[MI 183] Si sta come d'autunno
Posted: Wed Sep 25, 2024 11:53 pm
Traccia 1 "La terza stagione"
[MI 183] Si sta come d'autunno
Si sta come d'autunno
Caterina si osserva le mani. Non le sembrano più sue.
La piccola luce che precede l’alba s’insinua tra le fessure degli scuri, dà forma alla stanza; Caterina è seduta con i gomiti poggiati sul tavolo di legno spesso, una tazza di latte fumante e pane duro da inzuppare. Ruota con lentezza le mani davanti agli occhi e si chiede quando abbiano smesso di essere le sue.
La legna nel focolare scoppietta troppo giovane, il fumo brucia un po’ gli occhi.
Lei ha diciannove anni ma quelle che si muovono davanti al suo sguardo sono mani da vecchia. La pelle tirata sul dorso, le dita ispessite dai calli, le unghie piegate dal lavorare.
Non sono più le sue.
Eppure, lo sono.
Perché è così che si invecchia lì, in quella vita di montagna. È così che si diventa lì, in quel tempo di guerra.
E d’improvviso, quasi a dare eco ai suoi pensieri, l’aria è scossa da deflagrazioni d’obice. Fragorose, cupe, ha imparato a riconoscerle; queste sono dei nostri.
Adesso gli altri risponderanno con una gragnola di colpi e sul fronte pioverà la morte.
Caterina aspetta lo schiantarsi dei proiettili, tuffa il pane nel latte in attesa dei boati; e invece niente.
Dal lato austroungarico nessuna risposta.
Meravigliata, si rende conto che anche la notte è trascorsa senza detonazioni: non accade mai. Sempre, sempre, i nemici sparano per tenerli svegli, per fiaccare la resistenza dei soldati italiani.
Ogni notte tranne questa, cosa significa? È finita?
Ha diciannove anni e potrebbe anche sperare che la guerra fosse davvero finita, se non avesse cento lavori da fare. E infatti: Cosa fâs ancje lì, fior?1, la richiama alla realtà la signora madre.
Viene dallo stanzino di stagionatura, con forme di formaggio avvolte nella iuta e tenute sotto le ascelle. Il volto con gli zigomi sporgenti, infarcito di rossi capillari spezzati dal vento e dal freddo. E dalla grappa.
Non le sorride, non la sgrida. La donna parla con voce piatta. Spenta dai dolori della guerra che le ha portato via un marito e il primo figlio.
Del secondo, Alfredo, nessuna notizia da mesi, ma in cuor suo sa di aver perso anche lui, e Caterina il marito.
O vadi in paiès a cambiâ cheste forme. Tòri lis capris2.
Senza fermarsi o degnarla di uno sguardo, la donna attraversa la stanza finché non resta che la porta chiusa alle sue spalle.
Non tornerà prima del buio. Ubriaca e piangente.
Caterina beve l’ultimo sorso di latte, nella solitudine della giornata che l’aspetta lì dentro. Butta cenere sul fuoco per smorzarne l’ardore e fargli covare calore a lungo. Poi aggancia la pentolaccia colma d’acqua sopra di esso, al suo ritorno sarà abbastanza calda da poterci lavare i panni.
Mette la sacca a tracolla con qualcosa per il pranzo e un vecchio lenzuolo mille volte rattoppato. Sulle spalle la gerla vuota e un'accetta per far legna.
Trattiene le lacrime che tanti altri giorni l’hanno prostrata ed esce.
Fuori, l’aria è fresca nel primo autunno.
Anche se il cielo è già schiarito, lì il sole non è ancora sorto, schermato dalla schiena della Punt Granda.
Aveva amato quell’ora strana, in cui già era giorno ma che ancora trascinava con sé il profumo della notte; le sembrava che il creato aspettasse lei per prendere vita e tutto pareva possibile.
Non che si fosse mai immaginata in altro luogo che quello, ma come nelle storie che le raccontava suo padre, forse in un mattino così avrebbe trovato un principe, un drago o, meglio ancora, un menestrello…
Invece, a diciassette anni quel che aveva trovato era stato un marito. Alfredo.
