Traccia n° 3.
Giorgio, dopo aver firmato la ricevuta al postino lesse il nome del mittente nella raccomandata e l’indirizzo, un albergo di un paese vicino. Cominciò lievemente a barcollare, dovette aggrapparsi al cancello. Il postino se ne era andato senza accorgersi di niente. Silvia, la sua dirimpettaia e coetanea che in quel momento stava ritirando il bidone vuoto dell’umido attraversò preoccupata la strada.
—Stai male Giorgio?
—No, no. Il cuore… balla un po’.
—Ti dico sempre di andare a un controllo…
—No, no. Poi mi mandano in ospedale, poi mi ammazzano.
—Ma piantala!
—Va bene, va bene. Ora è passato. Torno dentro.
—Se ti senti male chiamami che ci penso io.
Giorgio non dubitava che ci avrebbe pensato lei. La vedova allegra avrebbe chiamato l’ambulanza e lui sarebbe sparito per sempre. Umanità da perdere in scala gerarchica: dal primo all’ultimo.
Giorgio entrò in casa, sprofondò nella sua vecchia poltrona, mise gli occhiali e aprì la busta. Mano a mano che leggeva gli occhi si inumidivano. Finì di leggere, posò la lettera.
“Quindi sei ancora vivo Luca. Siamo stessa classe, andiamo a ottanta ormai. E sono passati cinquanta e più… e mi scrivi. Ho sempre saputo che era colpa tua, che qualcosa avevi fatto per tutto quello che è successo… E adesso mi dici che ti dispiace?
Due lacrime scesero sulle guance.
“Me lo dici adesso, dopo che ho vissuto infelice, sono stato disprezzato da tutti, dopo che mi hai rovinato la vita? Nessuno ricorda più ormai, ma tu che diritto avevi… E la tua vita com’è andata? Spero come la mia.
Sentiva un groppo alla gola, il cuore ballava, la lingua aveva assunto un sapore metallico.
“Mi hai ucciso una volta e adesso mi mandi il colpo di grazia, mi chiedi di perdonarti… Perdonarti…
Giorgio chiuse gli occhi. Quella storia non lo aveva mai abbandonato in tutti quegli anni, nemmeno per un giorno. Ritornò indietro nel tempo con la memoria.
Una splendida giornata di sole d’autunno in un piazzale bagnato di pioggia, una grande caserma di soldati ai confini orientali della nazione. Lui e Luca erano due giovani sergenti maggiori molto validi, molto affiatati. Vivevano entrambi in caserma; da sergenti avevano diviso la stessa camera, gli stessi amici, le stesse passioni, le stesse ragazze. Amavano i Pooh, una loro canzone in particolare, molto triste, molto bella, intitolata: Come si fa. Scherzando dicevano che era stata scritta per loro, rispecchiando all’inizio la loro vita. Solo all’inizio. Avanzando di grado si erano dovuti separare di stanza in quanto ognuno da regolamento doveva avere una cameretta per conto suo negli alloggi sottufficiali, diradando poco a poco le loro uscite e incontri in comune che divennero non più quotidiani ma sporadici, in servizio e nel tempo libero.
La svolta cominciò quando Luca fu chiamato a lavorare al comando di battaglione, un posto di privilegio, mentre Giorgio continuò a stare nella compagnia, con la truppa. Fino a quando arrivò Lauro, un sergente appena uscito dall’accademia.
In quel momento anche Luca pensava ai tempi della sua giovinezza e della sua vita quasi speculare a quella di Giorgio. Ci aveva sempre pensato da allora fino a oggi. Non era stato facile. Aveva trovato l’indirizzo del suo amico di una volta con l’aiuto di un conoscente che lavorava in polizia, aveva preso il treno, viaggiato per un giorno intero fin quasi al paese di Giorgio, sistemandosi in un alberghetto. Ma aveva paura di rivederlo. Gli aveva scritto una raccomandata, lasciando come recapito l’indirizzo dell’albergo. Non sapeva se desiderava che Giorgio venisse o lasciasse perdere, non sapeva nemmeno lui cosa volere.
Sdraiato nel letto della sua cameretta si mise le mani sul petto, chiuse gli occhi e rivide il passato. Campi di erba a perdita d’occhio dall’odore inebriante intorno alla caserma, i servizi, le adunate, le sofferenze, le gioie, le privazioni, le speranze incomprensibili per chi non era in uniforme.
La musica dei Pooh che scandiva le loro giornate. Come si fa. Come facevamo, com’era possibile, come ho fatto? Cosa ho fatto?
