e fare altre cento cose, come sempre.
Aku, che si annoiava sempre molto e amava poco la compagnia degli altri ragazzini di Belpoggio, incominciò così, per gioco, ad assegnare nuovi e inauditi nomi alle cose attorno a lui. Il cane rognoso dei vicini divenne Buk-Malin, perché ad Aku la bestia faceva un po’ schifo e lo spaventava, e il suono buk gli rappresentava bene quel sentimento, che impose più tardi alla palude a sud, che era insidiosa e tutti la evitavano, che divenne Buk-Waagah. Il grande albero che dominava dal poggetto a nord, da dove si vedeva tutto il villaggio, fu invece Gaal-Federoss, e tutte le cose belle e grandi sarebbero state gaal perché quel suono era, assieme, fluido e imponente, chiaro e rassicurante. E ricevettero il loro nome i gatti del villaggio, anche se i loro padroni già ne avevano assegnati altri, il ruscello a valle, che si chiama Pinda per tutti, ma Aku lo ribattezzò Fetfet-Boo, perché quello scorrere umido e allegro doveva per forza essere un fetfet.
A otto anni andò a badare le pecore per Calamao. Non che ne avesse tante; quattordici pecore, dalle quali ricavava un po’ di lana, latte e ogni tanto un bell’agnello. Calamao portò con sé Aku il primo giorno e gli spiegò come doveva fare; che poi era tutto abbastanza semplice: all’alba si andava al recinto, si apriva il cancello e si facevano passare le pecore contandole, per sicurezza. Poi, con uno schiocco della lingua accompagnato da un “Ohi, ohi!”, le si incitava a proseguire verso il pascolo. Verso sera, schiocchi e ohi ohi, tutte indietro fino al recinto, contandole un’altra volta.
Ma Aku non sapeva contare, i numeri lo confondevano. Semplicemente diede a ogni pecora un nome, preceduto da cuu, che gli pareva azzeccato per animali così stupidi; cuu era una testimonianza di stolida rassegnazione, placida tranquillità e sciocca inconsapevolezza, e le pecore, ad Aku, parevano certamente essere cuu. Gli bastava, mattina e sera, nominarle tutte a vista, ché aveva grande occhio per i dettagli e le distingueva benissimo, e poiché aveva una memoria eccezionale capiva subito se tutto l’elenco di pecore che aveva in mente era completo oppure no. Così portava al pascolo Cuu-Gaamaa, Cuu-Reebee, Cuu-Aamii, Cuu-Daatee, Cuu-Kooloo, Cuu-Geecee, Cuu-Faateo, Cuu-Veekoo, Cuu-Liibii, che era in realtà un castrato scampato all’arrosto ma ovviamente, per Aku, contava come una pecora, poi Cuu-Dregaa, Cuu-Tuubaa, Cuu-Jaajaa, Cuu-Aahma e infine Cuu-Oioo, che era la più vecchia e forse non avrebbe superato l’inverno.
I mesi volarono, e iniziarono a passare gli anni. Ogni tanto una pecora moriva o, più frequentemente, veniva macellata, e altre giovani pecore venivano aggiunte al gregge. Aku dava alle nuove arrivate il nome appropriato, non usando mai quelli di pecore precedenti, già macellate, vendute o morte per un accidente. I nomi, pensava Aku, devono racchiudere in qualche modo l’essenza dell’animale, dell’oggetto, dell’albero, e nessun altro poteva avere le medesime, identiche, caratteristiche.
Crescendo solo e strambo, finì coll’essere schernito dagli abitanti del villaggio, che lo ritenevano scemo, un po’ come Alimu, il figlio di Oriste, che aveva lo sguardo fisso, sbavava e mugolava tutto il giorno. Certo, Aku non sbavava, e sapeva accudire le pecore, ma quella stranezza di dare nomi a tutto e a tutti era decisamente una cosa poco normale, e anche il magio del villaggio diceva che sì, Aku era utile e non dava fastidio a nessuno, ma non era una persona normale. Così Aku crebbe nella solitudine, senza amori e senza affetti, e anche dopo la morte della madre continuò a fare il custode di pecore, semmai con greggi, mai sue, più grandi.
