L’avvocato Santo Corbera era un uomo meticoloso, preciso e abitudinario, e aveva un’indole riflessiva: medio di statura e piuttosto seccagno di corporatura, portava i capelli con una scriminatura di lato: la riga, dalla fronte sfociava su di un cocuzzolo pelato, simile a una radura priva di vegetazione. Dedito alla famiglia, non meno che alla propria attività, ogni pomeriggio si ritrovava nella quiete ovattata del proprio studio, in via Dei Credenzieri, a Palermo, dove si ritirava ad ascoltare la voce irrequieta e nervosa dei propri clienti.
Lasciato il vestibolo adattato a sala d’aspetto, e superato un breve corridoio disadorno, questi venivano introdotti nella stanza color malva, affacciata su di una strada poco frequentata, e invitati a sedere dietro l'ampia scrivania di palissandro nero sulla quale crescevano, come casermoni di periferia, pile di fascicoli traboccanti solerzia e laboriosità certo, come una vaga indolenza, e il cui vero scopo era d’attrezzare una barriera, o un confessionale, tale da impedire il reciproco scambio di sguardi quando si rimaneva seduti l’uno di fronte all’altro.
E anche in quel frangente continuò a dissentire dando ragione a voce all’anziano cliente, il quale da mezz’ora si sfogava sciorinando tutte le sue fantasie riguardo a una servitù di passaggio che gli aveva causato più guai di quanti avrebbero potuto mai essere i vantaggi.
La professione gli aveva regalato una certa praticaccia del mondo: sapeva bene come contenziosi di tal genere esistevano, e resistessero al passar dei lustri, perché per molti una causa in tribunale rimaneva una di quelle occupazioni in grado di dar un senso alla propria esistenza.
Una sorta di litigo ergo sum, per adoperare la più famosa locuzione cartesiana, dove l’autocoscienza e l’esserci sono il risultato diretto del numero di cause incardinate in un’aula di giustizia.
E, in casi del genere, a nulla sarebbe servito opporsi, frapporre ostacoli etici obiezioni economiche, e l’unica azione possibile non poteva che cercar di soddisfare il patrocinato, e condurre innanzi la controversia, con accanimento, per anni, decadi, sine die.
Dopo aver congedato il vecchio, il quale arrancava con l'aiuto d'un bastone e pure strisciando i piedi, tornò nella sala d’aspetto; lo fece più per abitudine che per vero scrupolo, perché pensava fosse deserta, s’accorse, invece, che vuota non era.
Una donna d'una bellezza avanti negli anni e ormai sfiorita – a cui aveva rimediato con un trucco pesante e di cattivo gusto – stava seduta col cappotto ancora indosso in perfetto silenzio.
Valentina, l’eterna praticante tutto fare che lo seguiva da anni nella speranza di associarsi un giorno allo studio, l’aveva lasciata entrare e poi abbandonata s’una seggiola in compagnia d’uno disfattissimo “Gente” del 2004.
Quindi era andata via – perché il suo indefinito orario di lavoro era trascorso da un pezzo, o perché s'era stufata di montare la guardia alla Fortezza Bastiani – ma senza dire neanche una parola; né a lui né alla donna, rimasta senza proferire un bah e ad attendere fiduciosa l'arrivo del suo turno.
Da due giorni Santo Corbera dormiva poco e male.
Forse a causa di un paio di memorie di replica piuttosto complesse, per le quali non riusciva a tirar fuori il classico ragno dal buco: per cui vagava tra gli impalpabili spazi che dividono un contratto nullo da uno inesistente, ossia la finzione dall'apparenza, e le astruse formule matematiche necessarie a stimare il valore di un diritto di abitazione. Tuttavia lo macerava anche dell’altro, e il suo viso pareva più scarno di quanto non fosse di solito, pur se riempito da una barba di tre giorni; tanto da sembrare invecchiato, appassito, un po’ come la cliente sulla seggiola, sebbene, nonostante l'anello al dito, fosse ancora discretamente corteggiato da alcune colleghe rimaste – o diventate – zitelle sulla soglia della mezza età: per non accennare delle occasionali clienti, pronte a profittare dell'atmosfera rarefatta del suo studio, e dei suoi modi vagamente premurosi, per farsi audaci.
Quella sera ringraziò i suoi ossessivi rituali, senza i quali avrebbe lasciato la donna chiusa dentro l'appartamento per tornare a casa dalla moglie, e le diede il benvenuto.
«Piacere di conoscerla. Sono l'avvocato Santo Corbera…» si presentò, con affettato ossequio, e le mostrò il cammino.
