[Lab 3] Lei
Inviato: sab lug 16, 2022 1:01 pm
Titolo: Lei
Tema del Labocontest 3: "Show, don't tell"
Fa leva sui gomiti, riesce a sollevarsi, struscia un poco, e crolla. Di nuovo: riprende fiato, strizza le meningi, suda, si spinge, riparte, gli manca poco e potrà spazzolarsela. Ecco, la intravede, è bellissima; ora esce la lingua, quasi ce la fa. E invece niente, sente i muscoli liquefarsi e frana, ancora: la faccia sui mattoni come budino sformato.
Se dovesse morire, stecchito su quel pavimento, senza neppure essere riuscito a farsela tutta, di lui penseranno che è un coglione. Allora si tasta a casaccio, ansima, infila una mano nella tasca del jeans, trova il telefono, quasi non respira, lo estrae. E se non fosse per quella colla che gli sta paralizzando il cervello, e per quella vista abbagliata da filamenti elettrici, se non fosse che lei se ne sta a pochi centimetri da lui, sparpagliata, invitante, avrebbe già composto il numero d’emergenza. Sì ma anche volendo, non stanno fermi, cazzo! Numeri distorti che si muovono come vespe impazzite. Fa per afferrarli, maledetti tasti; sono alati, e puntuti. Zzz, zzz… la mano sull’orecchio: la agita, si schiaffeggia, si contorce in una danza scomposta dimenando braccia e gambe che paiono elettrificate dal terrore. Scosse, fremiti, una pressione sul petto. L’adrenalina se lo sta cuocendo a dovere, gli ha già afferrato il cuore e lo sta avviluppando nella morsa della morte.
«Ahó! E dai, tirati su, nun fà ‘r matto…» Mirco lo afferra per un braccio ma lui, di colpo, si fa resistente.
«Lassame, nun me toccà.»
«La fai finita? Arzate, dai!»
«Lassame, t’ho detto che nun me devi toccà!»
Resistente più che può, a costo di morire a causa di velenosi tasti numerici, perché lei è ancora lì, la vede splendere sui mattoni e pure tra le fughe. Spilli, tutti sulle guance che s’infiammano. Sotto la pelle c’è la vita, la sente formicolare come scossa insopportabile e allora resta a terra: la faccia sul pavimento, la bocca asciutta di un’arsura disumana. Esce la lingua che pare un cane assetato, se la passa sulle labbra e un rivolo di saliva gli cola sul mento. La struscia sui mattoni come fosse aspirapolvere impazzito, fino a tirarsi l’ultimo granello scintillante. La porosità della superficie si confonde con la polvere, ma a lui non frega niente, né della lordura, né dello sdegno.
È fatta. Respira, ora. Un vigore tiepido scuote il corpo dal basso e finalmente si alza, lento. C’è vita sotto la pelle, c’è tutta la potenza di cui necessita per accordarsi con il mondo. Uno sguardo fulmineo sugli amici, il suono nitido delle loro voci. Nel raggio di pochi centimetri, riesce a cogliere ogni attimo che gli scorre davanti: la patta semi aperta di Mirco, la disposizione delle carte sul tavolo: le prime sei, coperte, le sue, sparpagliate, le altre… vincenti, pensa subito.
«Sei contento, mo’ c’hai fatto ‘sta cazzata?» gli chiedono.
Ma lui non risponde, si è accorto dello specchio appeso storto all’ingresso e va per raddrizzarlo. Si ammira, stira un sorriso, ma la faccia si accartoccia all’istante. Vede punture: rosse, pruriginose. Si gratta. Prima una guancia, poi l’altra, e ora la fronte, le tempie, tutto si gratta, persino il collo. Rifiata. Un’ultima occhiata dubbiosa e si allunga verso l’angolo cottura, e l’andatura, passo dopo passo, si fa mogia che sembra la spina dorsale stia franando su se stessa. Lei era poca, ancora troppo poca. Punta il frigorifero, lo fissa.
«Stava là, porco zio!» esclama. Quella puttana di una scimmia se ne stava appollaiata sul frigo e rideva di lui, prima; se n’era accorto mentre giaceva per terra e ora vuole spezzarle il collo, brutta bertuccia del cazzo, ma non la vede più. Gli amici sono intenti a finire la mano di poker e non gli rispondono, «Ahó! V’ho detto che ‘sta cazzo de scimmia stava là» ma loro niente, sembra non vedano l’ora di squagliarsela. «Annatevene affanculo, stava là, stava!».