Aku non aveva mai sentito il bisogno di compagnia. Fin quando poteva dare nomi al mondo, lui era sereno, se non proprio felice. Ma attorno ai vent’anni di cose senza nome non ce n’erano più, e Aku sentì un fastidioso prurito nella sua testa, un prurito che non riusciva a grattare.
Finché una sera, meditando sotto il grande Gaal-Federoss, alzò gli occhi al cielo e vide tutte quelle stelle, in attesa che lui trovasse loro il nome.
Oh, che spettacolo, che impresa, che fantastica sensazione!
Decise immediatamente che le stelle erano aah, perché quello gli parve il suono della meraviglia, dello stupore, della sospensione, ma anche della luce, della salvezza.
Così cominciò da Aah-Rety, per passare alla luminosa Aah-Tyry, e lì vicino c’era Aah- Fertyghan, e poi Aah-Mnetsy, Aah-Givorax…
La sera dopo proseguì; e quella successiva, e per innumerevoli sere, ché la volta celeste mutava notte dopo notte e nuove stelle comparivano all’orizzonte.
Aku memorizzava esattamente le posizioni degli astri, e ogni notte le rammentava tutte, finché non furono talmente tante che, se voleva pronunciare il nome di ciascuna, non gli rimaneva tempo per darne uno alle innumerevoli stelle rimaste ancora senza. E questo non doveva accadere, perché senza un nome distintivo, così pensava Aku, semplicemente sarebbero potute sparire senza che qualcuno se ne accorgesse. E le sue notti sotto Gaal-Federoss si allungavano, lui dormiva sempre meno per portare avanti l’impresa, il suo sonno si accorciava e con sempre maggiore malumore conduceva le pecore al pascolo; finché un mattino fu trovato dormiente sotto l’albero, le pecore ancora chiuse nel recinto, e il padrone lo cacciò in malo modo.
A chi gli chiese come avesse potuto, in maniera così sciocca, perdere il lavoro che, unico, gli dava di che vivere, Aku rispondeva che stava dando i nomi alle stelle, ma che erano così tante, ma così tante!
Finché qualcuno, forse per prenderlo in giro, forse perché incuriosito dalla stramberia, lo raggiunse sotto l’albero e gli chiese - Come si chiama quella stella?
- Quale dici? - rispose Aku.
- Quella lì, la terza di quel gruppo che pare formare una linea…
- Quella è Aah-Tresside.
- E quella?
- Se intendi quella azzurrina si tratta di Aah-Fahalith.
- E quella là? Quella molto luminosa…
- Ah, quella… Non è una stella.
- Ah no? E come sarebbe?
- Le stelle vere sono immobili. Ma alcune si muovono, sembra che non vogliano stare al loro posto. Quella è Ruu-Valika.
- E perché si chiama così?
- Perché ruu è il suono dell’indisciplina, del disordine… e quelle stelle strane sono indisciplinate, non vogliono seguire le regole del cielo.
Così altra gente incominciò a salire sulla collinetta, di sera, per farsi dire i nomi delle stelle, chi portando un pane, chi una fiasca di latte. Aku di giorno dormiva, e di sera dava i nomi alle stelle, che sembrava non finissero mai, e li spiegava ai visitatori che gli portavano cibo, a volte una coperta, un po’ di compagnia.
Una sera arrivò Virna. Lei gli chiese: - Come mi chiamo io? - Ma Aku non seppe rispondere, perché non l’aveva mai vista, non era del villaggio. Lei lasciò scivolare la tunica dalle spalle, e rimanendo nuda di fronte a lui gli chiese: - E questo, come si chiama? - E ancora Aku non seppe rispondere perché mai aveva visto le forme femminili, anche se le aveva sempre immaginate e desiderate. Non ricevendo ancora risposta lei si fece ardita, lo spinse a terra e gli montò sopra. - Come si chiama questo? - Chiese ancora senza ricevere risposta. Infine Virna prese ad Aku ciò per il quale era venuta; si alzò, rimise la tunica e gli disse: - Io ti ho capito. Tu possiedi tutti i nomi del vuoto e delle cose, ma ti mancano i nomi del pieno e della vita.
