[CE24] Un viaggio fuori programma
Posted: Sun Aug 04, 2024 10:33 pm
Traccia N. 1 - Lontano da tutto
Avevo appena lasciato alle spalle il portone del palazzo di Via Oberdan e il sorriso stiracchiato della solerte segretaria del notaio Sperlonga, quando il cellulare prese a vibrare dentro la valigetta in cui galleggiavano i fogli dell’atto che non avrei mai pensato di far redigere fino a pochi giorni prima.
Mi chinai sorreggendo il cappello che sembrava volermi trascinare in volo con sé colpito da una raffica di libeccio che si accordava alla perfezione con la burrasca che stava attraversando i miei giorni. Decisi di non rispondere ma quello, dopo qualche minuto di silenzio, riprese a vibrare senza interruzioni. Chiunque fosse stato avrebbe dovuto presto abituarsi a fare a meno di me, quindi continuai a far finta di non sentire. Salii sull’autobus senza cedere alla curiosità.
“C’è un telefono che vibra lì dentro. Non lo sente?”
Avrei potuto dire che non era il mio, ma la signora che mi sedeva accanto non la smetteva più di fissare la mia ventiquattr’ore.
“Grazie, non me ne ero accorto” risposi fra i denti. Mi chiesi perché non lo avessi spento. Feci scattare la serratura e, con la coda dell’occhio, lessi sul display illuminato il nome del mio medico. Incontrai di nuovo lo sguardo severo della donna. Sospirai.
Mi aspettavo la voce angelica di Eleonora l’assistente in camice bianco che incarna alla perfezione i miei sogni erotici ma a rispondermi fu il dottor Ligresti in persona: Paolo Ligresti, uno dei miei rari compagni di scuola riuscito a concretizzare le proprie aspirazioni giovanili; non come come me che dopo tre esami in quattro anni avevo mollato la medicina e suoi insegnamenti salutistici.
“Giulio, devi venire subito al mio studio. È tutta la mattina che cerco di parlare con te.”
“Che altro c’è da sapere? È tutto chiaro, mi pare.”
“Non posso parlartene al telefono. Ti aspetto.”
La questione, in effetti, era alquanto imbarazzante e anche piuttosto urgente: un “malaugurato quanto gradito scambio di risultati”, un “raro caso di omonimia”, una di “quelle cose che non dovrebbero capitare mai ma che a volte (e per fortuna) lo fanno”. insomma: non ero io a dover morire: lo avrebbe fatto un altro al posto mio. Con qualche cura adeguata sarei tornato a saltare come un grillo nel giro di qualche settimana; come passare dal tramonto all’alba in un battito di ciglia.
Il mio “tramonto” durava da una quindicina di giorni trascorsi cercando di mettere ordine a quel restava della mia vita: tutto pronto per il grande viaggio verso l’ignoto. Testamento compreso. Non che avessi molto da lasciare: avevo avuto il buon gusto di non sposarmi e soprattutto di non generare figli. In ufficio avrebbero sentito la mia mancanza? Solo perché, di certo, qualcuno avrebbe dovuto rinunciare alle ferie almeno fino a quando non avessero trovato un sostituto.
L’idea mi scaturì appena uscito dallo studio del medico, mi specchiai nella vetrina di un’agenzia viaggi e non seppi resistere alla tentazione. Non avrei più viaggiato verso i luoghi freddi e bui della morte: il deserto mi chiamava… e non un deserto qualunque: Atacama, il luogo che più di ogni altro mi era rimasto nel cuore. Ci ero stato una volta, da bambino, con mio padre; a quei tempi lavorava per una multinazionale e aveva accumulato molti punti come frequent flyer. Aveva voluto portarmi con sé per una vacanza speciale nonostante le riluttanze di mia madre, la sua ex moglie.
Così, anziché un laconico certificato attestante la mia dipartita, il datore di lavoro ricevette la mia lettera di dimissioni. Non avrei trascorso un’ora in più della mia vita chiuso in un ufficio. Le finanze mi consentirono di affittare una stanza modesta a San Pedro de Atacama.
Da lì occorrevano almeno un paio d’ore di cammino per raggiungere le prime dune, ma il viaggio sarebbe stato ripagato dalla vista della maestosa distesa di sabbia dorata.