Sua la famiglia più ricca del paese e, se non lo amava, aveva però scoperto quanto fosse divertente fare peccato con lui, in quell’ora ancora incerta, prima d’iniziare la giornata.
Ma era giunto il soffio della guerra e degli uomini chiamati alle armi.
Con essi, le mani che diventavano tanto vecchie di lavoro da non conoscerle più e il freddo nel letto vedovale.
Allora l’alba era diventata l’odioso preludio a una vita che si allontanava sempre più da lei.
Caterina si spoglia accanto a una pozza del torrente.
Lascia che le capre proseguano da sole verso il solito prato e si denuda.
È nascosta alla vista del paese, delle poche case ancora abitate e dei brandelli di muri lasciati quando il fronte era più vicino, non teme d’essere vista.
Saggia l’acqua gelida con la punta del piede e s’impone d’entrare nella pozza subito fonda, immersa fino ai seni.
Osserva per alcuni istanti la linea del sole avvicinarsi con la sua promessa di calore, poi chiude gli occhi.
Le allodole cantano nel vuoto della guerra, oggi ancora silente. Sa che dovrebbe essere questa la normalità, ma ne è stranita.
È così facile abituarsi anche al peggio.
Si domanda se stia facendo la cosa giusta e sorride: ha diciannove anni, non può vivere una vita da vedova. Di certo non vuole invecchiare come le sue mani.
Allora scava terra asciutta e inizia a sfregarsi le braccia e il ventre. È ruvida, graffia, ma il sapone è un lusso esaurito da tempo e lei vuole presentarsi pulita.
Si asciugherà con il lenzuolo rattoppato e la signora madre non noterà niente.
Il sole la inonda quando supera l’ultima salita e s’affaccia sul prato.
Le capre sono lì, e così anche lui.
Caterina corre verso il castagno che delimita il bosco, giallo ramato d’autunno; verso l’uomo seduto nella sua ombra.
Corre felice verso l’uniforme che tanto l’aveva spaventata tre giorni prima.
Allora, era lei seduta al suo posto e il soldato le era sbucato accanto, facendola strillare di paura.
Ma non era fuggita.
L’aveva incuriosita il suo volto ingrugnito, quel naso un po’ troppo largo, gli occhi nascosti dietro alla fessura delle palpebre.
Parlava italiano quel soldato, italiano vero. Non come il suo: parole complete e carezzevoli. Delicate come il primo sfiorare delle sue labbra.
Era così diverso dal suo Alfredo!
Invece dei muscoli tozzi da montanaro, sotto l’uniforme aveva trovato la magrezza nervosa della pianura.
Non l’amare ruvido e possessivo che conosceva, ma un muoversi dolce dentro il suo ventre.
Non la pretesa di tutto, ma il lento conquistare ogni cosa.
E dopo averla amata, lui non se ne era andato. Nudo come lei, le era rimasto accanto e aveva iniziato a parlare, a recitare strani versi, a raccontare vite che lei nemmeno immaginava.
Lei taceva, vergognosa del suo dialetto, incantata da parole che spesso non capiva.
Caterina ferma la sua corsa senza fiato. Lui è chino sul quaderno che ad ogni momento riempie di lettere fitte, sembra non averla notata.
Bun dì, Giosel!
Alza lo sguardo e le sorride.
Bun dì. Fior! Oggi le tue capre hanno corso più di te, cominciavo a preoccuparmi.
Lei sorride, si sfila la camicetta e fa per slacciare la gonna, ma lui la ferma.
L’attira a sé e prende a baciarle i seni, a leccare lento la sua pelle.
Vibra Caterina di quello sfiorare, ansima; lo ama e si lascia amare.
Si rende conto di non essersi mai chiesta cosa fosse la felicità.
Giacciono nudi.
L’erba punge la pelle sudata, i loro respiri ancora affannati.
Caterina ha lo sguardo perso sull’ondeggiare delle foglie sopra di loro. Sull’intreccio dei colori e il frusciare indolente. Dettagli che erano sempre stati lì, ma che non aveva mai notato.
Come le mani, anche i suoi occhi erano invecchiati senza di lei.
Gracies Giosel, sussurra.
Lui rimane stranamente silenzioso e pensa che non l’abbia sentita, ma si sbaglia.