—Hai la patente per le ruspe e i camion ma non potrai guidarli fuori dalla caserma finché non avrai 18 anni…
—Lo so. Aspetterò.
Giorgio ricordava il suo primo incontro con Lauro. Glielo avevano condotto in officina dove lavorava, direttamente dal comando ancora con le valigie in mano. In pratica glielo avevano scaricato.
—Bisognerà trovarti un alloggio. Le stanze sono tutte piene…
—Pazienza. Dormirò con la truppa.
—Nemmeno per sogno. Tu sei un sottufficiale adesso.
—Non sono ancora abituato ai gradi.
Gira e rigira non si era trovato un posto per davvero, Giorgio si era impietosito di quel ragazzino sudato che gli veniva dietro con le valigie e alla fine lo aveva fatto entrare nella sua stanza.
—Farò portare un altro letto e un armadietto. Io ne ho due ma sono strapieni, come vedi. Per adesso starai qui, poi si vedrà.
—Per me va bene sergente maggiore, se va bene per lei.
—Non darmi del lei. Anche se ho dieci anni più di te non penso di essere così vecchio.
Passarono alcuni mesi. Forse erano pochi, ma talvolta possono sembrare una vita. Nel frattempo qualche posto si era liberato nelle stanze dei sergenti, ma Lauro continuava a rimanere in camera con Giorgio.
Un sera che Luca stava giocando a biliardo al circolo vide Giorgio e lo invitò al tavolo ma Giorgio declinò, dicendo che andava a dormire. In effetti da un po’ di tempo le sue apparizioni al circolo si erano diradate, e anche le uscite con gli amici. Luca pensava fosse una cosa naturale, dovuta anche al fatto che per cause di servizio si vedevano di rado durante il giorno.
—Ehh! Come si cambia!— disse Tonino che era comandante della guardia e prima di cena amava fare due tiri al biliardo.
—Ma chi l’avrebbe mai detto, eh?— disse un altro di cui gli sfuggiva il nome.
—Eh che sarà mai?— fece ancora tranquillo Luca mentre passava il gesso alla punta della stecca, accendendosi una sigaretta. Tonino si accese anche lui una sigaretta
—Il fatto è… che è così, a quanto pare.
—Ma che cosa?— fece Luca.
Tonino rise mentre seguiva la stoccata che aveva dato per disfare il triangolo delle palle.
Si avvicinò a Luca —Eravate amici una volta. Perché non gli parli?
—Siamo ancora amici.
—E uscite ancora come ai bei tempi?
—Un po’ meno…
—Andavate di brutto in disco…
—Beh, poi si cambia…
—Eh, si cambia giro. Si cambia musica.
—Abitudini…— disse l’altro con tono misterioso.
—Ma insomma di che cavolo state parlando?— aveva sbottato Luca. E gli altri a ridere.
—E sei l’unico che non sa niente allora!
—Cosa dovrei sapere?
—Basta che guardi. Tu guarda. Guarda bene.
Luca era rimasto un po’ a rimuginare. Si era accorto anche lui che Giorgio era cambiato, ma non ci aveva fatto caso più di tanto. Succedeva, doveva essere successo qualcosa. Ma cosa? Quella notte decise di andare a parlare con il suo amico. Alloggiavano in due ali diverse del piano superiore del circolo sottufficiali, adibite ad alloggi. Bussò alla sua porta, da dove veniva un flebile suono di musica. La porta non si apriva.
—Giorgio sono io! Volevo dirti una cosa…
La porta si aprì appena, a fatica. Giorgio era in mutande e maglietta; nonostante si fosse in pieno inverno i termosifoni erano accesi al massimo e dentro si sudava.
—Che vuoi?
—Parlarti.
—Di cosa?
—Ma insomma, che ti prende? Fammi entrare, non…
Luca aveva spinto la porta ed era entrato. La stanza era avvolta di fumo che profumava d’incenso. Due brandine disfatte in un angolo, unite, e su una c’era Lauro, in mutande e a petto nudo intento a fumare una sigaretta rollata a mano su una cartina. Sollevò appena lo sguardo assente verso Luca ridendo debolmente, riprendendo a fumare.
Luca si era sentito la gola seccare, fino alla bocca dello stomaco..
—Da quando?— aveva chiesto perentorio.
—Fumano tutti— aveva risposto Giorgio alzando le spalle.
—Io no ad esempio. Ma non m’importa del fumo. Da quando…— indicò Lauro.
