La musica salva
Posted: Mon Oct 09, 2023 2:26 pm
La mansarda della nonna era interamente coperta da lenzuola bianche. Sua nipote non osava entrarci dopo il tragico avvenimento di quel giorno. L'aria sembrava più rarefatta e la luce passava flebile attraverso gli infissi, una coltre di polvere si era depositata sull'arredo di mogano. In un angolo Eloisa aveva lasciato l'oggetto a sé più caro, uno dei suoi amori sepolti tra le macerie. Su un mobiletto era riposta una foto incorniciata. La strofinò con la manica del maglione: era la foto di famiglia, raffigurante lei bambina, suo padre ancora pieno di vita, sua madre e la nonna paterna. Bei tempi andati! Guardandola le si inumidirono gli occhi, fu assorbita da quel ricordo e i suoi pensieri furono risucchiati come in un buco nero, nell'eclissi del tempo...
Eloisa aveva compiuto i suoi ventidue anni la settimana prima, fantasticava sul futuro, come tutti i giovani della sua età. Aveva riempito gli anni migliori dell'adolescenza con le note del suo violoncello, ascoltando in cuffia la musica dei classici. Al calare del sole Eloisa estraeva il suo strumento dalla custodia, pesante come un armadio, ma che trascinava appresso incespicando ovunque.
Non era capace di suonare alla perfezione, come i maestri ostentavano, ma spesso suonava per sé stessa. Pomeriggi interi trascorsi a maneggiare l'arco in noiosi esercizi non la ripagavano dell'attimo in cui si scrollava del peso di suonare per gli altri e si abbandonava al flusso animato dalle viscere. Istanti nitidi in cui il cuore mostrava uno sprazzo di cielo puro. Le corde vibravano con destrezza, il dolore scorreva lungo l'arco come onde che si increspavano in orde di anime dannate. E la notte clemente si mostrava nuda col suo drappo astrale. Eloisa si riscopriva inerme sulla sabbia oscura, umida e soffice nel litorale del suo grembo, immergendosi completamente nel mare buio, illuminato soltanto dai bagliori di luna. Il rumore dei sassi e delle correnti le riempivano la testa mentre giocava sott'acqua. Nuotava libera nell'assenza di forme, ammirando quel teatro di nulla con una platea di pesci e spettri abissali. Il suo cadavere vagava sul palco salmastro, svuotato della sua intima essenza, mentre le alghe si appiccicavano, viscide. Gli occhi sgranati sul fondale contemplavano l'abisso che si schiudeva a poco a poco dalla sua conchiglia a spirale, col suo fulcro di perla. I riflessi lunari si infrangevano frastagliati sui segreti del mondo, e lei diventava una goccia d'acqua, come parte di una vita più grande.
Quel pomeriggio tirò un sospiro di sollievo. La suite in Sol maggiore di Bach si concluse con una lunga arcata, migliaia di ineffabili voci fuse all'unisono. Tesseva la sua musica come faceva la cara vecchia nonna all'uncinetto, scaldata dalla luce del focolare, mentre l'odore di stufato impregnava la stanza. Era così che Eloisa entrava in un tempo e uno spazio che non le appartenevano – lontana dalla voce degli altri.
Una sera di quelle la nonna lasciò cadere lo stufato, scossa dalla notizia appena ricevuta. «Eloisa, cara» singhiozzò, «tuo padre dice di non stare molto bene...»
Eloisa si precipitò istantaneamente nell'ospizio, dedicato alla cura dei pazienti terminali. Aveva condotto delle ricerche sul web in merito a quel posto, la madre omise i dettagli sulle condizioni del padre, e solo così apprese della tipologia dei pazienti cui era dedicata la struttura. Medici e infermieri non si arrischiavano a formulare sentenze nette, tanto meno se suonavano come condanne a morte.
«Guarirà? Quanto gli rimane ancora da vivere?» domandava, supplichevole.
«Mi dispiace, signorina» rispose l'oncologo, «non possiamo formulare delle stime sull'evoluzione della patologia. Suo padre soffre di cancro epatico.»
Non aveva parlato di guarigione. Nessuno tra i sanitari aveva menzionato ad un miglioramento della patologia, del resto non c'era da aspettarsela dal momento che era terminale.