«Adelina Mancuso sono» ricambiò lei, con voce acidula e con tono vagamente offeso, e si lasciò condurre.
Santo Corbera esercitava la professione da tanti di quegli anni da recitare ormai con sicurezza il suo brogliaccio, in cui aveva scritto come le donne sole frequentassero gli studi legali per tre unici motivi: corna o soldi o corna e soldi assieme, più di frequente.
Anime pragmatiche sono, gli balenò per la mente, e poco inclini alle speculazioni teoretiche.
Il pensiero gli uscì quasi fuori dai denti, con un sibilo che riuscì, prima che fosse tardi, a trasformare in un sospiro.
Certo di aver già fatto centro intonò la sua avemmaria: «Mi dica... come posso aiutarla?»
«Mio marito...» esordì lei.
E suppose d’averla già vista tutta quella dolente rappresentazione, con corna reiterate e conseguente richiesta di alimenti stratosferici e fuori dal mondo.
Non che fosse un presuntuoso, ma considerava quello dell’azzeccagarbugli un mestiere tale da costringere a conoscere, prima della norma fissata nei codici, le persone: quanto volevano e cosa avrebbero preferito evitare, i loro desideri e le loro paure, le loro ingegnose macchinazioni come le ingenuità. Dentro al suo studio aveva sentito raccontare tante storie, quelle che la maggior parte della gente non confessa neanche in punto di morte, e dunque riteneva doveroso comportarsi da adepto di Freud, o da seguace di Jung, da emulo di uno di quei nuovi terapeuti — cognitivo comportamentali si fanno chiamare — i quali attendono alla pratica quotidiana, alla soluzione dei problemi, più che indagare sulle ragioni, su quanto potrebbe determinare certi comportamenti invece che indurne altri.
E, pertanto, ogni volta riteneva di dover vivisezionare le anime, disassemblarne i pezzi, smontarle per comprenderne il funzionamento e trarne i vari elementi, utili per distinguere il vero dal falso, il bene dal male, l’apparenza dalla realtà, il giusto dall’ingiusto, quanto sarebbe risultato convincente da ciò che non lo era per niente.
«Come faccio a dirglielo...» tentò di spiegare Adelina Mancuso. «Ecco, mio marito da un po’ di tempo...»
«La trascura!» azzardò, con il piglio del sottuttoio.
«No» lo contraddisse. «Il contrario, l’esatto contrario, avvocà. Fefé, Filippo ci voglio dire, mio marito, lui da qualche tempo è… stracanciatu» aggiunse, e le venne fuori una sgradevole, gracchiante, vocetta stridula; come se il ricordo avesse suggerito alle corde vocali una diversa, e più acuta, intonazione.
«Ah, si tratta d'un cambiamento, dunque, che lei ha avvertito in suo marito» chiarì a se stesso più che alla cliente.
«Sesé, avvocato… ma prima di questo canciamento, neanche mi parlava. Né mmi sintìa. Non chiedeva come stavo, né cosa facevo tutto il santo giorno. Non gli importava... E anche a letto, da un bel pezzo ormai non gli interessava. Che poi, si figuri quanto interessa a me» aggiunse, con sostenuta sufficienza e agitando la manina dalle unghie pittate di rosso come a farsi vento
E scrollò pure le spalle, come se pure l'idea le portasse disturbo.
«Ho chiaro il quadro, continui. Vada pure avanti...»
«Ma sempre così è stato, sa? Da poco maritati... indifferente era con me e pure al... ecco… al sesso» sottolineò, col raddoppio di tutte le esse e il pudore ipocrita finto come il biondo platino della sua chioma mossa. «E adesso, invece, si occupa di me, s’informa, gira per casa cortese e gentile, fa il premuroso... e anche a letto... uhhh... sapesse com'è diventato focoso.»
«Ahi, ahi» si lamentò. «Ma che mi dice, signora mia? Ma che mi dice...» balbettò, tra l’incredulo e il pensieroso, l’avvocato Corbera.
Certo stavolta d’aver afferrato tutto, ma di non aver capito nulla.
«Ecco, mi deve credere. Le dico la verità. È diventato... su fi sti ca tu.»
«Sofisticato» recuperò ogni sillaba, da quello spelling improvvisato.
«Sofisticato» recuperò ogni sillaba, da quello spelling improvvisato.
E con un colpo secco di braccia diede una spinta alla seggiola munita di ruote su cui stava come appollaiato, la quale s’allontanò dalla scrivania come una barca dalla riva ad affrontare un mare sconosciuto.