Ricordavo le dune che sembravano scogliere desolate, una sorta di eremo naturale, un santuario della bellezza mi sarei perfino inginocchiato davanti a loro se non mi fossi vergognato a farlo davanti a mio padre. Durante il giorno il deserto brillava sotto un sole implacabile, ma, col calare della notte, diventava una finestra aperta sull’Universo: le stelle accendevano l’oscurità di una miriade di luci scintillanti.
Entrambi distesi sopra una stuoia di canapa, con il solo naso che sporgeva dalla spessa coperta di lana, facevamo a gara a chi riusciva a contarne di più.
“Le vedi quelle specie di nuvolette lassù?”
“Sì, papà, cosa sono?”
Lui sospirava e io restavo in attesa della spiegazione col cuore che batteva forte.
“Le chiamano le nubi di Magellano. Sono delle piccole galassie.”
“Cos’è una galassia?”
“È un luogo in cui le stelle sono così fitte che per contarle non basterebbe una vita intera!”
“Davvero? E come fanno a saperlo?”
“Lo sanno perché hanno studiato. Se vorrai, potrai studiare astronomia all’Università.”
Sarei rimasto ore e ore ad ascoltarlo. Immaginavo di poter lavorare un giorno presso i grandi osservatori astronomici situati lassù in alto, dove sembrava quasi di poter raccogliere le stelle con le mani. Le dune parevano fondersi con l’immensità del cosmo.
“Ora basta chiacchierare, lasciamo parlare il deserto. Per sentire la sua voce dobbiamo restare in silenzio.”
Al mattino presto la nostra borraccia era quasi vuota.
“Fra un po’ sarà troppo caldo e non abbiamo più molta acqua da bere. Dobbiamo rientrare.”
“Come fanno a sopravvivere le piante e gli animali qui?”
“Hanno imparato a rispettare la natura e i suoi tempi. Quando piove accumulano l’acqua per resistere nei momenti più difficili. Molti credono che il deserto sia arido e spietato, ma solo perché lo guardano senza vederlo veramente. In realtà ha molte cose da insegnare se lo si osserva con attenzione.”
Di solito rientravamo in hotel alle prime luci dell’alba. [font="Open Sans", "Segoe UI", Tahoma, sans-serif]Ora che ci penso non ricordo perché scelsi d’iscrivermi a medicina. Forse per seguire una ragazza che frequentavo a quei tempi. Scelta rivelatasi pessima sotto ogni punto di vista.[/font]
La mia locataria si chiamava Catalina, una vera stella scesa dal cielo per illuminare il mio cammino.
La prima cosa che mi colpì non fu la sua bellezza (peraltro davvero notevole) ma il suo sguardo. Ero atterrato da qualche giorno e già mi erano rimasti pochi soldi. Non potevo permettermi di sperperare tutto in hotel.
“A San Pedro c’è sempre chi ha bisogno di affittare una stanza” mi avevano detto e mi aggiravo per le vie polverose di quella cittadina alla ricerca di qualcuno che potesse aiutarmi.
La incontrai mentre trasportava una cesta piena di abiti, gli occhi scintillavano come biglie sul suo viso annerito. Odorava di fumo e fuliggine, sembrava uscita da una qualche fiaba.
I nostri sguardi s’incontrarono per un attimo che mi parve lunghissimo. Mi offrii di aiutarla.
Raggiunta l’abitazione, le chiesi se conoscesse qualcuno che avesse una stanza da affittare. Mi disse che suo padre era morto e che viveva sola con la madre anziana. Aveva una camera libera per una manciata di pesos alla settimana. Se fossi stato credente avrei baciato il crocefisso appeso alla parete, ma mi limitai a una calorosa stretta di mano.
“Ti andrebbe di accompagnarmi nel deserto? Ci sono stato molti anni fa e muoio dalla voglia di rivederlo”.
Lei si avvicinò alla finestra e scostò le tendine.
“Hai mai sentito parlare del desierto vestido?”
“No. Dove sarebbe questo posto?”
“Se vuoi venire con me, domani ci vado.”
