Vorrei proprio incontrarlo quel genio del male. Dovrebbe spiegarmi come mai, proprio oggi, tutto sembri esattamente come dovrebbe essere. Nell’ordine stabilito delle cose. Assolutamente normale. Il bambino ha lasciato il posto al vecchio e la malinconia si è infiltrata a tradimento nei pensieri e non vuole abbandonarmi. I sogni? Svaniti. Dovrei rifugiarmi nel giardino, sdraiarmi per terra, prendere in mano il pennello, intriderlo di colore e chiudermi nel mio mondo. Forse così riuscirei a mettere a posto le cose.
Se solo non avessi accettato questo maledetto appuntamento. Mi hanno detto che è per un motivo molto importante, una questione di interesse nazionale. Niente meno. E io non ho saputo dire di no. Mi sono troppo ammorbidito. Dovrei disdire, comunicare che non mi sento bene, trovare una scusa qualsiasi per rimandare. Si vede che sono proprio diventato vecchio. Del resto, ho quasi novanta anni suonati, inutile negarlo.
Quando ero giovane nessuno si sarebbe mai sognato di venirmi a cercare. Anzi, ero considerato un soggetto da evitare. Miró il contestatore, il nemico del regime, il surrealista, il visionario. Un imbrattatele allucinato convinto di essere un pittore.
Eh… ma le cose cambiano. Ora che il regime è caduto e il mostro non fa più paura, si può anche fare una dichiarazione d’amore a Miró e andarlo a cercare con tante riverenze. Intellettuali del cazzo, gente marcia.
Quel manichino in doppiopetto è puntuale. Mi chiama maestro e fa tutta una sequela interminabile di cerimonie per dirmi quanto la mia arte sia apprezzata in tutto il mondo e quanto la Spagna sia orgogliosa di me. Quel coglione pensa di lisciarmi le piume, non sa quanto certi stupidi convenevoli mi facciano irritare.
Gli chiedo di andare subito al punto e spiegarmi il motivo dell’incontro.
«Sarebbe davvero un grande onore per il nostro Paese se lei disegnasse la locandina ufficiale dei mondiali di calcio» risponde senza farsi pregare oltre.
La risposta mi coglie di sorpresa. Non mi aspettavo proprio questo genere di richiesta. Poi, prosegue: «Naturalmente, il suo compenso sarà adeguato». Questa precisazione, al contrario, la temevo.
Miró e il calcio. Un matrimonio singolare.
Arte e denaro. Una combinazione infernale.
Mentre cerca in ogni modo di vincere la mia riluttanza, noto che mi fissa le mani: mi piace spremere il tubetto e sentire la consistenza cremosa del colore. Spesso pitturo con le dita e non esiste solvente in grado di smacchiarle a dovere.
«Maestro, allora, possiamo contare su di lei?»
Per tutta la vita, cazzo per tutta la vita, dico io, ho combattuto contro chi considera l’arte solo un mezzo per fare denaro. Non so come io possa resistere alla tentazione di rispondergli per le rime. Non potrei mai creare a comando, per soldi, poi.
Sono proprio diventato un vecchio rimbambito. Mi riesce perfino di abbozzare un sorriso mentre gli indico la strada per uscire.
Gli farò sapere.
Certo, se avessi immaginato quello che aveva da dirmi, l’avrei lasciato fuori dalla porta.
Adesso devo andare in camera, sedermi sulla vecchia sedia a dondolo. Mi serve per guardare le cose da un’altra prospettiva.
La cantilena del giunco è simile al cullare materno. Una nenia che mi rassicura e infonde la calma necessaria. Non sono mai stato un tipo impulsivo, ho sempre ponderato le scelte e, soprattutto, rifiutato qualsiasi imposizione.
Pilar è rimasta ad attendere in giardino. Mi piace osservarla dalla finestra. Vestita di bianco, sotto le palme da dattero, sembra una piccola stella che riluce. I passi lenti, la testa china sul libro di poesie. Se non accettassi questo lavoro, sono certo che lei capirebbe. Ha sempre rispettato le mie idee e fatto il possibile per lasciarmi lavorare tranquillo; non credo che avrei mai potuto desiderare una compagna migliore.
Deve essersi accorta che la sto guardando e mi fa cenno di raggiungerla.
Il vento di mare agita le piante di salvia e rosmarino. Respiro a fondo.
Che calma... Barcellona è diventata troppo caotica; non riuscirei più a neppure a pensare con tutto quel frastuono.
Godo di questa quiete carica di profumi.
Il silenzio contiene infinite melodie. È una sorta di musica muta di cui riesco a visualizzare le note. Le immagino adagiarsi con eleganza sulla tela e prendere vita.
Infinito e immobilità mi attirano come un vortice.
Un sasso, nella sua apparente fissità, racchiude infiniti movimenti. Potrei rappresentarli come scintille, scie che volano fuori dalla cornice o come lapilli che schizzano da un vulcano.
È più forte di me. Quando cammino nel giardino non posso evitare di soffermarmi. C’è sempre qualcosa che attira la mia attenzione. Può essere una foglia, un tronco d’albero, un fiore, un insetto. I giochi di luce che filtrano dai rami.