Sarebbe rimasta orfana, a ventidue anni. Gli strinse la mano, fissando il suo vecchio. Giovanni, straziato, enunciò fievole: «Eloisa, adesso comprendo perché mi hanno spostato in questa casa di cura!» e tossì. «Forse la loro speranza è di gran lunga minore della mia. Ma, in cuor mio, avrei ancora un'ultima speranza per te: che tu ti senta realizzata e faccia davvero ciò che ti ispira. La vita è un soffio, e io sento di andarmene...»
Giovanni singhiozzò sommessamente, poi trasse un profondo respiro: «Devi perdonarmi, non sono pronto a lasciare te e tua madre. Siete state la mia gioia più grande... Eloisa, continua a suonare, non lasciarti abbattere e vai avanti per la tua strada. Sei una ragazza assennata, figlia mia!»
Si abbracciarono a lungo, consapevoli di quegli effimeri istanti. Eloisa si aggrappò al suo affetto più caro con tutte le forze che aveva.
«Così facendo riempiremo un'intera tinozza con tutte queste lacrime...» ridacchiò il padre, sistemandosi le lenzuola.
«Oh, papà! Anche in queste circostanze non perdi mai la tua vena umoristica!» sorrise, malinconica. Guardò le pareti anguste della piccola stanza: non vi erano finestre e sul comodino erano poggiate le stoviglie della colazione, non ancora rimosse.
«Suonerò per te.»
Lasciò la stanza, precipitandosi fuori da quel posto. Se fosse stata abbastanza celere, vi sarebbe stata un'ultima possibilità di realizzare il suo ultimo desiderio – abbracciare il padre con la musica, accompagnarlo al trapasso, confortarlo e stringerlo tra le note, aprire un varco tra i due mondi e, velatamente, pregare di sottrarlo alla sorte. La musica salva, ne era profondamente convinta. Valeva la pena di fare un tentativo!
Strada facendo, Eloisa incrociò l'oncologo dell'equipe. Disse di chiamarsi Mario.
«Signorina, devo chiederle il consenso per la somministrazione della sedazione palliativa, in caso si renda strettamente necessario. È solo una precauzione...»
Eloisa acconsentì, e una goccia di lacrima bagnò il foglio, sul proprio nome.
«Devo andare, non ho molto tempo» proseguì, e percorse a ritroso la strada per casa. In tutta fretta varcò la porta d'ingresso e il viale alberato – che paradosso! La sua stagione preferita, l'autunno, si apriva con uno spettacolo di foglie dorate. Ma sentiva la morte incombere in ogni dove. Quel giorno la nebbia si infittì, aumentando la sua voglia di non saperne più nulla, di rintanarsi in casa dei genitori, riscaldata dal focolare, e fingere che nulla, nulla di tutto ciò stesse realmente accadendo! Forse c'era ancora una speranza. Forse. Cuore duro, ripeteva tra sé, ora doveva sostenere il peso di quella situazione. Caricò il violoncello sulle spalle e si imbarcò nuovamente in quel tugurio. L'unica cosa che le fu concesso di fare era viverlo fino in fondo, prima di salutare il padre. Afferrò le chiavi dell'auto, ripose lo strumento nel portabagagli, chiudendolo con un tonfo, e girò le chiavi, azionando la locomotiva. Diede un colpo al cambio per la retromarcia e invertì il corso dei suoi pensieri – ci sarebbe mai stata un'altra soluzione a tutto ciò?
Spinse il piede sull'acceleratore, ebbe cura di procedere a velocità moderata a causa della nebbia. La sua mente suonava durante il tragitto. Questa volta erano note di dolore, abbandonata nella solitudine. Era sola sul palco, illuminata da una flebile luce lontana, il teatro vuoto. Non c'era nessuno. Suonava l'Estate di Vivaldi, bruciando nel calore infernale della sua collera. Migliaia di corde laceravano la sua pelle, sfilacciando la carne inerme, ancorata alla speranza con le catene di Efesto. Il suo corpo nudo era esposto a mezz'aria, sospeso sul magma esangue. Se avesse smesso di sperare, la sua condanna sarebbe scemata. Doveva rassegnarsi, ma non voleva. Parcheggiò nell'anfratto retrostante l'ospizio e si precipitò col peso dei ricordi nella stanza numero cinque.
