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Traccia 1 "L'attesa"
Ogni tanto presentarsi in classe senza grembiule era tollerato. Allora Roberto ne approfittava per andare a scuola con la maglia della Roma. La sua aveva il numero 6 disegnato sulla schiena. “Aldair”. Roberto, prima di tirare, così gridava: “Aldair”, a ogni ricreazione, a ogni tocco di palla. Avrebbe desiderato di poter segnare anche lui tutti i giorni, come i compagni. Di spingere il pezzo di pietra usato come sfera oltre i pali delineati dalla pianta di ficus e dall’ingresso del corridoio delle lezioni serie. Ma Aldair era un difensore. Quando i genitori gli avevano preso la maglia non ci avevano ragionato troppo su. Aldair, come lui, i gol, li faceva di rado. No. Gol non ne faceva quasi mai. Una volta, senza il grembiule indosso e con la maglia della Roma, tirò una ciabattattata alla pietra che, schizzando sul muro di cinta della scuola, poi quasi finendo in strada tra le macchine, fu deviata in rete da un ramo. Momento di gloria, ma molto fugace. Il giorno dopo non aveva cambiato status, gli altri bambini lo riconoscevano per quello che era ed era stato. Incominciò allora. Se la mattina, a ricreazione, non poteva certo disertare le partite, poteva farlo il pomeriggio. Si disinteressava delle cose dei suoi coetanei e andava alla marina. Lasciava perdere. Ci rinunciava. Sì, insomma, se quella cosa di voler far gol e non riuscire a farlo gli procurava solo dispiacere, che giocava a fare? Alla marina, a fissare il mare per ore, la prima volta ci finì per caso. Era sceso di casa per andare in cortile, come al solito, e come al solito non gli andava. Aveva visto Mario, quello forte della 4a D, e gli altri, e si era allontanato come per istinto. Alla marina, che era lì a pochi passi, ci era arrivato senza esserselo prefissato. Non c’era nessuno a giocare, lì, perché era dicembre. E il mare non ha niente da dare, in inverno, o almeno così aveva sempre pensato. Si era seduto e si era messo a osservare il volo dei gabbiani. Si adagiavano in stallo contro lo sfondo rosa del cielo che si andava già imbrunando. Animali di acqua e di aria, galleggiavano nel vento. Di tanto in tanto, sul mare che andava colorandosi alla stessa maniera del cielo, fino a confondervisi, la scia di una nave ridisegnava i confini. Si era fatto buio. Poco prima i gabbiani erano planati tutti insieme sulla sabbia, intimorendolo. Era tornato a casa. Il giorno dopo, la scuola, i compiti, e non più i giochi, ma il mare. E così per giorni e per giorni ancora, per tutti gli anni a venire. Così come aveva rinunciato alle partite di calcio, rinunciò ai primi baci. Gli altri si facevano la fidanzata, si vantavano di aver baciato, qualcuno addirittura di aver toccato. A lui non poteva riuscire, per lo stesso motivo per cui, alle elementari, indossava la maglia di Aldair e non riusciva a segnare. Rinunciava. Usciva con il mare. Certo, anche il suo sangue aveva preso a bollire, anche lui, di notte, sotto le coperte, si dava piacere con voluttà feroce. Anche lui si era invaghito della ragazza bionda della 2a F. Ma il mare non lo tradiva, stava lì, e, per quanto rimanesse sempre uguale a se stesso, ogni giorno cambiava vestito. Quando le nuvole erano basse, il cielo diventava un caleidoscopio che dall’arancione virava all’oro, fino a raggiungere il verde, allo zenit, e all’orizzonte il ciclamino. Sua madre si preoccupava. Non sapeva dove andasse, i pomeriggi, ma sapeva che non aveva amici. Non poteva immaginare, e Roberto lo trovava beffardo: era lei che lo aveva fatto battezzare e portato a messa, era lei che aveva voluto che facesse la comunione. Lui, ormai era grande e lo aveva capito, andava a mare a parlare con Dio. Avrebbe dovuto esserne contenta. Era un Dio molto più autentico di quello delle prediche e molto meno incartapecorito. Non rimproverava, non comandava, non giudicava. Stava lì, sotto forma di enormità, a ricordargli quanto piccole fossero le cose a cui rinunciava, e quanta pace ci fosse al riparo delle sue carezze di raggi di sole, in quel solco lontano tra mare e cielo dove, era certo, un giorno Roberto si sarebbe coricato, come in una culla, avrebbe chiuso gli occhi e avrebbe dormito beato. Era il Dio dei gabbiani, che parlano con linguaggi la cui sintassi non è logica, ma emotiva, come la musica. I suoi angeli. Era il Dio che sempre sta, sempre rimane, che si mostra in molte forme e non è mai della medesima materia, ma sempre della medesima sostanza. Queste cose, così sofisticate, Roberto prese a pensarle più tardi, al liceo, e a raffinarle all’Università, ai corsi