L'ultima avventura

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Commento a "L'illusionista" di Sarano

La pistola laser non lo tradiva mai, tranne quando lo tradiva. Non senza disappunto, la lanciò sul muso del gorilla, che non fece una piega e si espresse in un ringhio che, per un’altra persona, in quella stessa situazione, sarebbe risultato decisamente minaccioso.
Ma John Baltimore non si faceva intimorire da così poco: altrimenti, non sarebbe arrivato, a cinquant’anni suonati, alle soglie di scoprire la vera Atlantide, che non era affatto un continente sommerso, come pensavano tutti, ma si trovava nel mezzo di una foresta del Centro America.
Decise di mettere a parte della sua scoperta il gorilla. Gli piaceva parlare. Era un professore di storia. 
S’alzò. Scrollò la polvere dai muscolosi bicipiti (a cinquant’anni, si sentiva all’apice della sua forma fisica e mentale) e disse:
«Tutti quanti la confondono con El Dorado. Perché, intendiamoci, è quello che si aspetta di trovare un avventuriero da queste parti. Per questo le fonti sono confuse. Io stesso, che sono uno studioso mica da ridere — insomma, il mio curriculum parla per me — sono riuscito a capire il legame fra l’Atlantide di Platone e questa città soltanto quando ho decifrato quest’antica tavoletta» disse, estraendo il pezzo di pietra dalla tasca e lanciandolo sul prato.
Il gorilla, incuriosito dal manufatto, si chinò, lo prese e cercò di addentarlo, poco prima di essere investito da Eudora col suo sidecar lanciato a tutta velocità.
«Mi chiedevo quanto ci avresti messo» disse John Baltimore, salendo sul posto di fianco. 
«Capo, questo posto non mi piace» disse la non-più-così-giovane Eudora. Andava per la quarantina (intendiamoci, era ancora uno schianto) e ancora non si vedeva traccia della fonte dell’eterna giovinezza che il suo capo le aveva promesso, quando l’aveva ingaggiata una quindicina d’anni prima. All’epoca era solo una timida studentessa, che si aspettava una vita di libri, gatti e divani. John Baltimore aveva fatto di lei una grintosa avventuriera.
«Verso Atlantide» disse il professore, guardando la tavoletta che aveva appena recuperato dalle grinfie del gorilla.
«Non sono convinta la tua interpretazione sia esatta» disse Eudora, sistemandosi gli occhialini e dando un biscottino a Micio-Macho, il suo inseparabile gatto rossiccio.
«Sai che mi piace essere smentito. Comunque, il posto dove ci stiamo dirigendo non è mai stato visitato da altri esseri umani per chissà quanto.»
«Tu dici?» chiese l’assistente di Baltimore, facendo qualcosa che non andrebbe mai fatto nella vita reale: stava guidando il sidecar e guardando lo smartphone.
Baltimore sbuffò. 
«Sai che non mi piacciono quei cosi. Rovinano sempre metà del divertimento.»
«Anche più di metà. Siamo quasi arrivati, e quel che vedrai non ti piacerà, a meno che tu non sia un apprezzatore del churrito tachenho
«Del cosa?»
«Sembra che gli abitanti della tua “Atlantide” lo celebrino ogni anno con grandi abboffate, e che non siamo capitati nel bel mezzo della sagra estiva.»
Dopo un’ultima macchia di alberi la strada si aprì sulla vita di un piccolo centro smaccatamente turistico, dove locali e visitatori facevano foto e mangiavano allo stecco il loro churrito.
John Baltimore, professore, avventuriero, scapolo cinquantenne in splendida forma, si sentì leggermente cedere. Sapeva che i suoi giorni di scopritore di tesori e città sepolti ormai andavano declinando, e sperava tanto di mettere una tacca come Atlantide alla sua cintura. Probabilmente si era ingannato così grossolanamente per l’ansia di riportare una nuova vittoria, di qualcosa da sbattere sul muso dei suoi colleghi che lo prendevano in giro per le sue avventure in stile Indiana Jones che, va detto, molto spesso si risolvevano in sonori fiaschi. Quel che restava della sua reputazione poneva sui ritrovamenti dei resti d’un’antica civiltà pre-sumerica vent’anni prima, e il suo acerrimo rivale ed ex-compagno d’avventure, il pilota di cargo italiano Pinto Bonacci, aveva appena scritto e pubblicato un memoriale di grande successo, con cui s’attribuiva gran parte del merito. Baltimore aveva bisogno di trovare Atlantide.