«Signora Mancuso, faccia capire anche a me» provò a domandare, con la veemenza di un procuratore da film americano.
Perché alle otto di sera la sua pazienza s’era ammosciata, e aveva necessità di fatti concreti, più che di sostantivi imprecisi, di aggettivi ambigui, di locuzioni fumose.
«Dunque suo marito, dopo anni di... diciamo distaccato e…» ci mise un attimo a reperire la parola «infruttuoso matrimonio, finalmente pare accorgersi di lei, le mostra il suo affetto... ecco, il suo ardore di uomo. E lei, lei che fa? Viene a lamentarsi da un avvocato?»
«Sissi, proprio» rispose la donna, tutta seria e imbronciata.
«Va be’, va be’, signora Mancuso. Ma da me che è venuta a fare, si può sapere? A farmi perdere il sonno?» La pungolò.
E già aveva preso a selezione varie modalità di punizioni adatte a infliggere una lezione senza pari a Valentina, colpevole di aver fatto entrare una pazza strammata in studio senza darsene conto.
«Ma lei che ha capito, avvocato?» Pigolò risentita la donna.
E prese a dondolargli la destra, con le dita giunte al pollice a formare una piramide in movimento, proprio davanti alla sua faccia.
«Io, come andavano le cose prima, contenta ero, e con lui meno ci stavo… Dall'altro, però, adesso so per certo che quel porco fedigrafo le corna mi mette!»
«Finalmente! E allora le corna ci sono» tracimò Santo Corbera, giubilante.
Le corna c’erano sempre, insieme alla richiesta di denaro.
Le corna c’erano sempre, insieme alla richiesta di denaro.
E interruppe la conta delle staffilate da assestare alla sua assistente sotto forma di straordinario non pagato, che poi era la norma.
«Ma che mi viene a dire finalmente, avvocato?»
«È un modo di dire legale, carissima signora Mancuso. Non stia a preoccuparsi dei tecnicismi. Ma ora, torniamo al merito della questione. Come fa a sostenere che sono corna, se testé m’ha riferito che a suo marito gli è persino ritornato l’appetito sessuale?»
«Appunto! Stracanciatu per colpa di fimmina è. Io voglio il divorzio» confermò la signora Mancuso, con un tono risoluto, espressione d'una volontà incrollabile.
«È sicura?»
«Sicurissima, certissima. Chi gliele ha insegnate a quel fedigrafo quelle cosacce che fa con me? Del tutto nuove sono. Di sicuro prima non le faceva mai... ‘ste porcate. E poi, come spiegarle, avvocato?»
«E lei ci provi...»
«Mi pare a mmia che mi usasse per fare... come si dice?» E rimase con la lingua a penzoloni, muta, per qualche attimo, alla ricerca del termine esatto.
«Eccola, mi venne. Ripetizione» straboccò Adelina Mancuso, simile a una colata lavica dal cratere di Sudest.
«Ripetizione? E che mi viene a dire?»
«Ma sì, quella cosa che fanno i picciotti a scuola.»
«Ripasso.»
«Ripasso, quella è la parola. Ecco, cu’ mmia iddu ripassa» esclamò, con l’espressione di una Erinni.
«Ripasso, quella è la parola. Ecco, cu’ mmia iddu ripassa» esclamò, con l’espressione di una Erinni.
«Signora Mancuso, signora Mancuso...» strillò a due riprese, rosso in viso. «Magari du mischineddu guarda solo qualche filmi porno.»
Si stupì di quanto aveva detto, non gli era mai capitato di provare a rimescolare le carte in tavola con un cliente.
«Ma che filmini porno e filmini porno. Prima, ogni tanto, con le bbuttane ci andava. L’omo è omo, anche ‘n’omo come a llui. Fotteva e io menne fottevo, e nulla tra noi era mai cambiato. Adesso, invece... ciò le prove, avvocato!» Si difese a tono la donna, ed estrasse dalla borsa, grande come la sacca di un marinaio che si deve imbarcare per un anno, un cellulare. «È il telefono del porco fedigrafo, gliel'ho fregato questo pomeriggio e tanto è rimminchionito che pensa d’averlo perso. Ci sono puru gli semmesse della bbuttana. Monica si chiama, la bbuttana.»
«Ahi, ahi. Monica ha detto? Ne è sicura?»
«Sicurissima. Come so che lavora all'inpisi, la bbuttana. Li vuole vedere gli semmesse? Qua sono. È innamorato il porco. E c’è pure il numero di telefono...»
«Magari dopo. Magari dopo ne parliamo, signora Mancuso» la fermò ansimante l’avvocato Santo Corbera. «Ma lei nella vita che fa? Lavora?»
