Il ginecologo s’è avvicinato e ha detto: «Ci siamo». Ha detto: «Siamo agli sgoccioli!» Gli ho risposto cercando di camuffare, però m’ha pigliato una bella tremarella. M’è caduta in quell’istante, sul cuore, tutta la responsabilità del diventare padre. Papà? Io? Ci si sente troppo piccoli. Uno passa una vita intera a figurarsi certe emozioni, poi quando ti ritrovi immischiato nel turbine, capisci che è solo un mero lavorare d’immaginazione. Va un po’ tutto a puttane in quei momenti lì. Al ginecologo ho comunque detto che andava bene, che io ero lì, duro e pronto, e che ero un sentimento tutto vivo e tutto fremente. Lui mi ha mollato una pacca sulla spalla come a dire bene o male ci si passa tutti ci son passato anch’io e non ci si abitua mai, e poi m’ha scandito un in bocca al lupo lentissimo, quasi tenesse sopra tutte le cose del suo mondo che io udissi ogni singola sillaba del suo augurio.
Ha detto: «Non c’è al mondo gioia più grande». «La chiamiamo quando c’è da spingere», ha detto. «Perché lei vuole entrare, no?» Ha detto: «Non è mica di quei padri fumo e niente arrosto?»
Si scompisciava lui il dottore in una risata burrosa al punto tale che il camice gli ondeggiava lungo tutta la carcassa.
Ho fatto un cenno d’assenso, allora ho detto: «Entro. Va bene, certo che entro!» Ho detto: «Yvonne, lei come sta?»
S’era frattanto voltato per darsela, il dottore. Svignava. Aveva da tornare al suo duro travaglio. Mia moglie Yvonne e mia figlia Kataleya erano ora il suo duro travaglio.
Ha detto: «Un vero leone del Kenya, lei».
Era un risolino continuo ’sto dottore.
Ha detto: «Lei è uomo fortunato. Sua moglie non l’ammazzerebbe una bomba».
Un fuoco di Sant’Antonio m’arruscava l’anima. La tremarella m’egemonizzava da fronte a piedi.
Ha buttato l’occhio e m’ha squadrato in un baleno. Ha detto: «Nulla come lei!»
Già, niente come me.
M’ha buttato un sorriso sotto il naso: «Andrà bene. Abbia fede».
Ha completato la rotazione e il camice è sgusciato via trascinadosi appresso tutta la carcassa per il corridoio. Sgattaiolava tra le infermiere. Un puntino sbiadito sotto i forti neon. C’è poco da dire. Mi son buttato lì la questione: ma tu sei all’altezza della vita? Niente risposte, l’ho lasciata la domanda lì appesa in bianco per l’aria. C’era in giro la solita puzza d’ospedale. E allora una specie di affermazione parziale m’è venuta, mi son detto che io boh non so se lo sono, all’altezza della vita, ma è sì in questa puzza che ti sfrega narici e bronchi, sono in fondo concentrate vita e morte tutte in questa puzza infernale.
Le infermiere si affastellavano per il corridoio, tutte dirette nelle loro missioni, nelle loro stanze, e tutte con una gran voglia di travagliare.
C’avevo una voglia di sigarette. Ne ho sfilata una e ho pensato magari distendiamo un po’ l’ansia, e eccone una che subito: «No è vietato». «Fuori, l’area fumatori è fuori.» «Farebbe bene a smettere.» Ho lasciato perdere. E ho anche detto massì è la volta buona per chiuderla una volta per tutte. Kata, almeno smetto per Kata. Mi son messo in attesa. Vedevo il mio dottore in ogni testa d’uomo, ogni testa d’uomo che mi sbucava sotto gli occhi. Eppure vai a capire se basta la nascita d’una figlia per farti chiudere una buona volta coi fallimenti.
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Al ginnasio noi si era dei gran figli d’una buona donna. Ci atteggiavamo, cicca fumigante sempre pendente dalle labbra, andavamo su di giri solo per cantare al globo la nostra scimunita menata rock. Si ha un gran espungersi i peli marci dalla coscienza. Le crisi di coscienza quelle si inciuccano e scottano ogni volta quando la minchiata dorme sepolta sottoterra e si piglia i suoi vermi da un pezzo, e comunque è sempre una tale quantità troppo sfranta e vuota per controbilanciare il brullo che ci pigia a tutti nel cuore. A ragion veduta uno ha tutta una evoluzione e una esistenza cucita a misura d’uomo per espiarsi in religiosa intimità le sue porcate.
