[LMI172] Non avere paura

1
Terza traccia: La scoperta

 
Anni Settanta.
Capelli lunghi e unti, pantaloni a zampa di elefante. Ero al terzo anno di liceo artistico. Quel giorno ci sarebbe stata un’altra manifestazione contro i soliti tagli di fondi alla scuola. Non me ne importava niente.
Ero riuscito a recuperare alcune materie e a farmi promuovere per un pelo alla terza, ma se il nuovo anno iniziava già con assenze la vedevo in salita la questione.
Avevo problemi a socializzare, meglio poi non parlare di ragazze, arrossivo al solo pensarci. 
Ogni mattina era un calvario uscire di casa; avrei preferito rimanere a letto, al sicuro, ma non era immaginabile sopportare lo sguardo dei miei genitori, di mio padre in particolare, che intuivo aveva dubbi nei miei confronti.
Quanto odiavo viaggiare in quel tram pieno di studenti! Non riuscivo mai a trovare un posto a sedere; mi sistemavo dietro il sedile dell’autista per sentirmi protetto dalle frecciate degli altri ragazzi.  Pregavo sempre che si occupassero di fare gli scemi con le ragazze per tutto il tragitto e che mi lasciassero perdere, ma non sempre era così. A volte, per dimostrare che erano tipi in gamba facevano a gara a chi era più spiritoso e originale a tormentarmi, giusto per far vedere che erano dei duri. Per loro era molto divertente. Mi ostinavo a fingere di ignorarli, ma le lacrime che trattenevo a forza mi facevano male.
Arrivato al capolinea scendevo dal pullman correndo come un ladro, infilandomi sotto i portici del centro sempre a testa china, cercando di evitare gli angoli più affollati. Mi allarmavo se qualche adulto mi guardava con troppa insistenza; capitava anche quello, e provavo una strana inquietudine. Desideravo che qualcuno si accorgesse di me, ma allo stesso tempo ne ero impaurito, disgustato.
In classe stavo all’ultimo banco e non parlavo mai; fingevo di essere interessato alle lezioni prendendo appunti, in realtà aspettando in preda al panico che suonasse la campanella della ricreazione di metà mattinata, l’intervallo lungo durante il quale la classe era lasciata in balia di sè stessa: alcuni professori uscivano nel bar di fronte a fare colazione e altri non si sapeva dov’erano.
Quella maledetta mattina c’erano più ragazzi del solito davanti al vecchio portone della scuola, un’inconsueta agitazione, una frizzante aria di festa, tutti ridevano e scherzavano, molti cartelli improvvisati con scritte in rosso, in rima, disegni grotteschi, caricature.
― Ma sei matto? Oggi manifestazione generale! ―  Mi disse uno di quarta spintonandomi mentre cercavo di insinuarmi come un verme attraverso il portone semiaperto. Alcuni mi guardarono malevoli, sospettosi. Mi affrettai a sorridere annuendo frettolosamente e portando la mano in testa come a dire: ― Ma si! Che sbadato!
Rimasi in un angolo, reggendo l'album da disegno davanti a me come uno scudo, un’ostentazione di appartenere comunque al gruppo, per quanto non mi importasse assolutamente nulla della protesta. E nemmeno di loro.
― Dobbiamo andare tutti! E’ essenziale far sentire la nostra voce! Contro le manovre del governo! Contro i padroni! Contro…Contro… Contro…  urlava un ragazzo barbuto dentro un altoparlante.
Molti erano equipaggiati come guerrieri mediorientali, con bandane e kefiah, sciarpe, passamontagna, barbe di primo pelo incolte.
Mi stringevo nel mio giubbotto sentendo la camicia fresca di bucato che mi premeva sul collo facendomi sudare.
Guardavo cercando i miei compagni di classe, quei pochi che riuscivo a vedere in mezzo al gruppo non erano dei più benevoli nei miei confronti, mi passava la voglia di avvicinarmi a loro. Uno però avrei voluto vederlo, potevo confessarlo a me stesso: Ignazio.
Solo a pensarci diventavo rosso, allora non ero consapevole.
Il cuore mi batteva a mille, mi mancava l’aria e mi guardavo intorno preoccupato che qualcuno potesse accorgersi di questa mia condizione, ma nessuno badava a me.
Che dire di Ignazio. Non ero suo amico, non parlava con me. Era il più bravo della classe in tutte le materie, capelli lunghi e neri, occhi scuri, un sorriso fantastico che ti incantava. Lo ammiravo, era sempre circondato da ragazze, la cosa mi faceva star male, non meritava “quelle”, che vedevo dimenarsi inscenando balli propiziatori al corteo che stava per iniziare, ridendo, cantando, strillando. Ma Ignazio non aveva una ragazza. Anche lui rideva di me, questo mi feriva, ma era pensieroso quando lo faceva, me ne accorgevo, lo intuivo. Desideravo che provasse qualcosa per me, anche compassione. Non mi importava che questo non fosse dignitoso, lo preferivo; almeno mostrava di considerarmi. Ero così solo.
In più di una occasione mi aveva difeso quando gli scherzi diventavano troppo insistenti e pesanti.
Interveniva autorevole, deciso; con poche parole secche e gesti irrevocabili che non ammettevano repliche, allontanava i compagni da me e tutti gli obbedivano. Era un capo.
Ancora oggi mi pento di non avere mai avuto il coraggio di ringraziarlo; o meglio, forse lo feci, ma a che prezzo!
Dopo che mi “salvava” abbassavo la testa e arrossivo, le lacrime trattenute, i singhiozzi che mi bruciavano la gola. Mi vergognavo di essere una nullità davanti a lui.
Il cuore accelerava i battiti quando si avvicinava troppo o mi guardava fisso. Aspettavo con il fiato sospeso, speravo mi dicesse qualcosa, una parola sola per me sarebbe stata come un balsamo per la mia anima miserabile, ma si limitava a guardarmi come perplesso e poi tornava alle sue occupazioni.
Non sapevo spiegarmi perché volevo che mi parlasse, che si dedicasse a me o forse lo sapevo e non volevo ammetterlo a me stesso. Avevo paura.