Quella sera Aku non riuscì a guardare il cielo. Dopo avere seguito con lo sguardo la donna che si allontanava nelle tenebre, rimase pensoso, intimorito, confuso. Lui, che aveva dato un nome a praticamente ogni cosa, ogni bestia, ogni paesano gli si fosse parato davanti negli ultimi anni, proprio lui, che stava compiendo l’opera gigantesca di dare un nome a ogni stella, a ogni stella! Lui, proprio lui, non aveva nomi per ciò che gli era successo. Cosa gli era successo? Non era un fatto di carne (fla, poi il tipo di carne: di persona, di animale commestibile, di animale domestico…); non era un fatto di femmina (hu, poi il tipo di femmina: madre, figlia, una donna sconosciuta…); non era nemmeno l’atto sessuale in sé, che conosceva bene avendolo visto fare fra galli e galline, montoni e pecore, stalloni e giumente, e sì, certo, sapeva che era necessario per fare figli, e aveva capito che era piacevole, e segreto, e per tutto questo si chiamava wuu perché quello è il suono che aveva l’atto sessuale, la pudicizia, la segretezza, assieme al piacere e a una certa vergogna. Aku capiva che non aveva un nome, per ciò che aveva fatto con la ragazza, perché non si trattava di cose. Le cose, gli animali, le montagne, hanno un nome perché possiedono un suono segreto che ne racchiude l’essenza, che è immutabile. Ma quella cosa…
Non era immutabile. Non aveva un essenza ma molteplici. Possibile che avesse molteplici nomi? Ma non era una cosa ma piuttosto… come le cose stavano fra loro.
Trovò straordinaria questa scoperta. Non solo cose, immutabili; ma qualcosa che succede fra le cose, in particolare fra le persone, che è invero assai mutabile.
Aku si addormentò, fra mille nuovi pensieri.
Si svegliò all’alba, ricomponendo le idee dove le aveva lasciate. Più tardi arrivò Camen, una vecchia affezionata che gli portava spesso pane e formaggio, ritenendolo un magio, quindi propizio e da propiziare. Aku la guardò e le chiese: - Che stai facendo Hu-Lee-Camen? - perché lee era il suono che apparteneva alla vecchiaia.
- Ti ho portato un po’ di pane e formaggio.
- E come chiami questo tuo portare?
- Oh bella… non so cosa risponderti…
- È pietà? Amicizia? Devozione, stima, prudenza? È una specie di invocazione agli dei, il ricordo di quando ti prendevi cura dei tuoi figli, o del tuo defunto marito? Forse ti ricordo lui, forse desideri che io sia lui, è così? Oppure è un’abitudine, questo tuo portare, una sfida al magio del villaggio, una burla, una gara con le altre comari… potrebbe essere, no? Una fissazione da vecchia, un rituale da te stessa non compreso, la forma della tua follia, il desiderio di essere considerata buona, di ottenere un premio dagli dei, eh? Cos’è, vecchia, questo tuo portare?
La donna, un po’ spaventata, lasciò il cibo vicino ad Aku e disse, soltanto: - Aku, non so cosa mi chiedi, né perché tu lo faccia. Hai elencato tante ragioni possibili e io non so se siano tutte giuste, o una soltanto o nessuna. Ti ho portato il cibo, eccolo; spero ti sazi, almeno per oggi.
E ciò detto la donna si voltò e tornò indietro.
Allora Aku iniziò a pensare di averla offesa, o indispettita, annoiata, importunata, o forse confusa, alienata, allontanata da lui, allontanata dalla sua stessa carità, o viceversa divertita, in fondo in fondo, ché avrebbe avuto di che raccontare alle altre vecchie. E tutto questo, tutto questo, come lo si poteva chiamare?
Assai più tardi, verso il tramonto, arrivò una guardia dalla Città. Aku lo identificò come guardia per il buffo costume giallo e blu che portava, che aveva già visto molti anni prima quando il Vescovo era venuto in visita pastorale, e dallo spadone che rendeva ridicolo il suo incedere su per la collina. Arrivato a pochi passi lo apostrofò con voce aspra: - Sei tu Aku, il magio di Belpoggio?
- Sono certamente Aku, e abito a Belpoggio; che io sia un magio lo dice la gente.
- Sua Eccellenza il Priore della Città, che governa l’intera Provincia, ha sentito molto parlare di te e ti chiede di incontrarlo da qui a dodici giorni, quando passerà per il suo villaggio, diretto al Signore di Villablù. Sarai disponibile? Hai un vestito adatto? Potrai lavarti e renderti presentabile?