Giovanni era immobile. L'ECG tracciava una linea retta, il filo di vita che sottende l'arco tra il suono e il silenzio. Il personale sanitario iniziò la trafila per addobbare e ripulire il cadavere.
Eloisa scoppiò in lacrime.
«Signorina, non è orario di visite. Lei non può sostare nella stanza!» proferì un operatore sanitario.
«Lo so, ma avevo bisogno di vederlo un'ultima volta.»
«Capisco. Credo, però, non sia consigliabile assistere finché il personale non abbia concluso le prassi igieniche.»
Mario la accompagnò accoratamente alla porta. Il suo desiderio di suonare sfumò vorticosamente.
La salma di Giovanni fu esposta nella sala mortuaria. Il silenzio accompagnava quei momenti, riportando il filo della memoria a ritroso. Aveva un'espressione tutto sommato serena.
Eloisa afferrò il violoncello, impugnò l'arco e bruciò i suoi crini con fuoco. Il suono venne a galla dalle viscere della terra, mutando l'aria e il suo paesaggio. La suite per violoncello disegnò la sua trama idillica, fatta di colline, monti e distese azzurre di cielo. Vide attraversare quello spazio blu dai ricordi vaporosi, intangibili castelli di nuvole incassati sullo sfondo del mondo. Impugnò una di quelle e osservò l'ultimo abbraccio di suo padre, poi ne afferrò un'altra e si rivide piccola, quando a sei anni lui la portò a fare una passeggiata al parco. Era felice, negli attimi in cui, bambina, tutto scorreva nel capriccio delle infinite possibilità creative della fanciullezza. Eloisa si avvicinò al lago, stringendolo per mano.
Alla vista di un'anatra strabuzzò gli occhi. Cos'è quella?, si domandava. Era la prima volta che vedeva un'anatra e si meravigliava di quante creature potessero popolare la Terra, note e ignote. Chissà quanti altri animali ci saranno in giro, pensava. Quella scoperta la riempì di stupore. Un'anatra! Quei piccoli dilemmi da fanciulla erano dei veri e propri rompicapo. Invidiava quell'età in cui i veri dilemmi della vita erano questi: Chissà quanti altri animali ci saranno in giro. Avrebbe pagato fior di danaro per tornare a quel momento e sigillarlo per sempre in un diamante, da poter vivere e rivivere più volte, incolume alle crepe del tempo.
Afferrò un'altra nuvola – il padre le insegnò a cucinare i pancake. Osservava le bollicine che scoppiavano lasciando dei fori nell'impasto. Era divertente, e gustoso! Ma forse sarebbe venuto ancora più buono con un cuore di cioccolato fondente.
Le nuvole evaporarono tra le mani, impalpabili. Eloisa ritornò coi piedi a terra, schiantandosi contro la realtà all'ultimo vibrato. Il silenzio avvolse la sala. Era sola, la salma immobile. Realizzò il suo ultimo tributo e schioccò un bacio sulla sua fronte.
«A presto, papà.»
Lasciò la porticina della sala alle sue spalle. Le mani fredde e sudate stringevano quell'ammasso voluminoso di legno. Avrebbe desiderato lanciarlo dalla finestra, bruciarlo e complottare col diavolo per una resurrezione. Lontano dalle voci altrui, Eloisa percepì la sua annegare nelle profondità dell'oceano. Il crocchio per le condoglianze dei giorni seguenti in casa paterna fu estremamente doloroso. Indossava gli abiti austeri e sobri da concerto, indifesa, impreparata. Ma non avrebbe suonato questa volta. La messa si svolse in lutto, mentre l'aria veniva strappata unicamente dall'omelia del prete. Nero, buio, era tutto ciò che riusciva a sentire – e non v'era tributo che colmasse tale perdita. Il suo calice di vino spezzava il confine tra la materia e l'oltretomba, vuoto.
Qualcosa di sottile era cambiato.