― Vai a darti una lavata ―, mi disse un giorno all’ora di ricreazione, dopo aver fatto cessare uno stupido lancio di polvere di gesso contro di me. Avevo cercato di difendermi in maniera puerile, rompendo per rabbia una riga che avevo comperato da poco. Ero andato a lavarmi felice di mischiare le lacrime con l’acqua, piangere liberamente. Me lo ero trovato di fronte nei corridoi delle aule che fumava una sigaretta sotto una copia in gesso del David.
― Fatti vedere ― mi aveva detto con la sigaretta penzolante sulle labbra. Mi ero avvicinato, a testa bassa. Mi aveva preso il mento con pollice e indice, sollevandomi il viso e girandomi la testa in entrambi i lati, come una mamma esamina il suo bambino prima che esca di casa. Il contatto con la sua pelle… 
Dopo aver esaminato il viso, con uno sguardo che sembrava trafiggermi mi aveva detto: ― Torniamo in classe. Anzi no. Tu dopo di me.
Si era tolto la sigaretta di bocca strizzandomi un occhio e mettendomela fra le labbra con un movimento repentino e delicato allo stesso tempo, guardandomi con quegli occhi scuri, indefinibili, diventati all’improvviso pensierosi. Se ne era andato con le mani in tasca. Avevo fumato un paio di volte in vita mia. Di quella sigaretta sentii soltanto l’umido delle sue labbra nel filtro. L’equivalente del paradiso per me.
― Forza! Andiamo!
I ragazzi si preparavano a iniziare il corteo incolonnandosi lungo la strada.
Mi lasciai trascinare, desideravo vedere Ignazio.
O di cosa avevo veramente bisogno? Di cosa? Maledetta vita, ma perché era così difficile vivere?
Il corteo dilagò come un fiume nelle stradine del centro storico per convergere verso la via principale con ragazzi di altri istituti e da lì si diresse davanti al Palazzo del Governo. Scoppiò una babilonia di suoni, tamburi, sirene, fischietti, annunci e cori scanditi ai megafoni. 
Camminavo ai margini, prendendo in considerazione l’idea di defilarmi e andarmene. Vidi Ignazio, poco più avanti di me in un gruppetto dove stavano i capi della protesta. Mi sentii invadere dall’ euforia, come fossi ubriaco, e mi avvicinai scandendo slogan di cui non capivo niente.
Nell’attuare questa pietosa recita cercavo di avvicinarmi, riuscendo a piazzarmi dietro Ignazio. Indossava una kefiah a quadri rossi e bianchi intorno al collo e urlava slogan al megafono che gli altri ripetevano a squarciagola. Li ripetevo anche io, provavo l’illusione di far parte di qualcosa, volevo si sapesse che ero dalla parte di Ignazio, lo volevo. Fino a quel momento il corteo era andato avanti pacifico, il traffico era stato deviato, qualche vigile camminava ai lati, la folla guardava dai portici.
Le cose cambiarono quando si trattò di imboccare la centralissima strada che conduceva al Palazzo del Governo.
A vigili si frammischiarono poliziotti e carabinieri che aumentavano via via che ci si avvicinava al Palazzo. Gli slogan, che prima erano contro i tagli ai fondi della scuola, adesso venivano scanditi contro i poliziotti, che guardavano impassibili.
Il Palazzo del Governo si ergeva sull’acropoli della città, davanti a una piazza solitamente affollata. Le bandiere di cui era pavesato sventolavano pigre e indifferenti mentre ci avvicinavamo. Davanti c’era una barricata nera e argento di carabinieri con elmetto e scudo.
― Non siete autorizzati! Disperdetevi! ― Echeggiò una voce metallica proveniente da un punto indefinito, che coprì quelle dei nostri altoparlanti a batteria.