Il boss della ghenga, di ’sta gran ghenga di figli disagiati, ovvio, ero io. Boss, ghenga, ripeto, è tutta una menata da pipparolo rock. Avevamo pigliato nel mirino una pischella della combriccola nostra. Andavamo in giro con un mucchio di palloni nelle saccocce, quei palloni colorati da festicciola e compleanni, 'sti palloni sempre gonfi di acqua di rubinetto. La pischella era una mezza nera, una mulatta, meticcio etnico del Sudamerica, Venezuela da parte di padre, Cile da parte materna. Comunque, una bella mattina, tutta quanta la banda di aoristi e declinazioni ancora strombettanti nelle orecchie, a ricrezione scoccata, ci fiondiamo, io e ’sta ghenga di poveri idioti, nel cortile della scuola; insomma varchiamo gli avamposti delineati dal filo sottile di querce e le piazziamo a botte bum bum di fionda un gran bel servizio d’acqua. Noi gli facciamo: «Oé volevamo vede’ se ti davi una sbiancata». Lei ci fa: «Vermi! Andate a fanculo, vermi!»
Questa poverina poi s’è infoscata finché non s’è chiuso il liceo, s’è incassata testa e corpo nel suo tacere, duro e privatissimo, e nel durare del triennio, fino alla licenza, non ha intrecciato gli occhi nei miei manco se le si fossero staccati dalla faccia per caderle a peso morto su di me. Noi era un bucare i varchi tra gli umani solo pigliandoli appena per la superficie, non ci si capacitava di spararsi dritto nello spirito dell’altro. Quel piccolo me versione farabutto beh sì gli avrei segato le ginocchia.
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Poi è successo che per una nera io c’ho sciolto il cuore. Yvonne, per l’appunto. Io sono un fanatico di viaggi. C’ho la fissa per i paesi. Toh, piglio il volo per il Kenya, per appagare quella mia voglia da Marco Polo, la incontro e ci mettiamo assieme. Kata, l’abbiamo concepita liggiù nei deserti. Ecco perché dico che poi io ce l’ho fatta a spararmi nello spirito dell’Uomo. Posso dirlo, che è stato un colpo di fulmine. Non ci credevo mica prima io ai colpi di fulmine. Li dileggiavo io i colpi di fulmine. Mi son dovuto evidentemente ricredere. Poi abbiamo pigliato baracca e baracchini e l’ho portata la baracca qui a Testaccio. Il problema è che tutto l’ambaradan non è mai piaciuto a mia madre. Yvonne non piace a mia madre. A casa un marcantonio di giardiniere ci tosa l’erba tutti i weekend. Mamma è convinta che Yvonne c’abbia una tresca sottobanco assieme a lui. Io le dico: «Ma’ ma te pare che non me ne accorgo». «Poi io son tipo che le scorgo tutte le magagne», le dico. Dico: «Sono o no un gran figlio de una mignotta». Rido. Lei dice: «Le negre c’hanno la voglia che è tre volte il loro negro continente». Mi fa: «Occhio!»
Una mattina a pranzo però esagera di brutto. Picchietta sul tavolo la punta del coltello guardando Yvonne dritto per dritto, per dirle guarda se fili storta che finaccia che ti causi guarda che a me poco mi frega della tua sporca gravidanza, mio figlio è mio figlio, mio solo mio, nei deserti me ne strafotto come si usa, ma qui a Testaccio gli sgarri costano e pure cari. E tutte ’ste robe qui. Io non ne posso più. Le faccio: «Filistea! Fottiti!» «Ne hai di tempo per scontarti in pace le tue porcherie. Sottoterra ancora ti dilaniano, le tue porcherie.» Le dico: «Si sconfina nell’indegno». Mi correggo: «Ci navighiamo già bello che dentro».
Yvonne, il trambusto le tedia l’umore, le guasta il bello del viso e gli occhi, paonazza in volto, rigurgita il boccone, si massaggia il pancino, dice: «Calma, Calma», lo dice riempiendo ogni suono d’inflessione francese, quel tipico sbrodolarsi il canto nella bocca che sempre per altro mi schizza l’ormone in su, e s’aiuta a gesti per compensare il difetto di lingua. Sa tre parole in croce Yvonne, ma lascia intendere d’aver capito ogni preciso insulto. Le dico: «Amore, giù stai giù». Le dico: «Tranquilla amore. Non ti scaldare amore». A mia madre dico: «Contenta eh, bagascia, far così della tua prima nipote». Mia madre: «Pigliati la tua negra e andatevene fuori dalle palle!»
Non c’ho visto più. Mi dico sì, molto piacere mondo, eccolo il mostro di Testaccio, io ho ucciso, ci vuol del fegato sapete, ho accoppato mia mamma. Mi frugo in saccoccia, piglio la prima cosa che mi viene alle dita e la lapido a colpi di portafoglio. Le carte le scoppiano in pieno naso. Una bella botta. Le carte svolazzano tutte nella cucina, si infrattano per l’aria e nei buchi degli stipetti, planano. Le dico: «Bella mamma che sei». «Complimenti», dico. «Un figlio c’avevi, e mo’ non ce l’hai più.» Mia mamma la vedo che le sale il pianto in faccia, c’ha il rosso nelle guance, sembra reduce da una bella ciucca, sembra abbia passato l’ultimo decennio a bersi drink, e una lacrima sgoccia pure a terra, non dice più nulla, basta, zitta e muta si chiava la sua lingua bagnata nello stomaco.