Sedeva quieta, sullo scranno mediano tra i due mondi, dove luce e oscurità si mescolano, mostrando le linee di una stanza, coperta da lenzuola bianche, con al centro un leggio. La foto raccontava di una vita spezzata: Eloisa non avrebbe mai più suonato. Guardò il violoncello un'ultima volta. Osservò le forme delle memorie sgretolarsi come soffioni al vento, e seppellì la foto – la sua – sotto un velo bianco.
commento della giornata
Eloisa aveva compiuto i suoi ventidue anni la settimana prima, fantasticava sul futuro, come tutti i giovani della sua età. Aveva riempito gli anni migliori dell'adolescenza con le note del suo violoncello, ascoltando in cuffia la musica dei classici. Al calare del sole Eloisa estraeva il suo strumento dalla custodia, pesante come un armadio, ma che trascinava appresso incespicando ovunque.
Non era capace di suonare alla perfezione, come i maestri ostentavano, ma spesso suonava per sé stessa. Pomeriggi interi trascorsi a maneggiare l'arco in noiosi esercizi non la ripagavano dell'attimo in cui si scrollava del peso di suonare per gli altri e si abbandonava al flusso animato dalle viscere. Istanti nitidi in cui il cuore mostrava uno sprazzo di cielo puro. Le corde vibravano con destrezza, il dolore scorreva lungo l'arco come onde che si increspavano in orde di anime dannate. E la notte clemente si mostrava nuda col suo drappo astrale. Eloisa si riscopriva inerme sulla sabbia oscura, umida e soffice nel litorale del suo grembo, immergendosi completamente nel mare buio, illuminato soltanto dai bagliori di luna. Il rumore dei sassi e delle correnti le riempivano la testa mentre giocava sott'acqua. Nuotava libera nell'assenza di forme, ammirando quel teatro di nulla con una platea di pesci e spettri abissali. Il suo cadavere vagava sul palco salmastro, svuotato della sua intima essenza, mentre le alghe si appiccicavano, viscide. Gli occhi sgranati sul fondale contemplavano l'abisso che si schiudeva a poco a poco dalla sua conchiglia a spirale, col suo fulcro di perla. I riflessi lunari si infrangevano frastagliati sui segreti del mondo, e lei diventava una goccia d'acqua, come parte di una vita più grande.
Quel pomeriggio tirò un sospiro di sollievo. La suite in Sol maggiore di Bach si concluse con una lunga arcata, migliaia di ineffabili voci fuse all'unisono. Tesseva la sua musica come faceva la cara vecchia nonna all'uncinetto, scaldata dalla luce del focolare, mentre l'odore di stufato impregnava la stanza. Era così che Eloisa entrava in un tempo e uno spazio che non le appartenevano – lontana dalla voce degli altri.
Una sera di quelle la nonna lasciò cadere lo stufato, scossa dalla notizia appena ricevuta. «Eloisa, cara» singhiozzò, «tuo padre dice di non stare molto bene...»
Eloisa si precipitò istantaneamente nell'ospizio, dedicato alla cura dei pazienti terminali. Aveva condotto delle ricerche sul web in merito a quel posto, la madre omise i dettagli sulle condizioni del padre, e solo così apprese della tipologia dei pazienti cui era dedicata la struttura. Medici e infermieri non si arrischiavano a formulare sentenze nette, tanto meno se suonavano come condanne a morte.
«Guarirà? Quanto gli rimane ancora da vivere?» domandava, supplichevole.
«Mi dispiace, signorina» rispose l'oncologo, «non possiamo formulare delle stime sull'evoluzione della patologia. Suo padre soffre di cancro epatico.»
Non aveva parlato di guarigione. Nessuno tra i sanitari aveva menzionato ad un miglioramento della patologia, del resto non c'era da aspettarsela dal momento che era terminale.
Sarebbe rimasta orfana, a ventidue anni. Gli strinse la mano, fissando il suo vecchio. Giovanni, straziato, enunciò fievole: «Eloisa, adesso comprendo perché mi hanno spostato in questa casa di cura!» e tossì. «Forse la loro speranza è di gran lunga minore della mia. Ma, in cuor mio, avrei ancora un'ultima speranza per te: che tu ti senta realizzata e faccia davvero ciò che ti ispira. La vita è un soffio, e io sento di andarmene...»
