Baciamo le mani

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«Gasparino ancora qua stai? Non lo hai capito che questi americani vi trattano come i “nivuri” (i negri)? A vedere picciotti intelligenti come te sopra queste impalcature mi sale una rabbia che non te la puoi immaginare.» Disse don Tano Gambino guardando il ponteggio alle spalle di Gaspare. Aveva una voce profonda e i capelli neri – lucidi di brillantina – pettinati all’indietro.
«E che dobbiamo fare Mister Gambino? Il pane è duro per noi che veniamo dalla Sicilia.»
«Ma il pane buono si può trovare se uno si guarda intorno.» – Poi, indicandola con il sigaro, chiese – «Che ti sei fatto alla mano?»
«Per un pelo non ci ho rimesso la vita, – rispose il giovane fissando la fasciatura impolverata – qui non sa fare niente nessuno, questi macchinari sono troppo moderni per noi, e incidenti ne capitano uno ogni ora.»
«Ho saputo di Serafino. Puvirazzu. Che disgrazia.»
«Già, lo hanno rimandato a casa nella cassa da morto, e l'impresario si è fatto pure grande riempiendosi la bocca. Mister John è venuto a dirci che gli dispiaceva, che Serafino era un gran lavoratore, e per questo gli ha pagato il viaggio di ritorno. Davvero un bel regalo! Certe volte, Mister Gambino, mi verrebbe voglia di scappare, ma per andare dove? A casa non ci torno. Di dare soddisfazione a mio suocero, che mi diceva di non valere niente, non se ne parla proprio. E Ninetta, dopo quello che ha fatto per amor mio, un perdente non se lo merita.»
In effetti Gaspare era un bonaccione, incapace di attaccare briga, e il suocero, un commerciante avido e arguto, non lo aveva mai avuto a genio. L’uomo aveva i suoi metodi e le sue idee; associava l’umiltà del genero alla mancanza d’ingegno e di inventiva. “Se non ti fai furbo, pane a casa non ne porti.” gli ripeteva di continuo.
L’unico atto di coraggio, Gaspare, lo aveva fatto per amore, portandosi via Ninetta, in una notte di romantica paura, attraverso il giardino che profumava di zagara d’arancio.
Ninetta gli aveva dimostrato, così, oltre all’amore immenso, una fiducia totale e incondizionata.
Dopo tre mesi di rituale disprezzo in cui il suocero andava sbraitando di stanza in stanza che mai li avrebbe perdonati, c’era stato il riavvicinamento.
Il suocero avrebbe voluto istruire e instradare Gaspare nella sua drogheria: la più redditizia del paese. Gli voleva insegnare come fregare 10 grammi ad ogni pesata capaci di fruttare chili e chili di guadagno senza perdere i clienti.
Gaspare, però, era un allievo pessimo e imparava al contrario; i 10 grammi li faceva diventare venti e li regalava ai più poveri del paese.
Il suocero lo aveva licenziato al grido di: “Ladri, in casa mia, non ne voglio”.

Dopo tre anni di America e "pititto" (fame), a Gaspare si schiariscono le idee: non può continuare a confidare nella speranza. No.
Ha rischiato già più volte la vita sulle impalcature dove sale con le scarpe sfondate.
E adesso… “Gasparino, che stai facendo?  Quei chiodi non vanno bene per il fissaggio delle assi. Ma dove hai la testa?” Oppure “Che fai, non mangi?”
Ad ogni rimprovero o domanda, non risponde più.
Ormai, lavora di malavoglia e quel che fa gli pesa il triplo. Si guarda le mani cui vorrebbe far fare cose di altro valore, da rendere quel tanto per far vivere a Ninetta e al figlio bello, la vita dei veri benestanti.
“Se non ti fai furbo non ne porti pane a casa”, le parole del suocero gli scorticano le orecchie facendogli sbagliare i chiodi, chiudendogli lo stomaco nonostante la fame non lo lasci mai.
E più la buona sorte tarda ad arrivare, più la fame si fa sentire.
Non fosse stato per la dignità avrebbe pianto giorno e notte come un “nutricheddu” (un neonato).
Basta!
Ora vuole di più.
Lo capisce notte dopo notte, quando non riesce a dormire per la stanchezza, o sente il bisogno di Ninetta, oppure quando lo prende il terrore di non vedere crescere suo figlio, né godersi la sua famiglia, lasciata a casa del suocero.
Vuole di più, sì, e ciò che vuole gli serve ora.
Strappa via la benda, la mano sta guarendo, la cicatrice però gli è rimasta dentro; se ne rende conto mentre prende a cazzotti il cuscino.