Faccio segno a Yvonne: «Amore mio». Le dico: «Andiamo via!»
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Una bella culla in legno pregiato. Decidiamo per una bella culla in legno pregiato, quando a Yvonne si rompono le acque.
Mi dice Yvonne che l’ha vista appena entrata, che ha sentito l’attrazione, è lei, c’est elle, compriamo quella, culla della migliore qualità. Mi dice Yvonne che ci starebbe bene pure un fioccone, un bel fioccone rosa da appendere fuori al portone. Dico va bene certo, vada per il bel fioccone. Dico alla commessa: «C’avete bei fiocconi rosa? Lei dice: «Certo! Un bel fioccone per una bella femminuccia». Yvonne si dà un paio di carezze al pancione, dice: «Oui, c’est una femme!» La commessa piglia un fioccone rosa, noi diciamo ma non è che ce l’avrebbe ancora per caso più grande il fioccone e magari anche più rosa, insomma una bella figlia femme non è robetta da tutti i giorni. Lei fruga in magazzino e ci butta sulla cassa un fioccone che avrebbe potuto fungere da foulard. Dice: «Signori, più grande e più rosa di così non ne fanno». Allora dico: «Certo è perfetto, lo aggiunga alla culla».
Yvonne le pigliano le doglie. Si preme la pancia, urla e dice che le tira tutto.
Dico: «Yvonne!» Lei mi spara un sorrisone di gioia, e allora mi tranquillizzo l’anima. Yvonne: «C’est Kata!» Allora alla commessa le faccio di chiamare di corsa un’autoambulanza, che si dia una sbrigata, che insomma stiamo agli sgoccioli. È lì che inizia a crollarmi sul cuore la responsabilità del diventare padre. La commessa lascia culle e fiocconi, si sbriga a chiamare i paramedici.
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Mia figlia l’ho saputa al mondo che era già un’anima. L’aorta non ballava al giusto ritmo. È durata sì e no un dieci battiti.
C’era un bel baccano di infermiere, tutte per Yvonne. Il dottore è tornato: c’aveva stavolta un faccione bello serio. C’aveva gli occhi a terra. «Dottore, allora?» Ho detto: «È ora? C’è da spingere?» Il dottore mi ha fissato e ha atteso, evidente, il tempo che ci vuole per tirare dal cilindro le parole giuste, le parole ardite, quelle che solo uno che ne ha macinati di manuali grossi così sa trovarti. M’è sbattuta negli occhi una mano frullante in fondo al corridoio. Reclamava, la mano, attenzioni. L’aria in mezzo a tutti quei camici bianchicci ha fatto Giacomo Giacomo. Poi la mano s’è incamminata. Ho detto: «Dottore?» Ho detto: «Così mi preoccupa!» Il cuore lui s’era scambiato di posto col cervello, però lo sbattere non ostruiva il pensare, l’immaginare, il temere. La mano veniva incontro. «Insomma dottore vuole dirmi il diavolo che sta succedendo?» Il dottore: «Signor Lamonica!» Ha detto: «Non tutti i cuori battono. Mi spiace tanto».
Però mia figlia dentro di me s’era comunque già fatta tutta un suo viaggio. Aveva pigliato non so quanti transatlantici mia figlia dentro di me. Me la vedevo così concreta sotto il naso, dormicchiante nel legno pregiato della culla, me la vedevo a dirmi in faccia il primo papà, e che magari me l’avrebbe detto in francese, tu es mon pere préféré; me la vedevo sotto l’ala che l’aprivo ai paesi, alle cose e alla vita; e me la vedevo sotto gli occhi quando le avrei detto che non m’importava un’acca se avesse formato il suo studiare al ginnasio, che però avrei segato le ginocchia a chiunque le avesse piazzato bombe d’acqua; e che l’avrei sì sostenuta e le avrei concesso perdono se un bel giorno avesse deciso di lapidare Yvonne a portafogliate perché le mamme alle volte ci impiegano un impegno marcio a farti sbalinare; e che dopotutto non mi fregava un fico secco di tutto ciò che non fosse lei, e che lei era in fondo libera di volare sui mari e sul filo di qualunque vento, e di perdersi dovunque nella vita, che tanto nella vita ci si infratta dovunque e comunque; e poi me la sognavo già con l’alloro sulla testa, mi vedevo i nipoti zompettarci sottobraccio a me e Yvonne. Non c’avrebbe creduto una testa.
Il dottore ha girato i tacchi e s’è portato quel camice saltellante, quel maledetto camice s’è l’è portato a sciogliersi lontano dalla mia groppa. La mano giungendo s’è tramutata in faccia. Pioveva di sudore. Mia mamma m’è scivolata nel collo, e ha detto: «Non fare il diavolo con tua madre. Dio mi maledica! Allora, è nata? E Yvonne?» Ha detto: «Yvonne, come sta?»