Camminavamo da più di tre ore sotto il sole cocente quando fummo investiti da un odore talmente forte da impedirci di respirare. La tosse non mi dava tregua, un fumo acre avvelenava l’aria facendomi lacrimare gli occhi. Quando riuscii a riaprirli, mi accasciai sulla sabbia: non c’erano le dune dorate che ricordavo, ma un immenso accumulo di stracci abbandonati. Uomini dai volti anneriti davano fuoco a pire d’indumenti: camicie, abiti, pantaloni, maglie di ogni taglia e colore accatastate dappertutto costituivano una smisurata discarica a cielo aperto. Qua e là sulle piccole montagne fumanti, gruppi di bambini inginocchiati si affannavano a rovistare tra i rifiuti alla ricerca di qualche abito risparmiato dalle fiamme e forse ancora buono da indossare o da rivendere.
Di fronte a quel panorama così devastato, cercai invano i cespugli, gli animali, i bellissimi fiori che ricordavo. Mi chiesi il perché di un simile scempio.
Sarebbe stato meglio se avessi conservato il ricordo di com’era… Stavo seduto sulla sabbia mentre Catalina frugava tra gli indumenti, quando uno dei lavoranti si avvicinò porgendomi un fazzoletto. Mi venne spontaneo tirare l’uomo per la giacca e chiedergli tra i singhiozzi: «Chi ha ridotto così il deserto?»
Lui mi mise una mano sulla spalla e sedette accanto a me. Restò qualche istante in silenzio poi, senza distogliere lo sguardo dal fuoco che aveva appena acceso, mi rispose:
“Todo el mundo, señor… Sono rifiuti tessili provenienti dalle fabbriche e dalle raccolte di ogni nazione della Terra. Abiti fuori moda che non si vendono più, vestiti sia nuovi che usati vengono portati qui per essere distrutti. Il nostro governo permette questo schifo e per il fare il lavoro sporco si approfitta dei poveracci come me che non sanno come sfamare la famiglia. È inutile cercare un solo colpevole.”
Il luogo incantato che ricordavo non esisteva più.
Una volta rientrati mi chiusi in camera senza mangiare meditando di andare via e di tornare alla mia vecchia vita.
Deciso a comunicarle le mie intenzioni, entrai nella stanza. Catalina stava tagliando un vecchio paio di jeans e faticava parecchio per via del tessuto spesso.
“Che stai facendo? Lascia che ti aiuti.”
“Una borsa.”
“Una borsa con dei vecchi jeans?”
“Che c’è di strano? È un tessuto ancora buono, li ho presi al desierto vestitdo. Guarda… basta tagliarli fino al cavallo e cucire la base.”
Mi sedetti accanto a lei e parlammo tutta la notte. Mi disse che, se chiudeva gli occhi, le sembrava di sentire il lamento soffocato proveniente dal deserto e il grido muto dei vestiti abbandonati che le chiedevano una nuova vita. Per questo aveva organizzato un gruppo di volontarie che, armate di guanti e sacchi da raccolta, s’immergevano ogni giorno nell’enorme montagna di rifiuti alla ricerca di abiti da salvare. Lavoravano sodo nonostante il caldo soffocante e il fetore che appestava l’aria. Catalina mi raccontò che riusciva a percepire la nostalgia e la storia intrappolata tra le cuciture di ciascuno di quegli abiti abbandonati. Con ago e filo trasformava le vecchie camicie in borse colorate e i jeans ormai logori in eleganti gonne. Gli abiti considerati fino a quel momento come spazzatura da bruciare, avevano l’opportunità di vivere una seconda vita e contribuire a salvare il deserto.
Quella notte non riuscii a dormire. Pensai che se fossi partito non avrei più rivisto Catalina, che forse avrei potuto aiutarla che se mi era stata donata una seconda possibilità di vita non avrei dovuto sprecarla. Così mi unii al gruppo di volontari.
Negli ultimi anni si sono sviluppate molte industrie per il recupero dei rifiuti tessili provenienti da tutto il mondo che stanno soffocando il deserto di Atacama.
Catalina oggi è un’imprenditrice di successo e, sì, lei è riuscita a dare una nuova vita anche a me. Ogni tanto prendiamo una stuoia e una coperta per trascorrere la notte nel deserto e, quando il vento accarezza le dune, ci sembra di sentirlo sussurrare: “Gracias.”