«Io no, il porco fa il camionista per i Caleca e basta e avanza per tutta la famiglia. Mai nulla ci fece mancare.»
«Accursio Caleca?» Domandò pensieroso.
«Sissì, lo conosce?»
L’avvocato accennò un sì con la testa.
«E figli ne avete?»
«Due. Grandi.»
«Suo marito si chiama?»
Adelina Mancuso rispose.
«È proprio sicura di volersi separare? Sa, glielo dico perché a volte è più comodo voltare la testa, fare finta di niente. Accomodarsi con quello che c’è. Immaginare che nulla sia successo, fingere di non sapere. Chiudere un occhio, mantenere lo statu quo. E col tempo uno neanche ci fa più caso.»
«Eh? Ma che viene a significare, avvocato?»
«Le sto dicendo che alle volte per una coppia l’odio, il rancore, sono un collante più forte e duraturo di qualunque altro sentimento. Lo dico contro i miei interessi.»
La donna guardò l’avvocato Santo Corbera contrariata, con la faccia feroce e disgustata.
«Ma chi collant e collant, avvocato. In giro mi piglia? Qua di corna discutiamo! Io a quel porco maiale lo voglio squartariare. Mi devo vendicare! Solo così le cose si rimettono a posto e io posso essere felice.»
«Ma chi collant e collant, avvocato. In giro mi piglia? Qua di corna discutiamo! Io a quel porco maiale lo voglio squartariare. Mi devo vendicare! Solo così le cose si rimettono a posto e io posso essere felice.»
«Felice... cara signora. La felicità è un vago momento, che poi diventa un ricordo. Vale la pena sacrificare la tranquillità, anche economica, sua e della famiglia per un ricordo?»
«No. Cioè...»
«No. Cioè...»
«Sì o no?»
«In effetti ora… sono confusa. Anzi è lei che mi confonde.»
«Signora Mancuso. Non c’è fretta. Vediamo come va con suo marito. Lei gli faccia credere che tutto va bene, ignori i sintomi, aspetti che la malattia svanisca, che il malato rinsavisca, e cerchi di dimenticare» disse, e si alzò.
Si avvicinò alla sedia della cliente, la fece sollevare e accompagnò la signora Adelina alla porta, con nervosa sollecitudine.
È proprio vero, pensò Adelina Mancuso mentre la porta si chiudeva alle sue spalle. M'aveva avvertita la mia amica Mariuccia: non andare da un avvocato masculo, picchì ‘ncosciamente sempre per l’uomo fa il tifo. Fimmina cercatela... e divorziata per giunta, accussì è cchiù arraggiata.
Anche quella sera l’avvocato Santo Corbera andò a coricarsi prima della moglie.
Prese dal comodino il saggio su Rosmini che stava leggendo e lo aprì al punto segnato.
«Un uomo si riconosce per i libri che possiede» lesse.
Tra gli occhi e la mente si era alzata come una palizzata. Si accorse, dopo qualche istante soltanto, della presenza della moglie; alzò lo sguardo e la vide con i soli slip indosso, le braccia alzate ad accogliere la maglietta che stava per infilarsi.
Gli si risvegliò il desiderio.
«Accursio Caleca» disse a bruciapelo.
E sentì la propria voce distante, come se fosse stato un altro a parlare.
La faccia della donna si raggelò in una smorfia di sorpresa.
«Chi te l’ha detto?»
«Ci sono cose che si capiscono senza bisogno che qualcuno debba dirtele.»
Lei cadde in ginocchio, ai piedi del letto, e affondò il viso nelle coperte piagnucolando.
«Dovevi dirmelo! Dovevi fermarmi! Dovevi fare qualcosa.»
«Tu dovevi dirmelo» la rimproverò.
«Credi che se te lo avessi detto sarebbe stato come se non fosse mai avvenuto?» Rispose acida lei.
Santo Corbera parve non afferrare, anzi cominciò a dirle del suo amore, nonostante tutto, e della sua sofferenza. A rassicurarla che nulla sarebbe cambiato tra di loro.
Alla fine si avvicinò per abbracciarla.
«Eleonora» disse. «Io ti amo.»
E le sfiorò il braccio.
Ma appena toccata lei si alzò e prese a ridere: aveva un ghigno demoniaco, sprezzante, stampato in faccia. Tese la mano destra verso di lui; l’indice e il mignolo si alzarono dal pugno chiuso. Gli occhi si fecero fessure, dalla bocca le uscì il verso del caprone: «Beee… Beee… Beee...»