Un raggio che rimbalza sullo specchio d’acqua mi sembra una linea dritta che attraversa la tela verde e illumina di rosa acceso un grappolo di bouganville. Questo giardino è una parte fondamentale della casa. Non potrei mai mettermi a lavorare in un luogo qualsiasi. Intorno a me devo avere degli oggetti che facciano scoccare la scintilla.
Le cose che ho raccolto in giro, il muro di cinta con le sue pietre tozze e irregolari: tutto mi suggerisce idee, mi dà la carica.
Adagiata alla palizzata c’è una ruota di legno che apparteneva a un mulino per l’olio. Quando chiesi al vecchio Arnau se fosse disposto a vendermela, mi guardò stranito. Non capiva cosa avrei potuto farmene di quel pezzo di legno fradicio. Non poteva immaginare quanto mi affascinassero le sue cavità e tutte quelle linee che sembravano tagliare il cerchio in tante figure geometriche diverse. Quanto fossero preziosi per me quei piccoli chiodi, le imperfezioni, la ruvidità del legno marcito.
Come il vecchio aratro che ho scovato nella cascina di Bartolomeu. Trovo che abbia una forma sensuale, mi ricorda le fattezze di una donna. Quando glielo dissi, vidi traballare l’unico dente che gli era rimasto in bocca, non aveva mai riso così tanto.
Mi diede una pacca sulla spalla e mi offrì un bicchiere di rosso. Dopo aver bevuto, aveva gli occhi lucidi e brillanti. Due mezze lune che, di tanto in tanto, riaffiorano nei miei dipinti.
La vera fortuna è che in questa isola tutti hanno dei tesori da offrire: oggetti di arte popolare pura e commovente.
Quando inizio un lavoro è come se ricevessi una scarica o un insetto mi pungesse sul naso. Sono totalmente in balìa di una sorta di allucinazione. È una lotta tra me e la tela, tra me e l’angoscia. Devo continuare a lavorare finché l’ansia non si placa. Può succedere che una tela rimanga in lavorazione per anni, una volta che ho esaurito il primo impulso e va bene così.
Il mio laboratorio è come un grande giardino. Mi capita di lavorare a molte opere contemporaneamente: ce ne sono a decine che attendono il loro momento appoggiate alle pareti.
Sono come un giardiniere che deve prendersi cura delle proprie piante. Dopo averle seminate devo annaffiarle, innestarle, concimarle e poi lasciare che le immagini maturino nella mente. Senza alcuna fretta. A volte aggiungo un dettaglio e quel particolare mi scatena nuove sensazioni e nuove idee. È tutto in divenire fino a quando ogni segno è al proprio posto e coincide con la mia visione.
Camminare in questo giardino è come compiere un viaggio. Vado a rilento, assaporo ogni momento.
Pilar mi viene vicino e io le offro il braccio. Pare che sia io a sostenerla, ma la realtà non è quella che sembra. È lei il mio equilibrio.
Le chiedo di seguirmi in camera. Resterei per ore in silenzio sdraiato sul letto a comunicare senza bisogno di troppe parole. Ma devo tirare fuori il rospo se voglio stare meglio.
Nella parete di lato al letto è appeso un brandello di tela bruciacchiata.
«Pilar, ricordi quando ho dato fuoco alle tele?»
«Certo» mi risponde senza esitazione.
«Mi avevano offerto un milione di dollari per quei dipinti.»
«Lo so» un attimo di pausa e poi riprende: «Ti sei pentito?»
Neppure lei può credere a ciò che ha appena detto.
Quel giorno, mentre le fiamme divoravano le mie opere, ho provato una gioia incontenibile. Io le ho liberate. Rese immortali.
Meglio ucciderla, l’arte, che darla in pasto a certi sfruttatori.
Pilar mi stringe la mano. Sento che è il momento giusto di liberare la mente dal tarlo che si è conficcato dentro e non mi dà pace.
«Mi hanno offerto molto denaro, Pilar. Tanti soldi per un nuovo lavoro.»
«Non vorrai dare fuoco a tutto l’atelier per questo. Se non ti va di farlo, basta che tu non accetti.»
Lei è sempre stata dalla mia parte. Solida.
«Stai già lavorando molto. Non sei stanco?» Materna.
Qui, nell’intimità della nostra stanza, non ho mai avuto vergogna di mostrarmi nudo, a mostrare la fragilità. Forse lo ha visto anche lei, il vecchio.
L’abbraccio forte.
Adesso so cosa rispondere.
«Sono lusingato che abbiate pensato a me per un’opera così popolare. Dare fiducia a un vecchio sognatore è un atto di coraggio e ne sono davvero commosso, ma... non credo di essere l’artista che fa al caso vostro.»
Sono già pronto ad alzarmi per congedare il mio ospite, ma la sua reazione non è affatto quella che mi aspettavo.
«Maestro, ci aiuti a comunicare al mondo una nuova immagine del nostro Paese. Ci faccia sognare.»
Il manichino non poteva scegliere argomento migliore per farmi cambiare idea.
Alla fine decido di accettare, ma solo a una condizione: sarà un dono di Joan Miró alla Spagna.
Adesso devo solo lasciare andare le mani dove vogliono, far fluire i pensieri e trasferire i segni sulla carta. Incidere il rame e spalmarlo di vernice.
Il sole, il calore del popolo spagnolo, la rinascita dopo l’oppressione.
Comincia la parte migliore: il bambino sorride, affonda il pennello nel colore e si abbandona al sogno. Forse non sono ancora così vecchio.