Avevo appena lasciato alle spalle il portone del palazzo di Via Oberdan e il sorriso stiracchiato della solerte segretaria del notaio Sperlonga, quando il cellulare prese a vibrare dentro la valigetta in cui galleggiavano i fogli dell’atto che non avrei mai pensato di far redigere fino a pochi giorni prima.
Mi chinai sorreggendo il cappello che sembrava volermi trascinare in volo con sé colpito da una raffica di libeccio che si accordava alla perfezione con la burrasca che stava attraversando i miei giorni. Decisi di non rispondere ma quello, dopo qualche minuto di silenzio, riprese a vibrare senza interruzioni. Chiunque fosse stato avrebbe dovuto presto abituarsi a fare a meno di me, quindi continuai a far finta di non sentire. Salii sull’autobus senza cedere alla curiosità.
“C’è un telefono che vibra lì dentro. Non lo sente?”
Avrei potuto dire che non era il mio, ma la signora che mi sedeva accanto non la smetteva più di fissare la mia ventiquattr’ore.
“Grazie, non me ne ero accorto” risposi fra i denti. Mi chiesi perché non lo avessi spento. Feci scattare la serratura e, con la coda dell’occhio, lessi sul display illuminato il nome del mio medico. Incontrai di nuovo lo sguardo severo della donna. Sospirai.
Mi aspettavo la voce angelica di Eleonora l’assistente in camice bianco che incarna alla perfezione i miei sogni erotici ma a rispondermi fu il dottor Ligresti in persona: Paolo Ligresti, uno dei miei rari compagni di scuola riuscito a concretizzare le proprie aspirazioni giovanili; non come come me che dopo tre esami in quattro anni avevo mollato la medicina e suoi insegnamenti salutistici.
“Giulio, devi venire subito al mio studio. È tutta la mattina che cerco di parlare con te.”
“Che altro c’è da sapere? È tutto chiaro, mi pare.”
“Non posso parlartene al telefono. Ti aspetto.”
La questione, in effetti, era alquanto imbarazzante e anche piuttosto urgente: un “malaugurato quanto gradito scambio di risultati”, un “raro caso di omonimia”, una di “quelle cose che non dovrebbero capitare mai ma che a volte (e per fortuna) lo fanno”. insomma: non ero io a dover morire: lo avrebbe fatto un altro al posto mio. Con qualche cura adeguata sarei tornato a saltare come un grillo nel giro di qualche settimana; come passare dal tramonto all’alba in un battito di ciglia.
Il mio “tramonto” durava da una quindicina di giorni trascorsi cercando di mettere ordine a quel restava della mia vita: tutto pronto per il grande viaggio verso l’ignoto. Testamento compreso. Non che avessi molto da lasciare: avevo avuto il buon gusto di non sposarmi e soprattutto di non generare figli. In ufficio avrebbero sentito la mia mancanza? Solo perché, di certo, qualcuno avrebbe dovuto rinunciare alle ferie almeno fino a quando non avessero trovato un sostituto.
L’idea mi scaturì appena uscito dallo studio del medico, mi specchiai nella vetrina di un’agenzia viaggi e non seppi resistere alla tentazione. Non avrei più viaggiato verso i luoghi freddi e bui della morte: il deserto mi chiamava… e non un deserto qualunque: Atacama, il luogo che più di ogni altro mi era rimasto nel cuore. Ci ero stato una volta, da bambino, con mio padre; a quei tempi lavorava per una multinazionale e aveva accumulato molti punti come frequent flyer. Aveva voluto portarmi con sé per una vacanza speciale nonostante le riluttanze di mia madre, la sua ex moglie.
Così, anziché un laconico certificato attestante la mia dipartita, il datore di lavoro ricevette la mia lettera di dimissioni. Non avrei trascorso un’ora in più della mia vita chiuso in un ufficio. Le finanze mi consentirono di affittare una stanza modesta a San Pedro de Atacama.
Da lì occorrevano almeno un paio d’ore di cammino per raggiungere le prime dune, ma il viaggio sarebbe stato ripagato dalla vista della maestosa distesa di sabbia dorata.
