Spillo ha gli occhi azzurri

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Negli scontri ai cancelli si osservavano umanità nuove. La modernità cittadina stampava pagine inedite di antropologia, nuove identità, studenti e operai si trasformavano in modelli di uomo mai visti: Mirafiori in quegli anni produceva in egual misura automobili e umanità. Tra i mutanti generati dal ferro e dal grigiore metropolitano c’erano gli Indiani come Spillo. Nativi, accampati dentro quella riserva urbana che prendeva forma dentro la cintura di Torino. Spillo aveva gli occhi azzurri, una voce rauca consunta dal fumo, e i capelli lucenti, lunghi fino al culo. Indossava un gilet fatto con un materiale sconosciuto, potrei dire un “finto artigianale”, un prodotto sintetico, un filato contradditorio, esotico e industriale, un po’ come la canapa, qualcosa che vedi nei National Geographic e che vai prendere dentro un capannone a Prato.
Spillo stava sempre seduto da qualche parte nell’arredo urbano della città, e stava sempre rollando qualcosa da fumare. Partecipava a tutte le proteste: l’ambientalismo, le donne palestinesi, la lotta operaia, gli ex carcerati, i senzatetto. Spillo era la massima espressione della minoranza, senza un motivo, senza interesse, senza ragioni precise: sempre seduto tra i pochi.
Spillo non era associabile a nessun gruppo di protesta specifico, così si trasformò nel totem di ogni minoranza: solo gli indiani sono il passepartout per tutte le minoranze. Decise così di fare il Sioux a Mirafiori.
- Ettore, mi passi una paglina?
- Non ora. Srotola lo striscione giallo e cerca stavolta di non farti rubare il megafono.
- Faccio il caffè per tutti dopo, così tiro su duecento lire.
- Si, ma non avvicinare quelli della Cisl, qui non li voglio!
- No tranquillo, non ci parlo coi venduti: me la passi sta bionda allora?
- No.
I cancelli di Mirafiori erano il termometro della classe operaia, eravamo lì a contarci. Le aspettative per quel venerdì di maggio erano alte. Il picchetto lo avevamo organizzato noi, ma la notizia che passò attraverso giornali fu che si trattasse di un picchetto autonomo.
“Dagli scioperi per arrivare all’occupazione”, - quella era l’idea. Il grande salto per prendere il controllo delle fabbriche del nord. Sperimentare l’autogestione. Passare il timone delle decisioni aziendali agli operai era il passo prima del grande salto.
L’idea andava realizzata mettendo su una catena: proteste, picchetti, scioperi selvaggi. Alzando il tiro, al punto che sarebbe stato naturale arrivare all’occupazione. Avrebbe significato gestire direttamente le sorti dei lavoratori di quella realtà industriale. Condizionare il destino delle masse in senso socialista, ma soprattutto, occupare una fabbrica e riuscire a gestirla avrebbe dimostrato in modo reale che “si poteva fare”: gli operai potevano senza padroni avere il controllo dei mezzi di produzione. L’utopia era lì, a un passo, bastava gestire una sola grande fabbrica per creare un domino, poi la strada della rivoluzione sarebbe risultata in discesa.
Quel venerdì di maggio la folla, senza ragione alcuna, tentennava. Stavo alla prima porta, pochi minuti prima della sirena del secondo turno, nei giorni precedenti alcune azioni al picchetto avevano creato dei tafferugli, degli operai si erano scazzottati. Alcuni per ritorsione verso i colleghi di un altro reparto, avevano distrutto una linea di lavoro. Lasciando delle scritte con la vernice spray: “Crumiri”, “Terroni”, “Froci”, “BR”, stella a cinque punte. In ogni lotta, dove c’era violenza politica, leggevi da qualche parte “Brigate Rosse”. In quel periodo caotico non avremmo mai incoraggiato una lotta fratricida tra operai di diversi reparti; consideravamo l’unità della classe un valore.
Quel venerdì mattina lo scopo della giornata era radunare davanti al piazzale della fabbrica più gente possibile. Volevamo una protesta dall’eco nazionale, una cosa che potesse finire dentro il TG1, e poi, dovevamo impedire l’ingresso in fabbrica di quelli del secondo turno.
Davanti a me sarebbero entrati quelli della carrozzeria, il reparto che era stato distrutto dai motoristi la notte prima: sapevo già che volevano timbrare.
In carrozzeria la vita non era cosi male come negli altri reparti. I carrozzieri gli scioperi li facevano fallire. Al picchetto gli avremmo rotto i coglioni, con le buone si sperava, così ci era stato ordinato. Dovevo impedirgli di andare al lavoro, possibilmente senza usare la forza, neanche contro il più servo.

- Un compagno ieri ha perso un dito! In un attimo la smerigliatrice gli ha tranciato il pollice. Non sono cazzi tuoi neanche questi?  Per capire il senso dello sciopero ti servono altri mutilati? Magari un morto?  Oggi non lavori. Non hai figli tu?
 
- Quell’operaio, a differenza tua, lo conosco bene io. La notte durante il turno è sempre mezzo pieno, non è colpa di Agnelli se è alcolizzato! Ora mi fai passare! Perché io non ti conosco, e non sono affari tuoi se ho dei figli.
 
- I premi di produzione lo erano? La  mensa che ti fa mangiare gratis sono affari miei vero? Tu lavoravi con il capo reparto che vi cambiava ogni giorno la postazione? Comanda ancora da seduto? Scommetto di no.  I servi come te Agnelli li farebbe lavorare quindici ore al giorno senza quelli come me. Non sono cattivo ma non insistere.  …  fa il bravo, torna a casa: oggi tu non lavori!