—Oh! Anche lui! Sai…
—Perché sta in camera con te?
—Non c’era posto…
—Non è vero. Un posto si trova sempre nei sergenti. Qui non può stare! Lo sai bene!
—E chi lo dice che non può stare: tu che lavori al comando? Mi vuoi dare ordini? E dammeli! Provaci!
Luca avrebbe voluto urlare, ma lo distrasse la risatina di Lauro che si accasciava di traverso sul letto con gli occhi stralunati e beati guardando la soffitta. Messo di traverso occupava entrambe le brandine, il suo corpo bianco ed esile sembrava quello di una lucertola al sole.
Luca ricordava di essere uscito senza proferire parola e di non aver dormito per niente quella notte. E neanche le successive. Ora tutto gli era chiaro e si malediceva per non essersene accorto prima.
Cosa fare. Cosa fare. Cosa fare. Perché poi.
Per alcuni lunghi giorni osservò tutti i movimenti di Giorgio e di Lauro. Erano come in simbiosi, dove andava uno seguiva l’altro. Si accompagnavano ovunque, si cercavano con lo sguardo, si sorridevano incuranti degli sguardi degli altri che fingevano di non vederli. Se qualcuno faceva un piacere a Lauro, ad esempio al servizio mensa o al bar quello che ringraziava era Giorgio, come se il piacere fosse stato fatto a lui.
Un pensiero ossessionava Luca. Non riusciva a non pensarci. Un giorno incontrò Lauro da solo al circolo e gli disse che voleva parlargli, invitandolo a venire in camera sua. Lauro lo seguì senza battere ciglio, silenzioso, a testa china. Durante il tragitto Luca fu contento di non incontrare nessun altro. Perché? Se lo chiedeva ancora oggi. Così. Fece sedere Lauro sulla sua branda, mentre lui si appoggiava a uno sgabello. Dopo tanti anni Luca non ricordava più tutte le parole che gli aveva detto, rivedeva solo l’aria umile e dimessa di quel ragazzino, la testa abbassata, gli occhi che lo evitavano, umidi di lacrime, di vergogna. Ma una cosa di se stesso Luca la ricordava, dannazione. Qualcosa di latente in lui cominciava a prendere il sopravvento. Odiava e amava questo qualcosa. Lo temeva anche. Si diceva: Allora doveva succedere così. Ma perché Giorgio può averlo… perché è suo, è suo, è suo… Non mio… Non sarà mai… Perché lui si e io no? Io vado in giro, faccio quello che voglio ma non sono mai stato felice, so che non lo sarò mai, e nemmeno quando si usciva con Giorgio… Loro sono felici. Lo vedo, lo sento, lo respiro. Loro sono felici e io no. Perché io non devo essere felice? Perché?
Forse i suoi pensieri erano trapelati mentre parlava con Lauro. Luca non ricordava o non osava ammetterlo. Forse aveva detto al ragazzo: —Perché vuoi bene a Giorgio e non vuoi bene a me? Perché io no?—
Doveva essere successo qualcosa, perché a un certo punto Lauro si era alzato di scatto ed era corso via piangendo.
Da quel giorno il percorso era stato in discesa. Per tutti. Ogni volta che Giorgio e Luca si incontravano fingevano di non vedersi, Luca lo odiava ma era odio o era invidia? Tutti sapevano, anche i superiori e nessuno interveniva, nessuno. Questa cosa faceva impazzire Luca. Non dormiva più, non mangiava più, sul lavoro si distraeva, stava al comando e faceva disastri in ufficio, era stato ripreso, gli avevano abbassato le note caratteristiche… Non gli importava più nulla.
Un giorno, era d’estate, ricordava che al circolo si doveva dare una piccola festicciola per il diciottesimo compleanno di Lauro. Aveva organizzato tutto Giorgio, naturalmente. Luca se ne stava in disparte. Aveva visto Lauro salire agli alloggi per prendere qualcosa. Uno di quei rari momenti in cui poteva essere solo. Lo aveva seguito fino in camera, irrompendo dentro all’improvviso. Luca ricordava ancora e piangeva. Si era sentito esplodere dentro, era saltato addosso al ragazzo che si divincolava senza urlare e lo aveva baciato violentemente sulla bocca. Aveva sentito il suo gusto amaro, l’odore della paura. Poi, esausto, esaurito, affranto Luca era uscito e si era trascinato nella sua camera.