Il corteo si fermò. Vedevo i capi che discutevano sul da farsi guardandosi intorno, mentre gli altri studenti dal centro e dalla fine del corteo continuavano ad avanzare. Ben presto fummo stretti gli uni sugli altri. Alcuni urlarono, il mio parziale entusiasmo di prima si era affievolito.
Attraverso vari spintonamenti riuscii ad avvicinarmi al cordone dei capi arrivando di nuovo alle spalle di Ignazio. 
― Questo no! ― lo sentivo rispondere a uno più grande di lui, del quinto anno, vestito come un pezzente colorato e barbuto, che agitava le braccia come un invasato;  comparvero nelle sue mani dei candelotti che distribuì tutt’intorno, gesticolando,  spiegando qualcosa di vitale.
Capii che si trattava di fumogeni quando vidi il fumo emergere da diversi punti del corteo. Da altri punti si formarono colonne di fumo bianco, che presto invasero la zona circostante e la piazza.
― No! No! Tornate indietro! ― Urlava la voce metallica di prima. Ma non servì a nulla quest’ordine. Il corteo si slargò sulla piazza e cominciò ad avanzare verso il Palazzo, attraversando il fumo, urlando, riprendendo gli slogan con aggiunta di insulti ai carabinieri e poliziotti.
Vidi ragazzi correre in tutte le direzioni, urtarsi, cadere e rialzarsi.
Botti seguiti da colonne di fumo attraversavano l’aria intorno a me. Si correva nella nebbia, tossendo e lacrimando. Suoni di sirene dappertutto. Grida di ragazze, con tonalità laceranti peggio delle sirene. Colpi sordi, fischietti, metallo che batteva sul selciato. Io, tossendo e lacrimando cercavo a questo punto di scappare.
Sentii colpi secchi, isolati, provenire da un punto.
― Sparano! Quei bastardi sparano!
Non avevo mai sentito sparare se non al cinema e non avrei saputo dire se sparavano. Eppure sparavano.
Adesso i ragazzi urlavano di terrore. Rumori di vetrine infrante, botti, qualcosa che si fracassava, lamiere di auto, serrande.
Non vedevo niente se non a sprazzi: uno studente, pensavo lo fosse, il viso avvolto in una kefiah a scacchi bianchi e neri, una pistola in mano a gambe larghe sparava davanti alla nebbia, senza vedere dove andavano i colpi, calmo come se fosse in gita. Capii che le cose si mettevano male. Mi allontanai, le ginocchia diventate di gomma, la lingua sapeva di ferro. Paura. Ma era una paura diversa da quella che avevo sempre provato prima. Per la prima volta in vita mia questa nuova sensazione quasi mi faceva piacere. Mi teneva occupato, sentivo di essere vivo. E alla vita mi attaccavo, come un animale.
Mentre mi allontanavo incespicando su cartelli e sciarpe, annaspando con le mani per scostare il fumo, tossendo e lacrimando, vidi su degli spiazzi semiliberi dal fumo gruppi di carabinieri che avanzavano in fila verso degli studenti che lanciavano contro di loro qualsiasi oggetto capitasse a tiro.
Mi ero dimenticato dello studente con la pistola. Lo avevo perso di vista, non mi sarebbe piaciuto se fosse stato dietro di me.
Altri colpi d’arma da fuoco, poi dei suoni più ovattati, rumori metallici e nuovo fumo. Urla.
Cercavo di correre di lato, volevo attraversare la piazza e trovarmi ai suoi margini, dove mi sarei potuto rifugiare sotto i portici dei palazzi. Mi sentivo troppo scoperto. Cercavo di andare dove il fumo si diradava, non sapevo se era tatticamente giusto, non sapevo niente.
Infine inciampai e caddi su qualcosa che stava a terra.
Sbattei dolorosamente un gomito, feci per rialzarmi, quando vidi su che cosa avevo inciampato: qualcuno che stava disteso a terra, avvolto da una kefiah rossa e bianca. Molti le indossavano, ma l’istinto e il sangue che si ghiacciò nelle mie vene mi fecero capire che apparteneva a lui.