Fior, sono io che dico grazie a te.
Si solleva su un gomito e la guarda negli occhi.
Ancora tre giorni e dovrò tornare al fronte.
A Caterina si stringe la pancia.
Mi aspetterai, meo picul fior? Verrò a prenderti, mi aspetterai?
L’annuire di Caterina si perde in una raffica di vento più forte; le fronde si scuotono, scricchiolano i rami e, silenziose, foglie si staccano.
Ondeggiano via nella brezza tranne due.
Una si posa sul ventre della ragazza, una sul fianco dell’uomo.
Caterina le raccoglie; la sua è quasi rossa, l’altra poco meno di verde. Le porge al suo Giuseppe, al suo Giosel.
Chest sia mi e chest’altre e tu3, si trova a dire, senza una vera ragione.
S’aspetta che la canzoni per quella sciocca frase. Invece annuisce e usa anche lui il dialetto.
Cume a autunno si sta, ma domani sarò qui per te.
E di nuovo si amano.
Giuseppe s’affretta per il pendio.
Risale il crinale aggrappandosi a rami e sterpi per fare più veloce.
Tra poco sarà al colle che s’affaccia sul loro prato, sul loro castagno. Lei non ci sarà, ma Giuseppe scenderà fino a valle per cercarla.
La troverà perché ha bisogno di lei.
La troverà ovunque, anche se il giorno seguente lui non era stato là. Anche se dieci giorni erano passati da allora: giorni di morte e guerra.
La troverà perché è ancora vivo, nonostante quella notte di dieci giorni prima, il silenzio del nemico s’era trasformato in un’offensiva imponente.
L’artiglieria aveva vomitato morte per oltre mezz’ora; come se ogni munizione risparmiata durante il giorno, come se ogni proiettile pronto per il mese successivo, fosse stato sparato sulle loro trincee; seguito da una valanga di uomini e baionette.
In caserma il tenente li aveva fatti scattare: dalle retrovie verso il fronte. Da Caterina all’inferno.
Il boato senza fine delle esplosioni li terrorizzava mentre marciavano nella notte; le lanterne schermate tagliavano il buio con lame di luce fioca come la loro speranza.
C’era voluta un’ora di cammino muto prima di vedere i fantasmi.
Grigi nell’uniforme, pallidi negli sguardi e dai volti cinerei. Sembravano privi d’ogni colore, se non il rosso delle ferite. I fantasmi dei commilitoni in fuga.
La linea era spezzata, il nemico irrompeva. Tutto era perduto e i comandanti chiamarono la ritirata generale.
Non combatté quella notte, Giuseppe, ma fuggì come ordinato.
Lasciò campo libero allo sciamare del nemico; per un giorno intero si ritirò fino a un luogo sicuro. Lontano, troppo lontano da Caterina.
Ma ora sono tornato, si dice Giuseppe.
È giunto al colle e la valle si apre ai suoi piedi. Vede il prato delle capre, riconosce il loro castagno al limitare del bosco. È più spoglio d’allora, ma il giallo delle sue foglie basta a intenerirgli il cuore.
Sa che per lui quello sarà sempre il colore dell’amore.
Prende a scendere.
Prega di trovarla presto, perché ha bisogno di lei, della sua vitalità. Ha bisogno di stringerla forte, del suo calore per scacciare il gelido orrore degli ultimi giorni.
Perché erano tornati a ranghi serrati e giorno per giorno, avevano riconquistato ogni metro, ogni fido d’erba della loro terra.
Erano morti tutti più e più volte; anche chi, come lui, si era trovato sopravvissuto.
Deve solo trovare Caterina e ogni fantasma svanirà.
Giuseppe è fermo all’ombra del castagno.
Caterina sdraiata ai suoi piedi.
Le sue vesti strappate, il suo ventre squarciato da una baionetta.
Era lì per lui.
Era lì per lui.
La guarda e non ha più lacrime. Scenderà a valle e troverà una pala per poterla seppellire lì, sotto il castagno, tra le foglie gialle che la incoronano. Tra le foglie che sono la loro vita.
Sui àlber i fèis, dice col cuore straziato.