Un paio di settimane dopo il sergente Lauro era comandante della guardia. La mattina doveva effettuare l’alzabandiera nel piazzale della caserma, con il picchetto e le compagnie del battaglione schierate per il saluto.
Una di quelle giornate meravigliose.
Alzata la bandiera sul pennone i reparti venivano inquadrati per tornare davanti alle compagnie. Fu in quel momento che si sentì lo sparo. I soldati del picchetto armato corsero verso un punto, dove giaceva a terra un’uniforme verde. Il sergente Lauro si era sparato alla testa con la sua pistola che poteva avere, come tutti, solo quando era di servizio.
A seguire ci fu un’inchiesta. Nessuno sapeva niente, nessuno voleva sapere niente e sapevano tutti. A quel punto Luca si mise a rapporto e parlò. Per arcani motivi non successe nulla, non trapelò nulla di ufficiale. Tutti quelli che incontrava sembrano non vederlo. Era diventato invisibile.
Subito dopo Giorgio chiese di congedarsi dall’esercito. Gli fu concesso immediatamente, la domanda era già stata battuta a macchina. Al contempo Luca fu trasferito in un altro reparto lontano. Questa storia fu ben presto dimenticata. Ignorata. Mai esistita. Come tante.
Dopo cinquant’anni Luca, ormai ottantenne, voleva dire a Giorgio che era stato lui a denunciarlo, ma forse lo sapeva già. Più che altro voleva dirgli che era geloso della sua amicizia con Lauro, voleva dirgli che aveva baciato il ragazzo con disperazione, voleva dirgli… voleva sapere se Lauro non aveva retto e si era ucciso per colpa sua o per colpa di entrambi. Doveva saperlo. Voleva dirgli che si era reso conto del male che aveva causato, voleva dirgli che aveva capito… Troppo tardi. Voleva chiedere perdono.
La signora Silvia parlava con il maresciallo dei carabinieri.
—Povero Giorgio! Si era già sentito male altre volte e anche questa mattina, dopo aver ricevuto la lettera…
—Perché non ha chiamato un dottore?
—Lui non voleva i dottori.
—Mi ripeta come lo ha trovato.
—Sentivo i suoi gatti che lo chiamavano alla porta e lui usciva sempre per dargli da mangiare. Ma non usciva. Sono andata a vedere, l’ho chiamato, sono entrata… Poverino era sdraiato sul divano… Poverino!
Dalla lettera si risalì al mittente. Le parole erano particolari, quindi non era male parlare con il mittente, cioè Luca.
I carabinieri andarono al suo albergo, bussarono alla sua porta ma non rispondeva. L’albergatore aprì.
Trovarono Luca nel suo letto, completamente vestito, con le mani incrociate sul petto.
—Due vecchi che si conoscevano morti a poca distanza uno dall’altro. Da quello che ha scritto questo Luca di sicuro si conoscevano. Chissà cosa aveva da farsi perdonare— disse il maresciallo.
—Hanno mandato una email dalla Legione, maresciallo. I nominativi dei deceduti risultano che erano stati entrambi militari di carriera nella stessa sede…
—Entrambi militari… Tempo di pace o tempo di guerra c’è sempre qualcosa da farsi perdonare con quel tipo di vita. Chissà cosa può essere successo, chissà che storia hanno avuto.
—E non ce l’avevano una famiglia?— disse un altro carabiniere.
—Il signor Giorgio no, questo Luca non so ma… Sono convinto nemmeno lui. Non erano uomini da famiglia. La loro famiglia era… Credevano in altro.
—E in cosa?
Il maresciallo diede ancora uno sguardo al corpo di Luca e uscì all’aria aperta. Si accese una sigaretta.
—Chiedeva al suo ex collega di essere perdonato per una vecchia storia. A quei tempi non era come oggi. Forse c’entra la fratellanza…
—Quale fratellanza maresciallo?
—Fratellanza… Ma cosa ne sai tu? Due vecchi morti per causa naturale, ha detto così il dottore no?
—Si.
—E così rimane. Non ci sono indagini da fare.
Mentre il maresciallo risaliva in macchina diede uno sguardo all’albergo dove era morto Luca.
“Si potrebbero anche fare indagini, sarebbero lunghe, molto lunghe andando indietro. A che servirebbero? A loro no. Si saranno parlati, ora. Meglio non sapere. Molto difficile vivere. Molto difficile”.
Stava calando la sera.
p.s.
La canzone cui faccio riferimento, "Come si fa" è dei Pooh. Bellissima.