Lo guardai in viso: era Ignazio. Aveva gli occhi chiusi, i lunghi capelli scomposti, le braccia spalancate.
Lo scossi chiamandolo: mosse le labbra, aprì gli occhi. Avevano come un velo, ma mi riconobbe. Sorrise con sofferenza.
―Tu… ― riuscì a dirmi.
― Cos’hai Ignazio? Cos’hai? ― gli chiesi.
― Non lo so… ho tanto freddo… aiutami…
― Sì, sì. Dimmi cos’hai.
Mise lentamente le mani sul petto, spostando la kefiah che lo copriva.
Lo aiutai a toglierla, le mie mani si macchiarono di rosso.
― Ignazio… Cosa ti hanno fatto? 
― Qui… ― disse indicando il petto, sopra il cuore.
Il sangue usciva gorgogliando a tratti attraverso la maglietta che indossava.
― No! No! Non è possibile! Quanto mi dispiace… quanto… Aiuto! Aiuto! Qui! Qui! Aiuto!
Non sapevo cosa fare mentre gridavo, ero preso dal panico, le mani insanguinate, cercavo di tenergli sollevata la testa perché respirava a fatica.
― No ― mi disse scuotendo la testa.
― Non ce la faccio ― continuò con un soffio, un sorriso triste, avvinghiato ora alle mie mani.
― Ce la fai, ce la fai… Aiutatemi!
Ignazio sorrise sofferente, scuotendo piano la testa.
― No. No. Ora… Fammi un piacere… Per favore… ― allungò una mano verso le mie labbra. Rimanevo in silenzio, le lacrime mi inondavano la faccia, mi guardavo intorno, ma non vedevo nessuno, nessuno, solo fumo. Solo io e lui.
― Non avere paura…― continuava a dirmi. Lui diceva a me di non avere paura.
― Ora puoi farlo... so che lo volevi. Anche io… anche io, tanto. Lo sai?
Rimase in silenzio guardandomi, sorridendo ancora, ma sentivo che era sempre più debole. Mi guardava con quegli occhi che per un attimo si erano nuovamente accesi.
Capii allora cosa voleva prima di andarsene. Cosa volevamo tutti e due, da sempre.
Esitai, avevo paura, ma sentivo che la presa delle sue mani sulle mie si stava allentando, ancora un po’ e  sarebbe stato troppo tardi.
Con le lacrime che mi scendevano inarrestabili mi chinai sul suo viso e misi le mie labbra sulle sue.
Sentii il suo fiato, il suo tepore caldo e dolce di sangue e di paura che ci aveva sbattuti in quella maledetta piazza, in quel maledetto mondo. Ora, soltanto ora ci accorgemmo che eravamo diventati noi stessi.
Soltanto ora. Maledetto mondo.
Rimasi a lungo con le mie labbra sulle sue, forse svenni.
Qualcuno mi toccava. Sollevai lentamente la testa, emergendo come da un sogno, mentre il viso di Ignazio reclinava dolcemente da una parte, con un sorriso sereno.
Una mano con guanti neri si appoggiò sui suoi occhi chiudendoli delicatamente. Era un carabiniere inginocchiato vicino a noi. Sollevai lo sguardo e ne vidi intorno almeno una dozzina, alcuni con lo scudo appoggiato ai piedi, altri che avevano sollevato la protezione dell’elmetto davanti agli occhi. Qualcuno aveva in mano la pistola, ma rivolta a terra. Si guardavano intorno e guardavano me in silenzio. 
Mi aiutarono ad alzarmi, io non staccavo gli occhi da Ignazio.
Gli coprirono la faccia con la sua kefiah.
― Vieni ragazzo. Vieni con noi adesso. Non avere paura ― mi disse il carabiniere mettendomi una mano sulla spalla.
Io presi la sua mano e la staccai gentilmente, accennando un lieve sorriso e scuotendo la testa.
Ignazio mi aveva detto di non avere più paura. Il mondo era cambiato per me. Ora sapevo chi ero.
Non l'ho mai dimenticato, non l'ho mai tradito.
Si salveranno solo coloro che resisteranno e disobbediranno a oltranza, il resto perirà.
(Apocalisse di S. Giovanni)