1 Cosa fai ancora lì, ragazza?
2 Vado in paese a scambiare queste forme. Porta le capre.
3 Questa sono io e quest’altra sei tu.
[MI 183] Si sta come d'autunno
Si sta come d'autunno
Caterina si osserva le mani. Non le sembrano più sue.
La piccola luce che precede l’alba s’insinua tra le fessure degli scuri, dà forma alla stanza; Caterina è seduta con i gomiti poggiati sul tavolo di legno spesso, una tazza di latte fumante e pane duro da inzuppare. Ruota con lentezza le mani davanti agli occhi e si chiede quando abbiano smesso di essere le sue.
La legna nel focolare scoppietta troppo giovane, il fumo brucia un po’ gli occhi.
Lei ha diciannove anni ma quelle che si muovono davanti al suo sguardo sono mani da vecchia. La pelle tirata sul dorso, le dita ispessite dai calli, le unghie piegate dal lavorare.
Non sono più le sue.
Eppure, lo sono.
Perché è così che si invecchia lì, in quella vita di montagna. È così che si diventa lì, in quel tempo di guerra.
E d’improvviso, quasi a dare eco ai suoi pensieri, l’aria è scossa da deflagrazioni d’obice. Fragorose, cupe, ha imparato a riconoscerle; queste sono dei nostri.
Adesso gli altri risponderanno con una gragnola di colpi e sul fronte pioverà la morte.
Caterina aspetta lo schiantarsi dei proiettili, tuffa il pane nel latte in attesa dei boati; e invece niente.
Dal lato austroungarico nessuna risposta.
Meravigliata, si rende conto che anche la notte è trascorsa senza detonazioni: non accade mai. Sempre, sempre, i nemici sparano per tenerli svegli, per fiaccare la resistenza dei soldati italiani.
Ogni notte tranne questa, cosa significa? È finita?
Ha diciannove anni e potrebbe anche sperare che la guerra fosse davvero finita, se non avesse cento lavori da fare. E infatti: Cosa fâs ancje lì, fior?1, la richiama alla realtà la signora madre.
Viene dallo stanzino di stagionatura, con forme di formaggio avvolte nella iuta e tenute sotto le ascelle. Il volto con gli zigomi sporgenti, infarcito di rossi capillari spezzati dal vento e dal freddo. E dalla grappa.
Non le sorride, non la sgrida. La donna parla con voce piatta. Spenta dai dolori della guerra che le ha portato via un marito e il primo figlio.
Del secondo, Alfredo, nessuna notizia da mesi, ma in cuor suo sa di aver perso anche lui, e Caterina il marito.
O vadi in paiès a cambiâ cheste forme. Tòri lis capris2.
Senza fermarsi o degnarla di uno sguardo, la donna attraversa la stanza finché non resta che la porta chiusa alle sue spalle.
Non tornerà prima del buio. Ubriaca e piangente.
Caterina beve l’ultimo sorso di latte, nella solitudine della giornata che l’aspetta lì dentro. Butta cenere sul fuoco per smorzarne l’ardore e fargli covare calore a lungo. Poi aggancia la pentolaccia colma d’acqua sopra di esso, al suo ritorno sarà abbastanza calda da poterci lavare i panni.
Mette la sacca a tracolla con qualcosa per il pranzo e un vecchio lenzuolo mille volte rattoppato. Sulle spalle la gerla vuota e un'accetta per far legna.
Trattiene le lacrime che tanti altri giorni l’hanno prostrata ed esce.
Fuori, l’aria è fresca nel primo autunno.
Anche se il cielo è già schiarito, lì il sole non è ancora sorto, schermato dalla schiena della Punt Granda.
Aveva amato quell’ora strana, in cui già era giorno ma che ancora trascinava con sé il profumo della notte; le sembrava che il creato aspettasse lei per prendere vita e tutto pareva possibile.
Non che si fosse mai immaginata in altro luogo che quello, ma come nelle storie che le raccontava suo padre, forse in un mattino così avrebbe trovato un principe, un drago o, meglio ancora, un menestrello…
Invece, a diciassette anni quel che aveva trovato era stato un marito. Alfredo.
Sua la famiglia più ricca del paese e, se non lo amava, aveva però scoperto quanto fosse divertente fare peccato con lui, in quell’ora ancora incerta, prima d’iniziare la giornata.