Ricordavo le dune che sembravano scogliere desolate, una sorta di eremo naturale, un santuario della bellezza mi sarei perfino inginocchiato davanti a loro se non mi fossi vergognato a farlo davanti a mio padre. Durante il giorno il deserto brillava sotto un sole implacabile, ma, col calare della notte, diventava una finestra aperta sull’Universo: le stelle accendevano l’oscurità di una miriade di luci scintillanti.
Entrambi distesi sopra una stuoia di canapa, con il solo naso che sporgeva dalla spessa coperta di lana, facevamo a gara a chi riusciva a contarne di più.
“Le vedi quelle specie di nuvolette lassù?”
“Sì, papà, cosa sono?”
Lui sospirava e io restavo in attesa della spiegazione col cuore che batteva forte.
“Le chiamano le nubi di Magellano. Sono delle piccole galassie.”
“Cos’è una galassia?”
“È un luogo in cui le stelle sono così fitte che per contarle non basterebbe una vita intera!”
“Davvero? E come fanno a saperlo?”
“Lo sanno perché hanno studiato. Se vorrai, potrai studiare astronomia all’Università.”
Sarei rimasto ore e ore ad ascoltarlo. Immaginavo di poter lavorare un giorno presso i grandi osservatori astronomici situati lassù in alto, dove sembrava quasi di poter raccogliere le stelle con le mani. Le dune parevano fondersi con l’immensità del cosmo.
“Ora basta chiacchierare, lasciamo parlare il deserto. Per sentire la sua voce dobbiamo restare in silenzio.”
Al mattino presto la nostra borraccia era quasi vuota.
“Fra un po’ sarà troppo caldo e non abbiamo più molta acqua da bere. Dobbiamo rientrare.”
“Come fanno a sopravvivere le piante e gli animali qui?”
“Hanno imparato a rispettare la natura e i suoi tempi. Quando piove accumulano l’acqua per resistere nei momenti più difficili. Molti credono che il deserto sia arido e spietato, ma solo perché lo guardano senza vederlo veramente. In realtà ha molte cose da insegnare se lo si osserva con attenzione.”
Di solito rientravamo in hotel alle prime luci dell’alba. [font="Open Sans", "Segoe UI", Tahoma, sans-serif]Ora che ci penso non ricordo perché scelsi d’iscrivermi a medicina. Forse per seguire una ragazza che frequentavo a quei tempi. Scelta rivelatasi pessima sotto ogni punto di vista.[/font]
La mia locataria si chiamava Catalina, una vera stella scesa dal cielo per illuminare il mio cammino.
La prima cosa che mi colpì non fu la sua bellezza (peraltro davvero notevole) ma il suo sguardo. Ero atterrato da qualche giorno e già mi erano rimasti pochi soldi. Non potevo permettermi di sperperare tutto in hotel.
“A San Pedro c’è sempre chi ha bisogno di affittare una stanza” mi avevano detto e mi aggiravo per le vie polverose di quella cittadina alla ricerca di qualcuno che potesse aiutarmi.
La incontrai mentre trasportava una cesta piena di abiti, gli occhi scintillavano come biglie sul suo viso annerito. Odorava di fumo e fuliggine, sembrava uscita da una qualche fiaba.
I nostri sguardi s’incontrarono per un attimo che mi parve lunghissimo. Mi offrii di aiutarla.
Raggiunta l’abitazione, le chiesi se conoscesse qualcuno che avesse una stanza da affittare. Mi disse che suo padre era morto e che viveva sola con la madre anziana. Aveva una camera libera per una manciata di pesos alla settimana. Se fossi stato credente avrei baciato il crocefisso appeso alla parete, ma mi limitai a una calorosa stretta di mano.
“Ti andrebbe di accompagnarmi nel deserto? Ci sono stato molti anni fa e muoio dalla voglia di rivederlo”.
Lei si avvicinò alla finestra e scostò le tendine.
“Hai mai sentito parlare del desierto vestido?”
“No. Dove sarebbe questo posto?”
“Se vuoi venire con me, domani ci vado.”