«Come dici sempre» disse Eudora, servendosi di uno stecco di churrito a uno dei tanti stand della festa «il premio dell’avventura è l’avventura stessa.»
John Baltimore non amava venire inchiodato alle sue stesse parole. Non replicò.
«Niente churrito per te, capo?» chiese l’assistente, dando qualche briciola al gatto.
«No, no» disse Baltimore, lisciando lo stomaco. Invecchiando, diventava sempre più difficile non accumulare grasso. «Che te ne pare dei locali?»
«Allegri. Chiassosi. Come tutti i latini.»
«Qualcosa non mi quadra…» disse lui.
«Sentiamo…» sospirò Eudora. S’era accorta di come Baltimore, invecchiando, tendesse a diventare più paranoico. Ormai stavo con lui più per affetto, che per altro: per accudirlo. 
«Sono tutti tatuati.»
«Come l’intero resto dell’umanità. Anche tu ne hai uno.»
Baltimore s’arrotolò la manichino della maglietta. Guardò quel serpentello verde che addentava la sua stessa coda. Lui e Pinto se lo erano fatti insieme, da giovani, come segno della loro eterna amicizia. Eterna amicizia, già. Ora lui lo tradiva, in cambio di un po’ di gloria.
«La cosa che non mi torna…» disse Baltimore, chiedendosi se in effetti la sua mente fosse ancora acuta come un tempo (la stessa Eudora, col suo atteggiamento sornione, lo portava a dubitare; e lo stesso gatto a volte, gli sembrava, lo guardava con scetticismo) «la cosa che non mi torna è che hanno lo stesso tatuaggio. Un occhio racchiuso in un triangolo. Inoltre, tutti lo hanno sulla nuca.»
«Va di moda. Mistero risolto» disse Eudora, chinandosi per cibare Micio-Macho. «Sicuro di non volerne? È delizioso.»
«Già che siamo qui, andiamo alla piramide.»
«Sei in vena di turismo?»
«Che altro possiamo fare?»
Eudora lo prese a braccetto. Baltimore odiava quando l’assistente faceva così, perché sapeva che stava per partire un discorsetto.
«Sentito Georgiana, di recente?»
«Non è lontana di qui. È in Messico, per gli scavi.»
«In Messico internet prende. E anche qui, a quanto pare.»
«Sai che non mi piacciono quei cosi. Rovinano…»
«La metà del divertimento, lo so. Il Messico non è lontano da qui. Se vuoi posso chiederle se ha del tempo per noi. Sai che siamo buone amiche. Possiamo prendere l’aguaplano e…»
«Voglio vedere la piramide» disse Baltimore, mettendosi in fila col resto dei turisti. Mentre comprava due biglietti (la ragazza al desk, in ottimo inglese, gli disse che avevano un ridotto per gli ultra-sessantenni), si sentì molto umiliato. In altri tempi si sarebbe fatto strada nell’antro di una misteriosa piramide decapitando mummie magiche a suon di machete. Adesso, quello.
«Non è male» disse Eudora, scattando delle foto alle incisioni. «Il sistema museale locale ha fatto un ottimo lavoro nel conservarla.»
«Quelle scritte…» disse Baltimore. «La datazione riportata sulla targhetta non è corretta.»
«Come fai a dirlo, capo?»
«Lo dico perché lo so» disse Baltimore, stanco della supponenza dell’assistente. Sapeva cosa pensavano tutti di lui, che era una celebrità in declino, con qualche rotella che se ne stava andando fuori posto, ma non si aspettava che anche Eudora lo tradisse. Inoltre, ancora prima di essere un avventuriero, era un serio studioso, e sapeva quel che diceva.
«Guarda…» disse Baltimore. «Di nuovo quell’occhio racchiuso da un triangolo.»