Giovanni singhiozzò sommessamente, poi trasse un profondo respiro: «Devi perdonarmi, non sono pronto a lasciare te e tua madre. Siete state la mia gioia più grande... Eloisa, continua a suonare, non lasciarti abbattere e vai avanti per la tua strada. Sei una ragazza assennata, figlia mia!»
Si abbracciarono a lungo, consapevoli di quegli effimeri istanti. Eloisa si aggrappò al suo affetto più caro con tutte le forze che aveva.
«Così facendo riempiremo un'intera tinozza con tutte queste lacrime...» ridacchiò il padre, sistemandosi le lenzuola.
«Oh, papà! Anche in queste circostanze non perdi mai la tua vena umoristica!» sorrise, malinconica. Guardò le pareti anguste della piccola stanza: non vi erano finestre e sul comodino erano poggiate le stoviglie della colazione, non ancora rimosse.
«Suonerò per te.»
Lasciò la stanza, precipitandosi fuori da quel posto. Se fosse stata abbastanza celere, vi sarebbe stata un'ultima possibilità di realizzare il suo ultimo desiderio – abbracciare il padre con la musica, accompagnarlo al trapasso, confortarlo e stringerlo tra le note, aprire un varco tra i due mondi e, velatamente, pregare di sottrarlo alla sorte. La musica salva, ne era profondamente convinta. Valeva la pena di fare un tentativo!
Strada facendo, Eloisa incrociò l'oncologo dell'equipe. Disse di chiamarsi Mario.
«Signorina, devo chiederle il consenso per la somministrazione della sedazione palliativa, in caso si renda strettamente necessario. È solo una precauzione...»
Eloisa acconsentì, e una goccia di lacrima bagnò il foglio, sul proprio nome.
«Devo andare, non ho molto tempo» proseguì, e percorse a ritroso la strada per casa. In tutta fretta varcò la porta d'ingresso e il viale alberato – che paradosso! La sua stagione preferita, l'autunno, si apriva con uno spettacolo di foglie dorate. Ma sentiva la morte incombere in ogni dove. Quel giorno la nebbia si infittì, aumentando la sua voglia di non saperne più nulla, di rintanarsi in casa dei genitori, riscaldata dal focolare, e fingere che nulla, nulla di tutto ciò stesse realmente accadendo! Forse c'era ancora una speranza. Forse. Cuore duro, ripeteva tra sé, ora doveva sostenere il peso di quella situazione. Caricò il violoncello sulle spalle e si imbarcò nuovamente in quel tugurio. L'unica cosa che le fu concesso di fare era viverlo fino in fondo, prima di salutare il padre. Afferrò le chiavi dell'auto, ripose lo strumento nel portabagagli, chiudendolo con un tonfo, e girò le chiavi, azionando la locomotiva. Diede un colpo al cambio per la retromarcia e invertì il corso dei suoi pensieri – ci sarebbe mai stata un'altra soluzione a tutto ciò?
Spinse il piede sull'acceleratore, ebbe cura di procedere a velocità moderata a causa della nebbia. La sua mente suonava durante il tragitto. Questa volta erano note di dolore, abbandonata nella solitudine. Era sola sul palco, illuminata da una flebile luce lontana, il teatro vuoto. Non c'era nessuno. Suonava l'Estate di Vivaldi, bruciando nel calore infernale della sua collera. Migliaia di corde laceravano la sua pelle, sfilacciando la carne inerme, ancorata alla speranza con le catene di Efesto. Il suo corpo nudo era esposto a mezz'aria, sospeso sul magma esangue. Se avesse smesso di sperare, la sua condanna sarebbe scemata. Doveva rassegnarsi, ma non voleva. Parcheggiò nell'anfratto retrostante l'ospizio e si precipitò col peso dei ricordi nella stanza numero cinque.
Giovanni era immobile. L'ECG tracciava una linea retta, il filo di vita che sottende l'arco tra il suono e il silenzio. Il personale sanitario iniziò la trafila per addobbare e ripulire il cadavere.