Una scossa gli raddrizza la postura; un fuoco ardente che parte dal basso, dove prima avvertiva il solletico di un mansueto vigore, e arriva sparato ai capelli, che li sente fumare, ribellarsi a quella flemma nostalgica che già gli stava pizzicando cuore e anima, da dentro, come un veleno inesorabile che l’avrebbe inchiodato al pianto. Si muove lesto e prende a setacciare il perimetro della stanza. Il fiato accelerato, il cervello sfatto, la saliva azzerata, i battiti; uno, tre, sette… È tutto straordinariamente potente adesso, i muscoli sono ferro, la colonna vertebrale è marmo e il fiato si infrange come onda violenta sul petto; nove, undici… sballano, saltano, quei battiti li sente in gola come cavalli imbizzarriti. Si ferma, rifiata. Scola sudore, scola pure il naso e l’asciuga come può, strusciandosi un lembo di camicia già fradicia sulla faccia. Aguzza lo sguardo e corre di nuovo verso l’angolo cottura,
«Do’ stai, maledetta!» si abbranca al frigorifero e lo scuote «Eh? Do’ cazzo stai, puttana!»
«La pianti?» sbotta Mirco, che si alza dal tavolo e gli si avvicina.
«Nun me toccà che t’ammazzo…»
Gli occhi slargati, vitrei. Shh! Fate silenzio, ché potrebbero ascoltare tutto. Tutto ascoltano, ci sono spie ovunque, stanno pure dietro la finestra.
Si stacca dal frigo, si muove circospetto, si spiaccica sui vetri. Fuori è nero pesto, nemmeno un filo di luce che riesca a rassicurarlo. Niente potrebbe rassicurarlo quando sta così. Gli amici lo sanno e portano pazienza, ché è una di quelle sere, stasera, cominciata in relax e finita male, malissimo. Ha esagerato, come suo solito, e ha mandato tutto in vacca per meno di mezzo grammo finito accidentalmente per terra. Mirco si rimette seduto. Danilo sta spizzicando fra gli avanzi nei piatti accatastati in cucina. Come un gatto indiavolato, con un balzo si allontana dalla finestra e se ne resta impalato nel mezzo della stanza per qualche istante, poi, con la stessa repentinità, fa per avventarsi sul vassoio a specchio, scintillante anche quello.
«Eh no!» fa Mirco, che non ha pace ed è costretto ad alzarsi di nuovo, «Basta! Mo’ ti metti seduto e la fai finita da rompe ‘r cazzo, per favore!» lo bracca dalla vita e riesce a scaraventarlo sul divano come un sacco di patate.
«State annà via?» chiede agli amici, che lo osservano inerme e nemmeno gli rispondono. Con una punta di rabbia, si tirano la porta d’ingresso dietro le spalle.
Silenzio. Uno, due, tre… Ora i battiti si sono sgonfiati. Si preme le mani sul corpo, che al tatto è floscio anch’esso, sta evaporando in un bagno di sudore. La gola. Il canale del respiro è un pozzo corroso dal sole, abbandonato dalla vita. Muove la lingua in cerca di refrigerio. Il palato è escoriato dall’alcool e dalle notti ingoiate male. Silenzio, e buio. Il divano su cui è ancora spalmato si è sformato della sua mollezza. Muove lo sguardo: intorno a lui è tutto nero.
Dopo non resta niente. Se la sono pippata tutta e ora non gli resta niente. Nella gola, nel respiro, persino nelle ossa: involucri vuoti in cui rimbomba l’abbandono, uno sconforto straziante. Dopo è così, dopo si sente tradito, lasciato, trafitto soltanto dal silenzio. Shh! Forse le spie sono tornate e vogliono portarselo via, in galera, a marcire in quella cella un’altra volta. Zzz, zzz: nelle orecchie, ancora. E nella testa, nel buio.
Spinge un poco il corpo e riesce a mettersi in piedi. Vuole arrivare alla meta ma esegue una traiettoria sbilenca che lo manda alla deriva. Trascina i piedi in mezzo al buio scontrandosi con una sedia mal riposta, un pezzo di pane rimasto per terra, lo spigolo infame di un mobile. Attraversa l’aria ciondolando: un odore acido impregnato di fumo. Scorie di una serata cominciata bene e finita male; di questo è fatta la sua aria. Respira, lento, ammaccato di una malinconia insopportabile. Lei era poca, troppo poca per sentire la vita riempirgli il corpo «Annassero affanculo.»