«Si saranno ispirati a lui per i tatuaggi…»
«Sì, ma… non è lo stesso dei dollari americani?»
«È un simbolo deista della tradizione massonica.»
«Perché si trova in un posto del genere?»
Intanto, Micio-Machio ringhiò. Eudora lo prese in braccio. Si guardò intorno. Notò che anche un turista al suo fianco, in apparenza un placido statunitense con un cappellino da baseball, aveva quel tatuaggio sul collo.
«Capo…. qualcosa non mi torna.»
Turisti e locali ora attorniavano i due avventurieri. Baltimore sorrise. Tolse i guanti. Cercò di ricordarsi la frase tormentone che usava in casi del genere.
«Ah sì. Eudora» disse «è ora di togliere i guanti bianchi.»
Nessuno dei locali erano armati o combattenti particolarmente abili. Presto Eudora e Baltimore, addestrati a ogni sorta di arte marziale, ebbero la meglio di loro. Presero da parte la bigliettaia, quella che parlava bene inglese, e cominciarono a interrogarla.
«Andate via di qui» disse.
«Perché questa sciarada?»
«Proteggiamo lui.»
«Chi è lui?»
«Non posso pronunciare il suo nome.»
Baltimore conosceva metodi di interrogatorio piuttosto cruenti, ma non li avrebbe mai usati su una donna.
«È questa l’antica civiltà d’Atlantide? Sopravvissuta per tanti secoli sotto le mentite spoglie di una trappola per turisti?»
Lei prese una pillola dalla tasca e la ingollò, svenendo sul colpo.
«Erbe locali» disse Eudora. «La terranno kappao per un bel po’.»
Baltimore interrogò gli altri, accovacciati in fondo alla caverna, impauriti.
«Come si arriva a lui?»
Nessuno rispose. Nessuno sapeva come rispondere. Non parlavano la sua lingua.
«Capo, stavo pensando…»
«Sentiamo» disse Baltimore, sentendosi straordinariamente rivitalizzato, cominciando a tastare le pareti in cerca di un passaggio segreto per arrivare a “lui.”
«Questa gente mi sembra piuttosto inoffensiva. Voglio dire, l’abbiamo sconfitta in un batter d’occhio. Vogliono solo condurre la loro esistenza pacifica. Non saremo noi i cattivi della situazione?»
«Nascondono un segreto. E il nostro compito è scoprirlo» tagliò corto Baltimore, fino a quando non trovò spuntare un masso dall’aria sospetta. Provò a premerlo, ma  non ottenne niente. Cominciò a usare una serie di tecniche, fino a quando non capì che era necessario poggiare su di esso il giusto quantitativo di sabbietta, non un granello in più o uno in meno, per farlo rientrare al suo interno e aprire il passaggio segreto.
Intanto Eudora era tornata al suo fianco, con un altro churrito tachenho.
«Mentre ero qui a scoprire il passaggio segreto, tu stavi andando a prenderti uno di quelli?»
«Sono irresistibili. Sicuro di non volerne?»
«Andiamo.»
«Georgiana dice ciao.»
Baltimore ringhiò qualcosa, quindi accese la torcia elettrica e s’avventurò lungo una lunga serie di cunicoli. Cunicoli molto grafici, che raccontavano una storia che, se era vera, era molto minacciosa. Di una semi-divinità che abitava sul fondo dell’antro, di un mostro che poteva essere saziato solo dalla sete di sangue umano.
Arrivarono fino a una camera mortuaria.
«Come ogni piramide di ogni tempo di ogni parte del mondo è solo una tomba» disse Eudora. «Il “lui” che custodivano sarà il sepolcro di qualche antico re molto benvoluto, magari un Artù locale.»
«Si tratta di una scoperta valevole» disse Baltimore, soddisfatto. Sapeva che non era in declino. Che “ce l’aveva ancora.” «Chissà che faccia farà Pinto quando leggerà il libro. Sono tuttora convinto che questa sia la vera Atlantide.»
«Questo è tutto da vedere…» disse Eudora, mentre raccoglieva Micio-Macho da terra. Aveva qualcosa fra i denti.