di filosofia. Nel frattempo Aldair aveva ovviamente smesso di giocare, lui aveva smesso di tifare per la Roma, erano cadute le Torri Gemelle, era cambiata la moneta, l’America aveva fatto due o tre guerre in giro per il Medio Oriente, era cambiato il papa, c’era stato l’avvento di internet, degli smartphone, dei social network. Alcuni dei sui ex compagni di classe avevano addirittura messo al mondo dei figli, altri erano rimasti bruciati dalle droghe sintetiche e dimoravano in residenze psichiatriche, altri ancora erano morti, ma i più conducevano vite ordinarie, studiavano, avevano relazioni, viaggiavano, facevano esperienze di studio all’estero, uscivano a ballare o a bere il weekend. Qualcuno suonava in una band e qualche altro aveva dato spettacoli teatrali. Solo la vita di Roberto era priva di eventi. Lui seguiva il corso dei suoi studi e osservava il mare, in colloquio con Dio. E basta. La realtà la preferiva ferma. E per molti anni visse nell’illusione di possedere il suo mondo fermo, e di averne il controllo. Conosceva gli anfratti deserti anche d’estate, dove andarsi a rifugiare quando la marina era invasa dalla gente. Si può mai controllare Dio? Era in uno dei suoi eremi affacciati sul mare, a contemplare le onde che si rompono sui sassi, ostinate, come cani rabbiosi alla catena che non riescono ad avanzare. Si lisciava la barba malfatta. Bianca. Da ormai vent’anni viveva in parte della pensione della madre, in parte di traduzioni dal francese di saggi senza più diritto d’autore. Alla morte della madre ne avrebbe ereditato la casa. Non gli mancava nulla, dunque. Le mattine e le sere per tradurre, il pomeriggio per lo spirito. Amanda gli toccò la spalla, da dietro. Non l’aveva sentita arrivare. Rimettere in discussione l’ordine delle proprie priorità a cinquantasei anni - tanti ne aveva - era una violenza. Roberto si rigirò nel letto diverse notti. La donna lo aveva scorto a osservare il mare mentre si inerpicava per il costone che sovrasta la marina. Lì non ci va mai nessuno. Ma lei era una tipa in gamba, si era fatta largo tra gli arbusti spinosi della macchia e davvero non avrebbe mai pensato di incontrare qualcuno. E invece si era imbattuta in Roberto. Non si era tanto stupita dall’incontro, quanto del vederlo in animo meditativo per minuti e minuti. Se non fosse intervenuta, magari per ore. Aveva voluto parlargli, chiedergli cosa vedesse. Che i suoi occhi vedessero qualcosa al di là del reale le sembrava evidente. Parlarono. A Roberto non succedeva da decenni. Lui le mostrò i diversi quadranti del cielo e del mare, le fece notare le differenze di colore, le spiegò dove era più frequente che le nuvole si andassero ad addensare. Stava a spiegarle quel mare, proprio quel mare che era solo il suo. Le notti di Roberto, in quel periodo, furono furibonde. Armanda era tornata a trovarlo, a volte a scovarlo. Avevano condiviso il mare. E adesso il mare si sentiva tradito. Non era più Dio, era un qualcosa da mostrare ad Amanda. Amanda aveva un modo tutto suo di parlargli, le sue labbra erano capaci di carezzare, i suoi occhi di strapparlo dal mare. Roberto ne aveva paura. «Non tornare mai più», le disse un giorno. Avevano fatto l’amore sullo sfondo del cielo dorato, nel profumo dell’acqua marina e nel canto delle cicale. Andava avanti così da un po’, e ad Amanda sembrava star bene. Ma Roberto si rigirava nel letto di notte. Lui voleva le cose ferme: il mare lo è, Amanda non avrebbe mai potuto esserlo, non altrettanto. Sua madre era morta, lo spettro di Amanda ormai lontano. Roberto meditava presso la marina. Più guardava le nuvole avvicinarsi, più si convinceva che gli avrebbero recato un messaggio. La fedeltà a quello spazio ultraterreno, dove il mare tocca il cielo, uno spazio che si vede ma non esiste, era stata l’intera cifra della sua vita. Pensò ad Amanda, dopo tanti anni, e pensò che bene aveva fatto ad abbandonarla. Il mare odorava di buono. “Sta venendo a prendermi”, pensò Roberto. Era stanco, non desiderava altro che coricarsi in quello spazio che delimita l’orizzonte per chiudere gli occhi. Un’ombra avanzava dalle nuvole. Roberto pensò fosse l’angelo della morte, che veniva a raccoglierlo. Guardò i gabbiani, per l’ultima volta. Guardò il letto del mare e il soffitto del cielo, sarebbero stati la sua casa per sempre. L’ombra si avvicinava. Roberto aprì il suo cuore a Dio. L’ombra lo raggiunse, lo sorvolò e l’oltrepassò. Non era l’angelo della morte. Era un enorme gonfiabile del pagliaccio della McDonald’s, che viaggiava verso la città e verso i desideri che Roberto non aveva mai voluto far propri.