Ecco, all’ultimo è riuscito a virare e approda sull’anta a molla del pensile, in cucina. Gli basta una leggera pressione e quella si apre. Va a tentoni, agita le mani, ravana. Dal mobile cascano due, tre cianfrusaglie, «Ma porc…» non gliene frega un cazzo, vuole solo la dama e lei si fa trovare facile.
L’attimo. Quello prima gli provoca il brivido giusto. Quattro, cinque, sette… il cuore si prepara al galoppo, tutto il corpo tende al desiderio. Per afferrare la pallina di Domopak, si allunga più che può e i pizzi della camicia strusciano contro la pila dei piatti sporchi nel lavello, «annassero affanculo, annassero!» e fanculo anche ai piatti incrostati, all’olezzo di una serata finita male, alle spie che lo osservano, alla scimmia che ride, cattura la dama e vuole solo preparare il corpo al brivido.
Il naso cola; lo asciuga con quel che ha e si precipita sul tavolo. L’attimo. La stende sul vassoio. Sente i nervi pizzicargli l’anima, la lingua viva, le narici allargarsi, e la divide, veloce… tà tà tà tà tà, che già solo la frenesia di quel picchiettare lo eccita a dismisura, lo affanna, è sudato, voglioso. La pista è bellissima, purissima. Ecco e allora giù, con la testa affondata nella felicità, e poi su, ché il bruciore risale presto la corrente e gli esplode in mezzo agli occhi. Stelle. Tutto un meraviglioso cielo elettrico, il soffitto. Undici tredici quindici… e andasse al diavolo pure il cuore, è la sua felicità, sono le sue cazzo di stelle quelle, è l’istante in cui ogni fibra depressa migra in energia. La vita, l’attimo che scuote quel che resta. E ora la musica. Un repentino giro di do, su cui danzano connessioni cerebrali.
«Ecco do' stavi… Scenni! Maledetta puttana, scenni, t’ho detto!»
Shh! Adesso fate solo silenzio.
Tema del Labocontest 3: "Show, don't tell"
Fa leva sui gomiti, riesce a sollevarsi, struscia un poco, e crolla. Di nuovo: riprende fiato, strizza le meningi, suda, si spinge, riparte, gli manca poco e potrà spazzolarsela. Ecco, la intravede, è bellissima; ora esce la lingua, quasi ce la fa. E invece niente, sente i muscoli liquefarsi e frana, ancora: la faccia sui mattoni come budino sformato.
Se dovesse morire, stecchito su quel pavimento, senza neppure essere riuscito a farsela tutta, di lui penseranno che è un coglione. Allora si tasta a casaccio, ansima, infila una mano nella tasca del jeans, trova il telefono, quasi non respira, lo estrae. E se non fosse per quella colla che gli sta paralizzando il cervello, e per quella vista abbagliata da filamenti elettrici, se non fosse che lei se ne sta a pochi centimetri da lui, sparpagliata, invitante, avrebbe già composto il numero d’emergenza. Sì ma anche volendo, non stanno fermi, cazzo! Numeri distorti che si muovono come vespe impazzite. Fa per afferrarli, maledetti tasti; sono alati, e puntuti. Zzz, zzz… la mano sull’orecchio: la agita, si schiaffeggia, si contorce in una danza scomposta dimenando braccia e gambe che paiono elettrificate dal terrore. Scosse, fremiti, una pressione sul petto. L’adrenalina se lo sta cuocendo a dovere, gli ha già afferrato il cuore e lo sta avviluppando nella morsa della morte.
«Ahó! E dai, tirati su, nun fà ‘r matto…» Mirco lo afferra per un braccio ma lui, di colpo, si fa resistente.
«Lassame, nun me toccà.»
«La fai finita? Arzate, dai!»
«Lassame, t’ho detto che nun me devi toccà!»