Aku lo guardò e, per tutta risposta, chiese alla guardia: - Come chiami questo tuo chiedere?
- Lo chiamo obbedire a un ordine, e ti suggerisco di rispondere in fretta, che è quasi il tramonto e devo cercarmi un alloggio in paese.
- No, no… non mi capisci… Si chiama forse obbedire, sì, come dici tu, ma cosa significa? Devozione, paura, abitudine? Addestramento? Stupidità, inconsapevolezza oppure il suo contrario, potrebbe essere il suo contrario… Percepisco anche noia, disinteresse, fatica, stanchezza che ti svuota la mente e ti fa agire senza porre domande. E il tuo tono… Minaccia? Imposizione, costrizione, intimidazione, autorità, violenza latente? E poi, accidenti com’è complicato, c’è pure codesto Priore… Curiosità, diletto, dileggio, convinzione, passatempo, per non dir del caso… È troppo… è troppo…
E Aku sperse lo sguardo nel vuoto e non sentì più il soldato, che dopo un po’ perse la pazienza e abbandonò quel matto tornando al villaggio.
Le relazioni fra cose potevano essere semplici, decise Aku. Ma le relazioni fra persone, per gli dei! Che confusione, che complicazione, che intrico di cose dentro cose dentro altre cose…
Aku capiva che le relazioni fra quelle “cose” che erano le persone erano così difficili da determinare che diventava impossibile dare loro un nome. Anche quelle, enormemente più semplici, fra persone e animali, richiedevano uno sforzo immane per coglierne l’essenza. Tutto questo dava ad Aku un senso fastidioso di vertigine, un disorientamento che lo faceva vacillare. Capiva, lo capiva chiaramente, che poteva perdere la ragione proseguendo lungo questo sentiero.
Molto meglio lasciare perdere.
Che la donna le portasse il pane, se credeva. Che il soldato ordinasse, che la giovane sconosciuta venisse e si denudasse, se lo desiderava. Lui avrebbe accettato il pane, ascoltato il milite, accondisceso alla donna, ma non avrebbe cercato i nomi profondi delle loro azioni, motivazioni, sentimenti, desideri, quelli che avrebbero dovuto racchiudere l’essenza dei loro perché e percome, dei loro quando e dove, delle loro essenze, fatte di relazioni fra altre essenze, compenetrate da altre ancora, incrociate da fatti, tempi, volti, sentimenti, motivi, casualità, desideri, paure, abitudini, e mille e mille altri accidenti e fattori che, solo a cercare di pensarli, parevano ad Aku più vasti dell’intero firmamento.
Meglio, molto meglio, dedicarsi alle stelle.
Da quella sera Aku tornò a rimirare il cielo. Così rassicurante, immobile, prevedibile, finito. Aveva ancora un bel po’ di stelle da nominare. C’era ancora tanto lavoro.
Passarono gli anni; Aku aveva dato i nomi, ormai, a quasi tutte le stelle che riusciva a vedere, quando si accorse che la vista iniziava a ingarbugliarsi, e là dove erano fitte fitte, e piccole piccole, faticava sempre più a distinguerle, e a nominarle correttamente.
Aku capì che era un segnale. Pian piano, con dispiacere, si accomiatò dai monti che erano gaal, dal villaggio che era btu perché chiassoso e polveroso, dalle sue stelle che conosceva tutte, o quasi tutte, per nome, e le salutò con gratitudine e gioia, tutte assieme, in un unico abbraccio. Salutò tutto, perché tutto aveva nominato e tutto era da lui conosciuto.
Una sera salì al grande albero il fabbro, che si chiamava Malli ma Aku l’aveva rinominato Dek-Malli, perché dek, a suo dire, era l’essenza del ferro che lui lavorava. Capì subito che Aku era morto. Stava con la schiena appoggiata al grande albero, un’espressione serena sul volto… Malli gli chiuse gli occhi, lo sistemò in una posizione più dignitosa, e decise di andare a chiamare un paio di vicini per seppellirlo lì, sotto l’albero. Un attimo prima di girarsi, l’uomo alzò gli occhi cielo. Però… tutte quelle stelle… E ciascuna aveva avuto un nome!