Ammiccò con gli occhi e fece il broncio. Era un operaio avanti in età, di sicuro uno di quelli che in carrozzeria ci era arrivato a fine carriera, un uomo tarchiato e dall’aria furba, certamente padre di famiglia: perdere la giornata gli pesava, e potevo capirlo.
Nei parcheggi al confine del piazzale vidi un focolaio di grida e strattoni. Nessuno di noi era da quelle parti, eravamo troppo presi a non fare entrare gli operai. Il picchetto stava andando bene: non erano passati neanche dieci operai. Vidi la polizia abbandonare le postazioni di controllo accanto a noi e risalire in macchina, pensai che avessero rinunciato. Si erano diretti verso la rissa che in un lampo si era trasformata in guerriglia. Ai cazzotti degli operai, per le questioni interne, si sommarono presto i manganelli delle divise.

-         Ettore molla i crumiri che scoppia un casino.
-         Spillo rimani qui! Restiamo di guardia sennò entrano tutti.
-         No, la madama sta caricando i compagni, mi armo e vado.
 
A far degenerare ogni cosa sempre gli studenti.“Studentame”. Orde che durante la protesta diventavano una mina impazzita. Giovanissimi mossi da un istinto anarcoide, soggetti che stavano politicamente ovunque e da nessuna parte, galleggianti fuori da tutte le organizzazioni della sinistra eversiva. Cani sciolti, la vera eversione. Autori perfetti del gesto inaspettato. Nelle loro azioni istintive e scomposte c’era il costante presagio della tragedia, ogni loro gesto era spericolato, aleatorio, temerario. Non rispondevano a nessun ordine gerarchico. Quegli assembramenti erano presenti in tutte le lotte politiche dell’epoca, erano l’irruenza anarchica nel cuore della folla: al loro coraggio dobbiamo buona parte dei nostri fallimenti.
La rissa aveva messo al tappeto gli operai della carrozzeria. Gli stessi che ci avevano fatto fallire mille iniziative di lotta. Finalmente i carrozzieri le prendevano dai loro compagni di lavoro! Questi ascari pagavano per tutti i boicottaggi, per i tradimenti, per le astensioni dal sindacato. Rendergli il conto dei benefici ricevuti era solo un’azione di giustizia proletaria,. Benefici ottenuti solo e soltanto dalle lotte degli altri reparti. Il padrone che tanto amavano, mai gli avrebbe concesso un granello di quello che avevano ricevuto col sangue dei loro compagni durante l’ultimo anno di lotte.
In quel caotico parapiglia alcune divise avevano usato il manganello nella direzione degli operai, e alcuni studenti di risposta scagliarono delle pietre di ghiaia verso le divise. Piccoli sassolini …  in quella sassaiola vidi apparire un volto tumefatto. Una delle arcate sopraciliari gli si era aperta e il sangue scorreva copioso giù per il viso sporcando di vermiglio la divisa.
Il poliziotto ferito venne scelto dalla folla, come si sceglie l’animale morente nel mezzo dell’arena. Le sassate di ghiaia si fecero sciame, e come in un imponente movimento orchestrale  si indirizzarono presto verso quell’unico bersaglio quasi del tutto abbattuto.
La reazione che ci attendeva era la peggiore delle reazioni. La reazione dello Stato al cospetto del disordine ingestibile. Fu un poliziotto, uno dei tanti, un poliziotto in disparte, uno che non rischiava niente di personale. Decise di mettere fine alla sassaiola impugnando il cane della calibro nove di servizio. Stretta, tra due enormi mani contadine, la pistola d’ordinanza fece calare il silenzio tra la folla. Il poliziotto con il ferro tra le mani sembrava in procinto di sedersi per defecare: sparò due colpi. Due colpi ben intervallati, esplosi nel vuoto, poco sopra l’altezza dell’uomo della folla. Non aveva sparato in cielo e nemmeno a uomo, erano spari senza senso.
I colpi di pistola sedarono i disordini, zittirono la folla, gelarono la piazza, smisero di piovere i sassi. A pochi secondi dagli spari, io per primo, e poi tutti, notammo la testa di Spillo. Che si rovesciava per terra come un vaso sporcando l’asfalto ancora una volta di sangue. In una mano Spillo teneva ancora stretto un sassolino, e suoi occhi azzurri fino alla fine me li vidi addosso: quegli occhi non si chiusero mai. In quegli istanti nel cielo di maggio uno stormo di uccelli volava composto senza una direzione precisa, mentre a terra un identico sciame umano disorganizzato e provvisorio si disperdeva in un movimento senza grazia. Una folla senza più nulla da cantare si scioglieva, corrosa dal terrore che un attimo prima l’aveva costituita.  
Quel giorno oltre a Spillo si contarono altri due morti, e diverse decine di feriti tra operai e studenti. Avevo paura ma tenni comunque il ferro in tasca senza usarlo.
Nei maggiori poli industriali del paese, la settimana seguente, gli scioperi aumentarono a dismisura.
Le prime occupazioni nacquero da quel picchetto, non succedeva più dal biennio rosso una cosa simile in Italia. Gli operai, con i fazzoletti rossi legati al collo, dirigevano le fabbriche dei padroni a Torino, a Genova, a Milano. Il marxismo si realizzava, illudendoci di essere finalmente noi i figli della storia.
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