Resistente più che può, a costo di morire a causa di velenosi tasti numerici, perché lei è ancora lì, la vede splendere sui mattoni e pure tra le fughe. Spilli, tutti sulle guance che s’infiammano. Sotto la pelle c’è la vita, la sente formicolare come scossa insopportabile e allora resta a terra: la faccia sul pavimento, la bocca asciutta di un’arsura disumana. Esce la lingua che pare un cane assetato, se la passa sulle labbra e un rivolo di saliva gli cola sul mento. La struscia sui mattoni come fosse aspirapolvere impazzito, fino a tirarsi l’ultimo granello scintillante. La porosità della superficie si confonde con la polvere, ma a lui non frega niente, né della lordura, né dello sdegno.
È fatta. Respira, ora. Un vigore tiepido scuote il corpo dal basso e finalmente si alza, lento. C’è vita sotto la pelle, c’è tutta la potenza di cui necessita per accordarsi con il mondo. Uno sguardo fulmineo sugli amici, il suono nitido delle loro voci. Nel raggio di pochi centimetri, riesce a cogliere ogni attimo che gli scorre davanti: la patta semi aperta di Mirco, la disposizione delle carte sul tavolo: le prime sei, coperte, le sue, sparpagliate, le altre… vincenti, pensa subito.
«Sei contento, mo’ c’hai fatto ‘sta cazzata?» gli chiedono.
Ma lui non risponde, si è accorto dello specchio appeso storto all’ingresso e va per raddrizzarlo. Si ammira, stira un sorriso, ma la faccia si accartoccia all’istante. Vede punture: rosse, pruriginose. Si gratta. Prima una guancia, poi l’altra, e ora la fronte, le tempie, tutto si gratta, persino il collo. Rifiata. Un’ultima occhiata dubbiosa e si allunga verso l’angolo cottura, e l’andatura, passo dopo passo, si fa mogia che sembra la spina dorsale stia franando su se stessa. Lei era poca, ancora troppo poca. Punta il frigorifero, lo fissa.
«Stava là, porco zio!» esclama. Quella puttana di una scimmia se ne stava appollaiata sul frigo e rideva di lui, prima; se n’era accorto mentre giaceva per terra e ora vuole spezzarle il collo, brutta bertuccia del cazzo, ma non la vede più. Gli amici sono intenti a finire la mano di poker e non gli rispondono, «Ahó! V’ho detto che ‘sta cazzo de scimmia stava là» ma loro niente, sembra non vedano l’ora di squagliarsela. «Annatevene affanculo, stava là, stava!».
Una scossa gli raddrizza la postura; un fuoco ardente che parte dal basso, dove prima avvertiva il solletico di un mansueto vigore, e arriva sparato ai capelli, che li sente fumare, ribellarsi a quella flemma nostalgica che già gli stava pizzicando cuore e anima, da dentro, come un veleno inesorabile che l’avrebbe inchiodato al pianto. Si muove lesto e prende a setacciare il perimetro della stanza. Il fiato accelerato, il cervello sfatto, la saliva azzerata, i battiti; uno, tre, sette… È tutto straordinariamente potente adesso, i muscoli sono ferro, la colonna vertebrale è marmo e il fiato si infrange come onda violenta sul petto; nove, undici… sballano, saltano, quei battiti li sente in gola come cavalli imbizzarriti. Si ferma, rifiata. Scola sudore, scola pure il naso e l’asciuga come può, strusciandosi un lembo di camicia già fradicia sulla faccia. Aguzza lo sguardo e corre di nuovo verso l’angolo cottura,
«Do’ stai, maledetta!» si abbranca al frigorifero e lo scuote «Eh? Do’ cazzo stai, puttana!»
«La pianti?» sbotta Mirco, che si alza dal tavolo e gli si avvicina.
«Nun me toccà che t’ammazzo…»
Gli occhi slargati, vitrei. Shh! Fate silenzio, ché potrebbero ascoltare tutto. Tutto ascoltano, ci sono spie ovunque, stanno pure dietro la finestra.
Si stacca dal frigo, si muove circospetto, si spiaccica sui vetri. Fuori è nero pesto, nemmeno un filo di luce che riesca a rassicurarlo. Niente potrebbe rassicurarlo quando sta così. Gli amici lo sanno e portano pazienza, ché è una di quelle sere, stasera, cominciata in relax e finita male, malissimo. Ha esagerato, come suo solito, e ha mandato tutto in vacca per meno di mezzo grammo finito accidentalmente per terra. Mirco si rimette seduto. Danilo sta spizzicando fra gli avanzi nei piatti accatastati in cucina. Come un gatto indiavolato, con un balzo si allontana dalla finestra e se ne resta impalato nel mezzo della stanza per qualche istante, poi, con la stessa repentinità, fa per avventarsi sul vassoio a specchio, scintillante anche quello.