Re: [LMI172] Non avere paura

3
Alberto Tosciri ha scritto: Ma Ignazio non aveva una ragazza. Anche lui rideva di me, questo mi feriva, ma era pensieroso quando lo faceva, me ne accorgevo, lo intuivo. Desideravo che provasse qualcosa per me, anche compassione. Non mi importava che questo non fosse dignitoso, lo preferivo; almeno mostrava di considerarmi. Ero così solo.
Ben esposta la fragilità del protagonista, che non trova, intorno a lui, sensibilità introspettive analoghe.
Alberto Tosciri ha scritto: In più di una occasione mi aveva difeso quando gli scherzi diventavano troppo insistenti e pesanti.
Interveniva autorevole, deciso; con poche parole secche e gesti irrevocabili che non ammettevano repliche, allontanava i compagni da me e tutti gli obbedivano. Era un capo.
Ancora oggi mi pento di non avere mai avuto il coraggio di ringraziarlo; o meglio, forse lo feci, ma a che prezzo!
Dopo che mi “salvava” abbassavo la testa e arrossivo, le lacrime trattenute, i singhiozzi che mi bruciavano la gola. Mi vergognavo di essere una nullità davanti a lui.
Quanto più è grande il debito di riconoscenza, meno si riesce ad esprimerlo: parimenti, ci si sottovaluta, ci si auto-denigra.
Alberto Tosciri ha scritto: Capii allora cosa voleva prima di andarsene. Cosa volevamo tutti e due, da sempre.
Esitai, avevo paura, ma sentivo che la presa delle sue mani sulle mie si stava allentando, ancora un po’ e  sarebbe stato troppo tardi.
Con le lacrime che mi scendevano inarrestabili mi chinai sul suo viso e misi le mie labbra sulle sue.
Sentii il suo fiato, il suo tepore caldo e dolce di sangue e di paura che ci aveva sbattuti in quella maledetta piazza, in quel maledetto mondo. Ora, soltanto ora ci accorgemmo che eravamo diventati noi stessi.
Soltanto ora. Maledetto mondo.
Il tuo protagonista scopre di amare, e ricambiato,  quel ragazzo nel momento in cui lui sta per morire.
Alberto Tosciri ha scritto:
Mi aiutarono ad alzarmi, io non staccavo gli occhi da Ignazio.
Gli coprirono la faccia con la sua kefiah.
― Vieni ragazzo. Vieni con noi adesso. Non avere paura ― mi disse il carabiniere mettendomi una mano sulla spalla.
Io presi la sua mano e la staccai gentilmente, accennando un lieve sorriso e scuotendo la testa.
Ignazio mi aveva detto di non avere più paura. Il mondo era cambiato per me. Ora sapevo chi ero.
Non l'ho mai dimenticato, non l'ho mai tradito.
Un racconto profondo e ben impostato, "girato" nel '68, presumo, con le ribellioni studentesche all'ordine costituito.
La fragilità dei giovani che trovava sfogo nell'angariare i deboli e inveire a prescindere, e in massa, e armati (qualcuno). contro qualunque potere superiore.
Con le dovute eccezioni, come l'Ignazio del racconto. Bravo, @Alberto Tosciri   (y)
Ti segnalo solo la mia perplessità sulla facilità con cui fai smarcare il protagonista dai carabinieri. Penso che loro volessero interrogarlo per fare luce, possibilmente, sul tragico fatto di sangue, in qualità di testimone. Non credo se ne possa essere liberato, in quel frangente.  
Di sabbia e catrame è la vita:
o scorre o si lega alle dita.