Camminavamo da più di tre ore sotto il sole cocente quando fummo investiti da un odore talmente forte da impedirci di respirare. La tosse non mi dava tregua, un fumo acre avvelenava l’aria facendomi lacrimare gli occhi. Quando riuscii a riaprirli, mi accasciai sulla sabbia: non c’erano le dune dorate che ricordavo, ma un immenso accumulo di stracci abbandonati. Uomini dai volti anneriti davano fuoco a pire d’indumenti: camicie, abiti, pantaloni, maglie di ogni taglia e colore accatastate dappertutto costituivano una smisurata discarica a cielo aperto. Qua e là sulle piccole montagne fumanti, gruppi di bambini inginocchiati si affannavano a rovistare tra i rifiuti alla ricerca di qualche abito risparmiato dalle fiamme e forse ancora buono da indossare o da rivendere.
Di fronte a quel panorama così devastato, cercai invano i cespugli, gli animali, i bellissimi fiori che ricordavo. Mi chiesi il perché di un simile scempio.
Sarebbe stato meglio se avessi conservato il ricordo di com’era… Stavo seduto sulla sabbia mentre Catalina frugava tra gli indumenti, quando uno dei lavoranti si avvicinò porgendomi un fazzoletto. Mi venne spontaneo tirare l’uomo per la giacca e chiedergli tra i singhiozzi: «Chi ha ridotto così il deserto?»
Lui mi mise una mano sulla spalla e sedette accanto a me. Restò qualche istante in silenzio poi, senza distogliere lo sguardo dal fuoco che aveva appena acceso, mi rispose:
“Todo el mundo, señor… Sono rifiuti tessili provenienti dalle fabbriche e dalle raccolte di ogni nazione della Terra. Abiti fuori moda che non si vendono più, vestiti sia nuovi che usati vengono portati qui per essere distrutti. Il nostro governo permette questo schifo e per il fare il lavoro sporco si approfitta dei poveracci come me che non sanno come sfamare la famiglia. È inutile cercare un solo colpevole.”
Il luogo incantato che ricordavo non esisteva più.
Una volta rientrati mi chiusi in camera senza mangiare meditando di andare via e di tornare alla mia vecchia vita.
Deciso a comunicarle le mie intenzioni, entrai nella stanza. Catalina stava tagliando un vecchio paio di jeans e faticava parecchio per via del tessuto spesso.
“Che stai facendo? Lascia che ti aiuti.”
“Una borsa.”
“Una borsa con dei vecchi jeans?”
“Che c’è di strano? È un tessuto ancora buono, li ho presi al desierto vestitdo. Guarda… basta tagliarli fino al cavallo e cucire la base.”
Mi sedetti accanto a lei e parlammo tutta la notte. Mi disse che, se chiudeva gli occhi, le sembrava di sentire il lamento soffocato proveniente dal deserto e il grido muto dei vestiti abbandonati che le chiedevano una nuova vita. Per questo aveva organizzato un gruppo di volontarie che, armate di guanti e sacchi da raccolta, s’immergevano ogni giorno nell’enorme montagna di rifiuti alla ricerca di abiti da salvare. Lavoravano sodo nonostante il caldo soffocante e il fetore che appestava l’aria. Catalina mi raccontò che riusciva a percepire la nostalgia e la storia intrappolata tra le cuciture di ciascuno di quegli abiti abbandonati. Con ago e filo trasformava le vecchie camicie in borse colorate e i jeans ormai logori in eleganti gonne. Gli abiti considerati fino a quel momento come spazzatura da bruciare, avevano l’opportunità di vivere una seconda vita e contribuire a salvare il deserto.
Quella notte non riuscii a dormire. Pensai che se fossi partito non avrei più rivisto Catalina, che forse avrei potuto aiutarla che se mi era stata donata una seconda possibilità di vita non avrei dovuto sprecarla. Così mi unii al gruppo di volontari.
Negli ultimi anni si sono sviluppate molte industrie per il recupero dei rifiuti tessili provenienti da tutto il mondo che stanno soffocando il deserto di Atacama.
Catalina oggi è un’imprenditrice di successo e, sì, lei è riuscita a dare una nuova vita anche a me. Ogni tanto prendiamo una stuoia e una coperta per trascorrere la notte nel deserto e, quando il vento accarezza le dune, ci sembra di sentirlo sussurrare: “Gracias.”