Le mazzette di denaro che vede sulla scrivania di Mister John a fine settimana darebbero un buon contributo alla sua causa. Ogni sabato si sente un assetato nel deserto, e ogni volta stringe i pugni per non rubare la “borraccia” che gli fa gola e della quale ha un bisogno estremo.
«Gaspy – così lo chiama Mister Jhon – oggi capocantierre ha lamantato di te, cosa succede? Devo pounirti togliendoti dieci dollari di paga per rimettertti in riga?»
A sentire quell’appunto vorrebbe sferrare un pugno in faccia a Mister Jhon, arraffare tutto quel denaro sulla scrivania e scappare, invece con gli occhi bassi risponde: «Mi manca la famiglia, Mister Jhon, e certi giorni è come mi mancasse il terreno sotto i piedi. Lei faccia come ritenete opportuno.»
«Questo vero pericolo. È errore pensare famiglia lontana quando tu alto trenta metri da terra. Ok, allora rittengo oportuno trattenere dieci dollari che ti faranno mettere più attenzioni in futuro. Lo faccio per ti, perché su questo lavoro non puoi stare distratto. Distrazione è problema per me.»
Giacomo si trattiene a stento dal mettere in atto la sua rapina ribaltando la scrivania per poi darsi alla fuga. Ma lui non è un ladro da ammanettare e gettare in cella. No, a questa bassezza non intende cedere. Incassa senza aggiungere una parola e distoglie lo sguardo dai soldi impilati.
Però, è giunto al limite, non ne può più di gesso e calcinacci, e quei dieci dollari in meno sono l’ultimo sopruso che è disposto a sopportare.
Non è l’unico in quelle condizioni, e sa già che domani o fra tre giorni morirà un altro padre di famiglia, magari uno di quelli arrivati insieme a lui. Poi, anche a non morire nessuno riesce a mettere un centesimo da parte.
Ormai è sul punto di tornare a casa, anche a rischio di dare ragione al suocero.
Un po’ di esperienza in più l’ha acquisita, e in fin dei conti, per la stessa cifra o poco meno, può lavorare al suo paese, a Villabate. Potrebbe tornare a riparare magazzini e masserie; il guadagno vero lo avrebbe dormendo e non dormendo, tutte le notti, con Ninetta accanto.
Fantastica di nuovo: vuole puntare su Palermo.
Quando era partito, la città portava ancora gli sfregi della guerra finita da vent’anni, e Gaspare aveva percepito il fermento della ricostruzione in grande stile. Da lì a qualche tempo, diceva agli amici del bar centrale, sarebbe cominciato il boom dell’edilizia. “Abbattendo i palazzi già mezzo diroccati nascerà la nuova Palermo. Muratori con un poco di cervello possono diventare imprenditori fino ad arricchirsi, di più e meglio che andando in America”.
Chi lo ascoltava, però, lo prendeva in giro, gli dava dell’illuso, mentre lui avrebbe avuto bisogno solo di un socio per sfidare la ventura.
Per lanciarsi in un’impresa, ancor prima di coraggio e capitale, serve chi ti dia fiducia, e lì a Villabate…
Così, dopo l’ennesima derisione: l’America.
Era partito con il mestiere in mano, ma lì, a New York, lo ha già capito, è tutta un’altra cosa.
Sale troppo in alto per non soffrire di vertigini, e poi non ne può più di non capire gli ordini strillati in una lingua che, per quanto ne capisce, potrebbe pure essere dialetto molisano; la stessa lingua di un suo commilitone con il quale non riuscì mai a conversare.
Adesso c’era pure il pericolo della distrazione.