Poeta con te - Tre spunti di versi

Re: [LMI172] Non avere paura

4
Grazie per il tuo prezioso commento@Poeta Zaza 
L'ambientazione è propria quella che hai detto: fine anni Sessanta, inizio anni Settanta.
In quanto al fatto che il protagonista si smarchi dalle forze dell'ordine, in effetti sposta gentilmente la mano del carabiniere poggiata sulla sua spalla, in quanto non desidera quel contatto umano, ma non si può escludere, come hai detto giustamente, che poi lo abbiano portato in caserma, perlomeno come testimone, dopo aver avvisato i genitori in quanto minorenne. Ma sarebbe stata un'altra storia, peraltro interessante. Avevo già scritto oltre 21000 caratteri e ho dovuto tagliarne 5000.
Si salveranno solo coloro che resisteranno e disobbediranno a oltranza, il resto perirà.
(Apocalisse di S. Giovanni)

Re: [LMI172] Non avere paura

5
@Alberto Tosciri ciao. Ti trovo impegnato su un fronte delicato. Mai avrei pensato che ci avresti provato a scrivere qualcosa sulla terza traccia.

Questo racconto ha molte similitudini con la storia di Maurizio Azzolini. Il famoso liceale che venne immortalato a viso coperto con la pistola in pugno e puntata verso le forze dell'ordine.  Una foto che divenne storica e rappresentante degli anni di piombo. Si dice che lui non sparò, anche se l'agente Antonio Custra, morì a causa di un proiettile di 7,65  al volto. Ho notato quindi una attinenza al mondo delle forze dell'ordine, cosa che tanto ami rappresentare,  anche se nel tuo racconto, è un liceale che muore per una pallottola vagante. Direi che hai trovato spunto per questa storia di omosessualità latente, espressa senza contrasti e drammaticità. Sì! le giornate a scuola sono problematiche per il protagonista, ma ancora non si è scontrato con il mondo contrario e con una moralità senza possibilità di dialogo. Ti sei fermato ai primi problemi per uno diversamente orientato, senza entrare sul tema. D'altronde la traccia richiedeva solo di raccontare quando si sarebbe percepita la consapevolezza di essere diversi. Quindi, tutto okay. Ciao e a si biri.
Tratti di pioggia sopra Auschwitz. Tra oblio e orgoglio

Re: [LMI172] Non avere paura

6
 Ciao @bestseller2020 e grazie del commento.
bestseller2020 ha scritto: Ti trovo impegnato su un fronte delicato. Mai avrei pensato che ci avresti provato a scrivere qualcosa sulla terza traccia.
Non immagini quante cose avrei da dire...

Avevo in mente quella foto che hai citato, stessa musica ma cambiando personaggi e storia.
Questo tipo di omosessualità latente, direi platonica ad ogni modo, mi ha sempre particolarmente colpito fin dalla lettura, tanti anni fa, di “Les amitiés particuliéres” di Roger Peyrefitte, ambientato in un rigido collegio cattolico, nonché dal mirabile e struggente film che Delannoy realizzò nel 1964, con attori ancora bambini e poco più che adolescenti davvero bravi. 
Se conosci il libro o hai visto il film capirai perché mi sono fermato a un certo punto senza andare oltre, avrei rovinato tutto.
Nel mio intento volevo rappresentare una sorta di dramma nascosto, una lenta dolorosa consapevolezza unita a una tragica inconfessabile gioia nel rendersi conto della propria vera natura.
Si salveranno solo coloro che resisteranno e disobbediranno a oltranza, il resto perirà.
(Apocalisse di S. Giovanni)
Rispondi

Torna a “Racconti lunghi”