Eloisa scoppiò in lacrime.
«Signorina, non è orario di visite. Lei non può sostare nella stanza!» proferì un operatore sanitario.
«Lo so, ma avevo bisogno di vederlo un'ultima volta.»
«Capisco. Credo, però, non sia consigliabile assistere finché il personale non abbia concluso le prassi igieniche.»
Mario la accompagnò accoratamente alla porta. Il suo desiderio di suonare sfumò vorticosamente.
La salma di Giovanni fu esposta nella sala mortuaria. Il silenzio accompagnava quei momenti, riportando il filo della memoria a ritroso. Aveva un'espressione tutto sommato serena.
Eloisa afferrò il violoncello, impugnò l'arco e bruciò i suoi crini con fuoco. Il suono venne a galla dalle viscere della terra, mutando l'aria e il suo paesaggio. La suite per violoncello disegnò la sua trama idillica, fatta di colline, monti e distese azzurre di cielo. Vide attraversare quello spazio blu dai ricordi vaporosi, intangibili castelli di nuvole incassati sullo sfondo del mondo. Impugnò una di quelle e osservò l'ultimo abbraccio di suo padre, poi ne afferrò un'altra e si rivide piccola, quando a sei anni lui la portò a fare una passeggiata al parco. Era felice, negli attimi in cui, bambina, tutto scorreva nel capriccio delle infinite possibilità creative della fanciullezza. Eloisa si avvicinò al lago, stringendolo per mano.
Alla vista di un'anatra strabuzzò gli occhi. Cos'è quella?, si domandava. Era la prima volta che vedeva un'anatra e si meravigliava di quante creature potessero popolare la Terra, note e ignote. Chissà quanti altri animali ci saranno in giro, pensava. Quella scoperta la riempì di stupore. Un'anatra! Quei piccoli dilemmi da fanciulla erano dei veri e propri rompicapo. Invidiava quell'età in cui i veri dilemmi della vita erano questi: Chissà quanti altri animali ci saranno in giro. Avrebbe pagato fior di danaro per tornare a quel momento e sigillarlo per sempre in un diamante, da poter vivere e rivivere più volte, incolume alle crepe del tempo.
Afferrò un'altra nuvola – il padre le insegnò a cucinare i pancake. Osservava le bollicine che scoppiavano lasciando dei fori nell'impasto. Era divertente, e gustoso! Ma forse sarebbe venuto ancora più buono con un cuore di cioccolato fondente.
Le nuvole evaporarono tra le mani, impalpabili. Eloisa ritornò coi piedi a terra, schiantandosi contro la realtà all'ultimo vibrato. Il silenzio avvolse la sala. Era sola, la salma immobile. Realizzò il suo ultimo tributo e schioccò un bacio sulla sua fronte.
«A presto, papà.»
Lasciò la porticina della sala alle sue spalle. Le mani fredde e sudate stringevano quell'ammasso voluminoso di legno. Avrebbe desiderato lanciarlo dalla finestra, bruciarlo e complottare col diavolo per una resurrezione. Lontano dalle voci altrui, Eloisa percepì la sua annegare nelle profondità dell'oceano. Il crocchio per le condoglianze dei giorni seguenti in casa paterna fu estremamente doloroso. Indossava gli abiti austeri e sobri da concerto, indifesa, impreparata. Ma non avrebbe suonato questa volta. La messa si svolse in lutto, mentre l'aria veniva strappata unicamente dall'omelia del prete. Nero, buio, era tutto ciò che riusciva a sentire – e non v'era tributo che colmasse tale perdita. Il suo calice di vino spezzava il confine tra la materia e l'oltretomba, vuoto.
Qualcosa di sottile era cambiato.
Sedeva quieta, sullo scranno mediano tra i due mondi, dove luce e oscurità si mescolano, mostrando le linee di una stanza, coperta da lenzuola bianche, con al centro un leggio. La foto raccontava di una vita spezzata: Eloisa non avrebbe mai più suonato. Guardò il violoncello un'ultima volta. Osservò le forme delle memorie sgretolarsi come soffioni al vento, e seppellì la foto – la sua – sotto un velo bianco.
commento della giornata