Brucia il resto della paga per chiamare Ninetta dal telefono di un bar.
Il suocero è uno dei pochi nel paese ad avere già il telefono all’ingresso, e sa che a quell’ora Ninetta sta a casa. «Ninè – la incalza senza darle nemmeno il tempo di stupirsi – voglio tornare a casa.»
«Ma che dici Gasparì? Perché?»
«Perché non riesco manco a guadagnare quelli per farti venire qui, che uomo sono?»
«Amore mio, qui non ci manca niente, certo mi manchi tu, ma è solo questione di tempo. Non ti scoraggiare, aspetta ancora qualche mese, magari qualche cosa accade.»
Gaspare sa che ciò che doveva accadere è già accaduto, e lei non lo sta aiutando.

Quando don Tano Gambino gli porge nuovamente la mano, Gaspare ha rischiato per la terza volta di schiantarsi a terra come un vaso di terracotta caduto dalla balaustra. E allora…
I Gambino, don Tano e i suoi figli, hanno fatto fortuna. Loro sì, vivono il sogno americano.
Gasparino, come lo chiama affettuosamente don Tano, immagina che da loro ci sia molto da imparare.
Il Mister con la destra gli stringe la mano ormai guarita e con l’altra se lo abbraccia, poi gli mette in tasca una cifra che supera la paga settimanale del cantiere e gli sorride coi suoi occhi furbi.
A Ninetta, fino a ieri, Giacomo ha spedito lettere piene di promesse e aspettative, senza neppure un dollaro di consolazione.
Il salario non basta nemmeno per lui che deve dare il 20% a don Tano per quel lavoro che gli ha procurato appena sceso dalla nave, senza nemmeno dargli il tempo di guardarsi intorno.
“Finita la quarantena rivolgiti a Mister John, ecco qua” gli aveva detto Cicciuzzo, il figlio maggiore di don Tano, porgendogli un pezzo di carta con l’indirizzo esatto. Sì, Cicciuzzo: un ragazzone corpulento, con le guance rosse che, da piccolo, doveva essere stato tale e quale a un angelo barocco.
All’arrivo di ogni nave, accompagnato da un poliziotto compiacente, Cicciuzzo si aggira per il porto, chiedendo in siciliano chi, tra quei disperati, è in cerca di lavoro.
Quel dialetto è una malia per gli isolani appena giunti in terra straniera. Subito stringono patti, prendono accordi e baciano quelle mani benedette.
Lo stesso era accaduto il giorno dell’arrivo di Gaspare Vitrano.
Quanto era stato felice lui quel giorno!
Cominciare a lavorare immediatamente significava accorciare l’attesa e fare arrivare Ninetta e Nicolino tempo un anno.

Da allora, ogni sabato Masino, il più piccolo dei tre figli di don Tano, passa a riscuotere il “giusto” pattuito. Aspetta lui, e tanti altri, fuori dal cantiere, a bordo della sua Lincoln Continental nera, senza nemmeno scomodarsi a scendere dall’auto.

Quando don Tano Gambino gli mette i dollari in tasca, Gaspare non crede più – come era accaduto al porto con Cicciuzzo – alla solidarietà tra corregionali; ma pensa a Ninetta – che gli manca da morire – e al suocero denigratore. Per questo stringe quella mano più forte di quanto lo stesso Gambino avrebbe immaginato.
L’uomo, mentre se lo porta via, gli offre un sigaro cubano, lo consola, gli dice che si merita ben altro, che d’ora in poi non gli mancherà più niente.
«Ti affido al mio secondogenito, Carmelo, lui è esperto in certe cose che presto imparerai.»

Al suocero, che non l'aveva mai visto di buon occhio, sarebbe toccato ricredersi. Da lì a qualche anno, Gaspare sarebbe tornato per costruire la Palermo nuova, una volta abbattute vecchie palazzine, tante ville antiche e affogati nel cemento ettari di verde ed aranceti.
Sarebbe arrivato in aereo, con l’abito gessato e il borsalino in testa.