Ma era giunto il soffio della guerra e degli uomini chiamati alle armi.
Con essi, le mani che diventavano tanto vecchie di lavoro da non conoscerle più e il freddo nel letto vedovale.
Allora l’alba era diventata l’odioso preludio a una vita che si allontanava sempre più da lei.
Caterina si spoglia accanto a una pozza del torrente.
Lascia che le capre proseguano da sole verso il solito prato e si denuda.
È nascosta alla vista del paese, delle poche case ancora abitate e dei brandelli di muri lasciati quando il fronte era più vicino, non teme d’essere vista.
Saggia l’acqua gelida con la punta del piede e s’impone d’entrare nella pozza subito fonda, immersa fino ai seni.
Osserva per alcuni istanti la linea del sole avvicinarsi con la sua promessa di calore, poi chiude gli occhi.
Le allodole cantano nel vuoto della guerra, oggi ancora silente. Sa che dovrebbe essere questa la normalità, ma ne è stranita.
È così facile abituarsi anche al peggio.
Si domanda se stia facendo la cosa giusta e sorride: ha diciannove anni, non può vivere una vita da vedova. Di certo non vuole invecchiare come le sue mani.
Allora scava terra asciutta e inizia a sfregarsi le braccia e il ventre. È ruvida, graffia, ma il sapone è un lusso esaurito da tempo e lei vuole presentarsi pulita.
Si asciugherà con il lenzuolo rattoppato e la signora madre non noterà niente.
Il sole la inonda quando supera l’ultima salita e s’affaccia sul prato.
Le capre sono lì, e così anche lui.
Caterina corre verso il castagno che delimita il bosco, giallo ramato d’autunno; verso l’uomo seduto nella sua ombra.
Corre felice verso l’uniforme che tanto l’aveva spaventata tre giorni prima.
Allora, era lei seduta al suo posto e il soldato le era sbucato accanto, facendola strillare di paura.
Ma non era fuggita.
L’aveva incuriosita il suo volto ingrugnito, quel naso un po’ troppo largo, gli occhi nascosti dietro alla fessura delle palpebre.
Parlava italiano quel soldato, italiano vero. Non come il suo: parole complete e carezzevoli. Delicate come il primo sfiorare delle sue labbra.
Era così diverso dal suo Alfredo!
Invece dei muscoli tozzi da montanaro, sotto l’uniforme aveva trovato la magrezza nervosa della pianura.
Non l’amare ruvido e possessivo che conosceva, ma un muoversi dolce dentro il suo ventre.
Non la pretesa di tutto, ma il lento conquistare ogni cosa.
E dopo averla amata, lui non se ne era andato. Nudo come lei, le era rimasto accanto e aveva iniziato a parlare, a recitare strani versi, a raccontare vite che lei nemmeno immaginava.
Lei taceva, vergognosa del suo dialetto, incantata da parole che spesso non capiva.
Caterina ferma la sua corsa senza fiato. Lui è chino sul quaderno che ad ogni momento riempie di lettere fitte, sembra non averla notata.
Bun dì, Giosel!
Alza lo sguardo e le sorride.
Bun dì. Fior! Oggi le tue capre hanno corso più di te, cominciavo a preoccuparmi.
Lei sorride, si sfila la camicetta e fa per slacciare la gonna, ma lui la ferma.
L’attira a sé e prende a baciarle i seni, a leccare lento la sua pelle.
Vibra Caterina di quello sfiorare, ansima; lo ama e si lascia amare.
Si rende conto di non essersi mai chiesta cosa fosse la felicità.
Giacciono nudi.
L’erba punge la pelle sudata, i loro respiri ancora affannati.
Caterina ha lo sguardo perso sull’ondeggiare delle foglie sopra di loro. Sull’intreccio dei colori e il frusciare indolente. Dettagli che erano sempre stati lì, ma che non aveva mai notato.
Come le mani, anche i suoi occhi erano invecchiati senza di lei.
Gracies Giosel, sussurra.
Lui rimane stranamente silenzioso e pensa che non l’abbia sentita, ma si sbaglia.
Fior, sono io che dico grazie a te.
Si solleva su un gomito e la guarda negli occhi.