«Sempre a raccogliere roba. Sputa, da’ qua» disse la donna, prendendo un osso in mano. Lo gettò per terra con ribrezzo.
Intanto, Baltimore aveva cominciato a fare luce per tutti gli angolo delle stanza. C’erano moltissime ossa, alcune antiche, ma certe sembravano recenti, mangiate e lisciate da poco. Trovò una maglietta degli One Direction e un cappellino da baseball nero con scritto I love New York.
«Eudora, forse dovremmo uscire di qui.»
«Sai che anch’io ho una sensazioncina mica da ridere?»
«Le pistole laser?»
«Ancora scariche, legate al sidecar.»
Mentre Baltimore prendeva un coltello, si sentì un verso spaventoso provenire dal fondo della camera mortuaria. Ben presto si palesò a loro il muso del re-alligatore della civiltà perduta (forse) d’Atlantide.
«Che si fa?» chiese Eudora, mantendo l’abituale freddezza nel momento del pericolo.
Baltimore ci pensò su.
In altri tempi, ne avrebbe fatto fettine, e avrebbe usato la pelle del mostro per un bellissimo portafogli. Però, in qualche modo, i discorsi di Eudora avevano cominciato a penetrare. Forse era vero. Non era più quello di una vola.
«Scappiamo via?» chiese.
«No» rispose Eudora. «Avevi ragione. Questa mattanza deve finire» e si avventò sul mostro, seguita dal compagno di mille avventure.
Dopo una lotta molto cruenta (Baltimore ci rimise un dito indice) riuscirono finalmente arrivare alla giugulare del mostro. Dopo che Eudora ebbe curato alla bello e meglio il suo compagno e furono di sopra, videro che i locali li attorniavo.
Eudora sfoderò la testa del mostro. Furono festeggiati come eroi, e la festa andò avanti per tre giorni. Avevano liberato il villaggio (che, nonostante quello che sosteneva Baltimore, non era Atlantide. Lo sanno tutti che Atlantide giace sul fondo del Mediterraneo) da una spaventosa maledizione.
«Dovrò imparare a usare la pistola laser con la mano sinistra» disse Baltimore, quando furono di nuovo sul sidecar.
«Dobbiamo parlarne» sospirò Eudora.
«Di cosa?»
«L’altro giorno abbiamo quasi rischiato di morire. Stiamo invecchiando, non siamo più quelli di un tempo. Soprattutto tu, se mi permetti. Ora sei anche mutilato.»
«Mi restano ben nove dita.»
«John…» disse Eudora, chiamandolo per la prima volta per nome in quindici anni di avventure insieme. «Nella camera mortuaria ho trovato questo.»
Glielo diede. Era un bellissimo anello d’oro, tempestato di diamanti.
«Un tesoro. Rich Richardson sarà contento.»
«Non penso tu debba consegnarlo al museo.»
«A chi altri, allora?»
«Georgiana ci aspetta. Ha detto che è felice di vederci.»
«Sono sempre contento di rivederla» disse Baltimore, senza fare una piega. «Ora, però, ci troviamo a un bivio.»
Erano, letteralmente, di fronte a due strade che si biforcavano.
«A destra, verso l’aguaplano. Dove potremmo andare, altrimenti?»
«Vedi, Eudora. Mentre eravamo a fare feste con i locali, ho parlato con molti anziani di loro. Mi hanno detto di una leggenda, che si tramanda dalla fondazione di Atlantide…»
«Non era Atlantide. Dài» disse Eudora, sorridendo.
«Questo è da stabilire. A ogni modo, mi ha parlato di una giungla di smeraldo.»
«Saranno alberi dai colori particolarmente lucenti.»
«Può essere. Sembra, però, che il centro della giungla custodisca un lago caldo, forse un piccolo geyser. E sembra che, chi faccia il bagno in quel lago, in una determinata notte dell’anno, possa non morire mai.»
«La fonte dell’eterna giovinezza. È quella che mi avevi promesso, quando avevamo cominciato.»
«Siamo a un bivio. È vero, comunque, quello che dici. Non sono più quello di un tempo. Voglio che tu decida da che parte andare.»