Re: Baciamo le mani

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@Adel J. Pellitteri   


Ho letto il tuo testo. L'hai costruito bene.  Non segnalerei i termini in dialetto con la traduzione tra parentesi Fa parte della parlata e, quanto al linguaggio dell'americano che si esprime in italiano maccheronico, lo condurrei, nelle frasi in cui c'è la sua di parlata, meglio. A meno che tu non conosca personalmente un signore che parli in quel modo. La storia, purtroppo, non è nuova. Encomiabile lo spaccato di vita. Avresti potuto approfondire lo stato d'animo dei personaggi: il loro pensiero sulle morti sul lavoro, ad esempio. Mi è sembrato più un articolo che un racconto. Forse sono io a non averlo capito a sufficienza e ad essermi fermata sulla superficie poiché il discorso mi tocca troppo da vicino.

Re: Baciamo le mani

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confusa ha scritto: Avresti potuto approfondire lo stato d'animo dei personaggi: il loro pensiero sulle morti sul lavoro, ad esempio.
Grazie, ottimo suggerimento.
Grazie anche a te per il tempo che mi hai dedicato. I commenti sono l'anima di questo forum, e sono fondamentali per ognuno di noi; indispensabili sia per chi è alle prime armi sia per i più navigati.
confusa ha scritto: Mi è sembrato più un articolo che un racconto.
Rifletterò anche su questo. Purtroppo, la mia mania di sintetizzare, spesso, mi si ritrorce contro. Mi pare di aver capito che nel testo tu abbia percepitco poco coinvolgimento emotivo. Giusto? Dopo un po' di tempo che non scrivo nulla, mi sento in rodaggio.

Ciao e a presto  :rosa:

Re: Baciamo le mani

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In ritardo, ma commento anch'io.

Bel racconto, non c'è che dire.
C'è tutto l'arco della discesa negli inferi della criminalità senza menzionare o mostrare un singolo "crimine" in tutto il testo. Impresa non indifferente. Ci sono soprusi e furberie, ma non è la stessa cosa.

Innanzitutto, una richiesta di chiarimento: quant'era la paga di un muratore degli anni '60-'70 a New York? Mi pare di aver capito che la storia è ambientata in quel periodo.
Chiedo perché la trattenuta di dieci dollari di Mister John mi è sembrata eccessiva. Devo essere sincero, è stata una reazione viscerale, non giustificata da una ricerca. E la reazione è dovuta al fatto che, se non ricordo male, un fumetto negli anni '60 costava circa 15-20 cents.
Quindi dieci dollari equivalevano a 50-65 numeri. Se facessimo un paragone con i prezzi odierni (in cui un fumetto Marvel costa $5), saremmo a $250-$300 di trattenuta settimanale. E mi è sembrato uno sproposito.
Ovviamente so che questo genere di conti non funziona in maniera così lineare. Inoltre Mister John potrebbe essere un vero e proprio sfruttatore. Ma mi era venuta la curiosità di sapere se quei "dieci dollari" fossero frutto di una ricerca o fossero una somma messa lì a scopo puramente narrativo.

Inoltre, alcuni appunti.
Dal punto di vista tipografico, non mi piace molto vedere caporali e trattini mescolati nello stesso discorso diretto:
Adel J. Pellitteri ha scritto: «Ma il pane buono si può trovare se uno si guarda intorno.» – Poi, indicandola con il sigaro, chiese – «Che ti sei fatto alla mano?»
Forse potrebbero funzionare se l'uso fosse coerente all'interno del testo, ma non è così:
Adel J. Pellitteri ha scritto: «Per un pelo non ci ho rimesso la vita, – rispose il giovane fissando la fasciatura impolverata – qui non sa fare niente nessuno, questi macchinari sono troppo moderni per noi, e incidenti ne capitano uno ogni ora.»
Altro punto, che ha già toccato @confusa: non c'è bisogno di traduzione dei termini dialettali. Senza contare che in ogni caso non li traduci tutti. Eliminerei direttamente le traduzioni, il testo è comprensibile anche senza.