Ancora tre giorni e dovrò tornare al fronte.
A Caterina si stringe la pancia.
Mi aspetterai, meo picul fior? Verrò a prenderti, mi aspetterai?
L’annuire di Caterina si perde in una raffica di vento più forte; le fronde si scuotono, scricchiolano i rami e, silenziose, foglie si staccano.
Ondeggiano via nella brezza tranne due.
Una si posa sul ventre della ragazza, una sul fianco dell’uomo.
Caterina le raccoglie; la sua è quasi rossa, l’altra poco meno di verde. Le porge al suo Giuseppe, al suo Giosel.
Chest sia mi e chest’altre e tu3, si trova a dire, senza una vera ragione.
S’aspetta che la canzoni per quella sciocca frase. Invece annuisce e usa anche lui il dialetto.
Cume a autunno si sta, ma domani sarò qui per te.
E di nuovo si amano.
Giuseppe s’affretta per il pendio.
Risale il crinale aggrappandosi a rami e sterpi per fare più veloce.
Tra poco sarà al colle che s’affaccia sul loro prato, sul loro castagno. Lei non ci sarà, ma Giuseppe scenderà fino a valle per cercarla.
La troverà perché ha bisogno di lei.
La troverà ovunque, anche se il giorno seguente lui non era stato là. Anche se dieci giorni erano passati da allora: giorni di morte e guerra.
La troverà perché è ancora vivo, nonostante quella notte di dieci giorni prima, il silenzio del nemico s’era trasformato in un’offensiva imponente.
L’artiglieria aveva vomitato morte per oltre mezz’ora; come se ogni munizione risparmiata durante il giorno, come se ogni proiettile pronto per il mese successivo, fosse stato sparato sulle loro trincee; seguito da una valanga di uomini e baionette.
In caserma il tenente li aveva fatti scattare: dalle retrovie verso il fronte. Da Caterina all’inferno.
Il boato senza fine delle esplosioni li terrorizzava mentre marciavano nella notte; le lanterne schermate tagliavano il buio con lame di luce fioca come la loro speranza.
C’era voluta un’ora di cammino muto prima di vedere i fantasmi.
Grigi nell’uniforme, pallidi negli sguardi e dai volti cinerei. Sembravano privi d’ogni colore, se non il rosso delle ferite. I fantasmi dei commilitoni in fuga.
La linea era spezzata, il nemico irrompeva. Tutto era perduto e i comandanti chiamarono la ritirata generale.
Non combatté quella notte, Giuseppe, ma fuggì come ordinato.
Lasciò campo libero allo sciamare del nemico; per un giorno intero si ritirò fino a un luogo sicuro. Lontano, troppo lontano da Caterina.
Ma ora sono tornato, si dice Giuseppe.
È giunto al colle e la valle si apre ai suoi piedi. Vede il prato delle capre, riconosce il loro castagno al limitare del bosco. È più spoglio d’allora, ma il giallo delle sue foglie basta a intenerirgli il cuore.
Sa che per lui quello sarà sempre il colore dell’amore.
Prende a scendere.
Prega di trovarla presto, perché ha bisogno di lei, della sua vitalità. Ha bisogno di stringerla forte, del suo calore per scacciare il gelido orrore degli ultimi giorni.
Perché erano tornati a ranghi serrati e giorno per giorno, avevano riconquistato ogni metro, ogni fido d’erba della loro terra.
Erano morti tutti più e più volte; anche chi, come lui, si era trovato sopravvissuto.
Deve solo trovare Caterina e ogni fantasma svanirà.
Giuseppe è fermo all’ombra del castagno.
Caterina sdraiata ai suoi piedi.
Le sue vesti strappate, il suo ventre squarciato da una baionetta.
Era lì per lui.
Era lì per lui.
La guarda e non ha più lacrime. Scenderà a valle e troverà una pala per poterla seppellire lì, sotto il castagno, tra le foglie gialle che la incoronano. Tra le foglie che sono la loro vita.
Sui àlber i fèis, dice col cuore straziato.
1 Cosa fai ancora lì, ragazza?
2 Vado in paese a scambiare queste forme. Porta le capre.
3 Questa sono io e quest’altra sei tu.