Eudora guardò il suo capo. I capelli, fini, che si stavano diradando sulla fronte e ingrigivano. La fronte rugosa. Il naso ormai rotto diverse volte. Gli occhi azzurri e larghi, che gli davano un aspetto schietto, e che, in fondo, riflettevano la purezza del suo cuore.
La donna sorrise.
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Re: L'ultima avventura

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Ciao @Domenico S.  Ho letto la tua storia e l'ho trovata molto divertente, seppure una nota amara, (La vecchiaia che avanza) l'ha resa in un certo modo seria.
I due personaggi sono così ben rappresentati che potresti scrivere le avvnture di  Baltimore e Eudora, sarebbero storie divertenti e addirittura ci vedrei bene lo sviluppo di un fumetto. Ho amato il povero gorilla all'inizio della storia, quando sgranocchia la tavoletta, bellissima la lezione di storia a cui viene sottoposto.
Domenico S. ha scritto: S’alzò. Scrollò la polvere dai muscolosi bicipiti (a cinquant’anni, si sentiva all’apice della sua forma fisica e mentale) e disse:
«Tutti quanti la confondono con El Dorado. Perché, intendiamoci, è quello che si aspetta di trovare un avventuriero da queste parti. Per questo le fonti sono confuse. Io stesso, che sono uno studioso mica da ridere — insomma, il mio curriculum parla per me — sono riuscito a capire il legame fra l’Atlantide di Platone e questa città soltanto quando ho decifrato quest’antica tavoletta» disse, estraendo il pezzo di pietra dalla tasca e lanciandolo sul prato.
Domenico S. ha scritto: e che non siamo capitati nel bel mezzo della sagra estiva.»
e che noi siamo capitati...
Domenico S. ha scritto: e sperava tanto di mettere una tacca come Atlantide alla sua cintura.
Mettere una nuova tacca per Atlantide sulla sua cintura
Domenico S. ha scritto: di qualcosa da sbattere sul muso dei suoi colleghi che lo prendevano in giro
di avere qualcosa da sbattere sul muso...
Domenico S. ha scritto: il pilota di cargo italiano Pinto Bonacci,
Il pilota di cargo, l'italiano Pinto Bonacci. O così o sembra che il cargo sia italiano.
Domenico S. ha scritto: Baltimore s’arrotolò la manichino della maglietta.
la manica
Domenico S. ha scritto: ebbero la meglio di loro.
su di loro
Domenico S. ha scritto: Perché questa sciarada?»
Perchè Sciarada? è un termine che richiama un enigma un mistero da risovere. i due esploratori sono soltanto stati invitati ad andarsene.
Domenico S. ha scritto: Non posso pronunciare il suo nome.»
infatti il istero c'è, ma viene palesato dopo.
Domenico S. ha scritto: lui?»
Per Lui, forse è meglio usare la maiuscola.
Domenico S. ha scritto: l giusto quantitativo di sabbietta, non un granello in più o uno in meno, per farlo rientrare al
Dove l'ho vista questa scena? usata in maniera perfetta, Bravo.
Domenico S. ha scritto: Mentre ero qui a scoprire il passaggio segreto, tu stavi andando a prenderti uno di quelli?»
qui, è davvero divertente, bella trovata!
Domenico S. ha scritto: Dopo che Eudora ebbe curato alla bello e meglio il suo compagno e furono di sopra, videro che i locali li attorniavo.
Le scene si susseguono gustose ma forse hai ceduto un pò alla fretta, alcune cose forse andavano elaborate ancora.
Domenico S. ha scritto: Eudora sfoderò la testa del mostro.
anche questa troppo frettolosa
Domenico S. ha scritto: Era un bellissimo anello d’oro, tempestato di diamanti.
Nacchio, che fortuna!
Gia quello bastava, altro che avventura.
Domenico S. ha scritto: Georgiana ci aspetta. Ha detto che è felice di vederci.»
Che sarebbe felice di vederci.
Domenico S. ha scritto: possa non morire mai.»
Via a sinistra, senza indugio!