«Eh no!» fa Mirco, che non ha pace ed è costretto ad alzarsi di nuovo, «Basta! Mo’ ti metti seduto e la fai finita da rompe ‘r cazzo, per favore!» lo bracca dalla vita e riesce a scaraventarlo sul divano come un sacco di patate.
«State annà via?» chiede agli amici, che lo osservano inerme e nemmeno gli rispondono. Con una punta di rabbia, si tirano la porta d’ingresso dietro le spalle.
Silenzio. Uno, due, tre… Ora i battiti si sono sgonfiati. Si preme le mani sul corpo, che al tatto è floscio anch’esso, sta evaporando in un bagno di sudore. La gola. Il canale del respiro è un pozzo corroso dal sole, abbandonato dalla vita. Muove la lingua in cerca di refrigerio. Il palato è escoriato dall’alcool e dalle notti ingoiate male. Silenzio, e buio. Il divano su cui è ancora spalmato si è sformato della sua mollezza. Muove lo sguardo: intorno a lui è tutto nero.
Dopo non resta niente. Se la sono pippata tutta e ora non gli resta niente. Nella gola, nel respiro, persino nelle ossa: involucri vuoti in cui rimbomba l’abbandono, uno sconforto straziante. Dopo è così, dopo si sente tradito, lasciato, trafitto soltanto dal silenzio. Shh! Forse le spie sono tornate e vogliono portarselo via, in galera, a marcire in quella cella un’altra volta. Zzz, zzz: nelle orecchie, ancora. E nella testa, nel buio.
Spinge un poco il corpo e riesce a mettersi in piedi. Vuole arrivare alla meta ma esegue una traiettoria sbilenca che lo manda alla deriva. Trascina i piedi in mezzo al buio scontrandosi con una sedia mal riposta, un pezzo di pane rimasto per terra, lo spigolo infame di un mobile. Attraversa l’aria ciondolando: un odore acido impregnato di fumo. Scorie di una serata cominciata bene e finita male; di questo è fatta la sua aria. Respira, lento, ammaccato di una malinconia insopportabile. Lei era poca, troppo poca per sentire la vita riempirgli il corpo «Annassero affanculo.»
Ecco, all’ultimo è riuscito a virare e approda sull’anta a molla del pensile, in cucina. Gli basta una leggera pressione e quella si apre. Va a tentoni, agita le mani, ravana. Dal mobile cascano due, tre cianfrusaglie, «Ma porc…» non gliene frega un cazzo, vuole solo la dama e lei si fa trovare facile.
L’attimo. Quello prima gli provoca il brivido giusto. Quattro, cinque, sette… il cuore si prepara al galoppo, tutto il corpo tende al desiderio. Per afferrare la pallina di Domopak, si allunga più che può e i pizzi della camicia strusciano contro la pila dei piatti sporchi nel lavello, «annassero affanculo, annassero!» e fanculo anche ai piatti incrostati, all’olezzo di una serata finita male, alle spie che lo osservano, alla scimmia che ride, cattura la dama e vuole solo preparare il corpo al brivido.
Il naso cola; lo asciuga con quel che ha e si precipita sul tavolo. L’attimo. La stende sul vassoio. Sente i nervi pizzicargli l’anima, la lingua viva, le narici allargarsi, e la divide, veloce… tà tà tà tà tà, che già solo la frenesia di quel picchiettare lo eccita a dismisura, lo affanna, è sudato, voglioso. La pista è bellissima, purissima. Ecco e allora giù, con la testa affondata nella felicità, e poi su, ché il bruciore risale presto la corrente e gli esplode in mezzo agli occhi. Stelle. Tutto un meraviglioso cielo elettrico, il soffitto. Undici tredici quindici… e andasse al diavolo pure il cuore, è la sua felicità, sono le sue cazzo di stelle quelle, è l’istante in cui ogni fibra depressa migra in energia. La vita, l’attimo che scuote quel che resta. E ora la musica. Un repentino giro di do, su cui danzano connessioni cerebrali.
«Ecco do' stavi… Scenni! Maledetta puttana, scenni, t’ho detto!»
Shh! Adesso fate solo silenzio.