L'ultimo punto riguarda la scena con Mister John.
In primo luogo, per un paio di volte viene chiamato "Mister Jhon", immagino sia un refuso.
Infine, la lingua usata da Mister John nel discorso diretto pare forzata. Immagino che tu abbia voluto rendere una forma di "italiano scorretto" parlato con accento americano, ma non mi è sembrato particolarmente riuscito... mi è parso soltanto italiano scorretto, tant'è che dapprincipio avevo pensato che non avessi revisionato quella parte.

Concludo qui.
Trovo che sia un bel racconto, e che sia ben narrato. A parte gli elementi che ho segnalato, credo tu abbia fatto un buon lavoro.
A rileggerti. :)

Re: Baciamo le mani

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Mid ha scritto: Concludo qui.
Trovo che sia un bel racconto, e che sia ben narrato. A parte gli elementi che ho segnalato, credo tu abbia fatto un buon lavoro.
A rileggerti. :)
Ti ringrazio per il passaggio e l'utilissimo commento, concordo sul fatto di eliminare le traduzioni, sono davvero superflue. 

Mid ha scritto: In ritardo, ma commento anch'io.

Bel racconto, non c'è che dire.
C'è tutto l'arco della discesa negli inferi della criminalità senza menzionare o mostrare un singolo "crimine" in tutto il testo. Impresa non indifferente. Ci sono soprusi e furberie, ma non è la stessa cosa.

Innanzitutto, una richiesta di chiarimento: quant'era la paga di un muratore degli anni '60-'70 a New York? Mi pare di aver capito che la storia è ambientata in quel periodo.
Chiedo perché la trattenuta di dieci dollari di Mister John mi è sembrata eccessiva. Devo essere sincero, è stata una reazione viscerale, non giustificata da una ricerca. E la reazione è dovuta al fatto che, se non ricordo male, un fumetto negli anni '60 costava circa 15-20 cents.
Quindi dieci dollari equivalevano a 50-65 numeri. Se facessimo un paragone con i prezzi odierni (in cui un fumetto Marvel costa $5), saremmo a $250-$300 di trattenuta settimanale. E mi è sembrato uno sproposito.
Ovviamente so che questo genere di conti non funziona in maniera così lineare. Inoltre Mister John potrebbe essere un vero e proprio sfruttatore. Ma mi era venuta la curiosità di sapere se quei "dieci dollari" fossero frutto di una ricerca o fossero una somma messa lì a scopo puramente narrativo.

Inoltre, alcuni appunti.
Dal punto di vista tipografico, non mi piace molto vedere caporali e trattini mescolati nello stesso discorso diretto: Forse potrebbero funzionare se l'uso fosse coerente all'interno del testo, ma non è così:

Per quanto riguarda i trattini all'interno della frase, non ho capito bene. Sono una regola molto in uso, ma capisco la questione del gusto personale. Per quanto riguarda la cifra dei dieci dollari ti dico subito che la ricerca l'ho fatta ma senza trovare una risposta adeguata. Ho individuato la paga attuale di un operaio edile che è di 46.313 dollari all'anno (nulla sugli anni 60'). Ho diviso questa cifra per 52 settimane ottenendo il risultato di 890 e dispari dollari a settimana, mi sono quindi attenuta orientativamente a un decimo di questa cifra e cioè 89 dollari. Lo so è un calcolo molto approssimativo e fatto alla carlona, ma ho pensato che anche a ridurlo di un ulteriore 50% sarebbero rimasti 45 dollari, a quel punto, per "punizione" trattenere dieci dollari mi è sembrata una tesi sostenibile. Ripeto è stato un calcolo molto approssimativo, basato sulla retibuzione attuale. E se qualcuno potesse darmi una mano ad azzeccare la cifra esatta avrebbe tutta la mia gratitudine. 

Grazie infinite per l'apprezzamento :rosa:

Re: Baciamo le mani

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Per trattini e caporali, la "norma" più adottata è:
  • solo trattini:
    - Ciao -, disse John, - come va?
  • solo caporali:
    «Ciao», disse John, «come va?»
Talvolta si possono vedere trattini all'interno dei caporali, ma dovrebbero essere incisi del discorso, non un passaggio dal discorso diretto all'indiretto. In altre parole, questo solitamente non viene usato:
    «Ciao - disse John, - come va?»
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