Domenico S. ha scritto: È vero, comunque, quello che dici. Non sono più quello di un tempo. Voglio che tu decida da che parte andare.»
questa frase ha troppa punteggiatura.
È vero quello che dici, non sono più l'umo di un tempo. Voglio che tu decida da che parte andare.
Domenico S. ha scritto: La donna sorrise.
Andiamo a sinistra, sì.
Allora, mi sono davvero divertita a leggerti e anche a commentare, come ti ho già detto questo racconto per me ha un potenziale.
Ironia e lo stile usato mi sono davvero piaciuti, ti faccio i complimenti e ti raccomando di scriverne ancora. Sono racconti che catturano il lettore quelli scritti come ha fatto tu con questa storia.
Alla prossima lettura

Re: L'ultima avventura

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Domenico S. ha scritto: La pistola laser non lo tradiva mai, tranne quando lo tradiva.
Un simpatico incipit.
Domenico S. ha scritto: «Non sono convinta che la tua interpretazione sia esatta»
Domenico S. ha scritto: il posto dove ci stiamo dirigendo non è mai stato visitato da altri esseri umani per da chissà quanto.»
Domenico S. ha scritto: facendo qualcosa che non andrebbe mai fatto nella vita reale:
Perché aggiungere "nella vita reale"? Dove sono i due: in una finction?
Domenico S. ha scritto: Dopo un’ultima macchia di alberi la strada si aprì sulla vita di u
Dopo alberi, meglio mettere una virgola.
Domenico S. ha scritto: città sepolti
sepolte
Domenico S. ha scritto: «Sai che mi piace essere smentito.
Volevi dire forse il contrario? Sai che non mi piace essere smentito?
post_id=25626 ha scritto:
Domenico S. ha scritto: Nessuno dei locali erano armati o combattenti particolarmente abili.
Il soggetto (nessuno) è singolare:
Nessuno dei locali era armato o era un combattente particolarmente abile.
Domenico S. ha scritto: Presto Eudora e Baltimore, addestrati a ogni sorta di arte marziale, ebbero la meglio di loro. 
La scena della lotta mi sembra liquidata con troppo poche parole.
Domenico S. ha scritto: Presero da parte la bigliettaia, quella che parlava bene inglese, e cominciarono a interrogarla.
«Andate via di qui» disse lei.
Domenico S. ha scritto: «Perché questa sciarada?»  Perché questa segretezza?
«Proteggiamo lui.» Proteggiamo "lui".
«Chi è lui?»
«Non posso pronunciare il suo nome.»
La "sciarada" non si capisce quale sia, in questo contesto.
Domenico S. ha scritto: Dopo una lotta molto cruenta (Baltimore ci rimise un dito indice) riuscirono finalmente arrivare alla giugulare del mostro. Dopo che Eudora ebbe curato alla bello e meglio il suo compagno e furono di sopra, videro che i locali li attorniavo. attorniavano.
Anche qui, molto velocizzata la lotta.
Domenico S. ha scritto: «La fonte dell’eterna giovinezza. È quella che mi avevi promesso, quando avevamo cominciato.»
«Siamo a un bivio. È vero, comunque, quello che dici. Non sono più quello di un tempo. Voglio che tu decida da che parte andare.»
Eudora guardò il suo capo. I capelli, fini, che si stavano diradando sulla fronte e ingrigivano. La fronte rugosa. Il naso ormai rotto diverse volte. Gli occhi azzurri e larghi, che gli davano un aspetto schietto, e che, in fondo, riflettevano la purezza del suo cuore.
La donna sorrise.
Un finale inaspettato per un'avventura che incuriosisce il lettore, che se ne attende il seguito, nonostante il titolo. 
Probabile che, essendo uno dei tuoi primi racconti, sia per questo, per non avere ancora la dimestichezza con la penna che hai oggi, che sei stato un po' troppo sbrigativo in qualche punto del racconto, come  nei quadri di azione, di combattimento.

A rileggerti, @Domenico S.  :libro:
Di sabbia e catrame è la vita:
o scorre o si lega alle dita.


Poeta con te - Tre spunti di versi
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