Commento 1 e Commento 2
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Howth, County Dublin, 1898
Venerdì, 25 novembre, S. Caterina d’Alessandria.
Gli orologi batterono l’ora alle sue spalle, proprio mentre entrava nel salone. Máire sussultò, teiera e tazze si rovesciarono. Gemette, posando il vassoio a terra. Si chinò e si affrettò ad asciugare prima che il tappeto si macchiasse. I rintocchi scoccarono nel corridoio, e presto si spensero.
— Mi spiace m’lady.
— Cara, è tutto a posto.
Lady Aoife Carew le toccò un braccio. Máire sollevò lo sguardo, incontrò quello della sua signora: sorrideva, ma con gli occhi lucidi e le rughe tremanti. Máire singhiozzò. Si trattenne. Sir James Carew fumava, impassibile, osservando fuori dalla finestra: l’erta della scogliera di Thormanby Hill a poche iarde, e il faro di Baily con il suo occhieggiare intermittente, più in basso, che illuminava di lampi il mare grigio della baia di Dublino.
— È tutto a posto —, continuò lady Carew, e il tocco divenne una carezza sulla divisa di velluto nero. Máire poté sentire il rosario della sua signora sulla cicatrice. Si asciugò rapidamente gli occhi.
— Chiedo scusa. Vado a preparare altro tè, m’lady.
— Sì, cara. Stai tranquilla.
Máire annuì, sistemò le tazze sul vassoio, e si sollevò. Mentre usciva dalla stanza vide Sir Carew passarsi una mano sulla fronte, espirando dalla sua pipa, e Lady Carew rimettersi a sedere, aggiustando il crespo nero della gonna e dei polsini, il rosario attorno alle dita.
Era nel corridoio, in quel lungo andito male illuminato sulle cui pareti spiccavano le pendole della collezione del suo signore. Decine e decine, appese o appoggiate alla pietra di Casa Carew, tutte a tema religioso. Sir James amava parlarne. Almeno, lo aveva fatto fino all’anno passato.
Tic. Toc. Máire camminò accanto a un orologio a torre in mogano e noce del Settecento, italiano, la cui anta recava scolpito un crocifisso. Poco più avanti un altro, spagnolo, i cui smalti dipinti della Via Crucis ruotavano in una sfera, indipendenti da ore e minuti.
Tic. Toc. Gli ingranaggi, le catene, gli scappamenti: echi metallici tra pesi dorati, quadranti con numeri romani, lancette di ferro battuto sincronizzate in rigida preghiera. Tic. Toc.
Máire superò l’arco della sala da pranzo. Poco prima della porta della cucina, subito accanto alla rampa che conduceva ai piani superiori, il suo sguardo si soffermò sull’ultimo orologio. Un Facini, veneziano, grande quanto un carillon, rifinito d’oro e d’argento, vecchio più d’un secolo, con una Natività rappresentata sopra la mostra. Emetteva un ticchettio leggero e quasi impercettibile tra gli altri.
Ave Maria, gratia plena.
Un’immagine fugace, occhi azzurri dietro gli ingranaggi, al di là delle pendole… Le cicatrici sul braccio e sull’addome bruciarono per un istante. Strinse i denti, scosse la testa e affrettò il passo.
***
— No! — urlò Sir Carew, — Mi rifiuto!Lady Carew piangeva seduta sulla sua poltroncina, con le mani a coprirle gli occhi sotto un velo di crespo nero.
— Era un orco, un diavolo! Non porterò il lutto per un diavolo!
Colpì con un manrovescio il vaso sopra il tavolino. Clangore d’argenteria. L’acqua si riversò sul tappeto, i gladioli si sparsero a terra. Lady Carew gemette.
— Quello non era nostro figlio. QUELLO NON ERA NOSTRO FIGLIO!
Máire boccheggiò, sveglia di colpo, madida di sudore.
La cicatrice sull’addome le doleva. Il rumore della pioggia si sovrapponeva al ticchettio delle pendole. Afferrò la bugia e accese a tentoni la candela: la luce tremolò nella mansarda. Lassù l’unica sua compagnia erano i letti vuoti della servitù che aveva abbandonato la Casa. Dimenticata in un angolo, una culla che non volle guardare. Iniziò a piangere, ma soffocò i singulti. Le venne la nausea.
Sentì il bisogno di bere. Terse le lacrime, e percorse l’assito a passi misurati, smorzando ogni scricchiolio per non svegliare i suoi padroni: loro, che un tempo avevano il sonno così pesante, ora si destavano per un nonnulla. Scendeva le scale, lo scroscio della pioggia si attutiva a ogni gradino, mentre a poco a poco il battito dentellato degli orologi si accentuava. Tic. Toc. Tic. Toc.
Fu infine nel corridoio. Aprì la porta della cucina, posò la candela sul tavolo, e con il mestolo bevve acqua dal secchio. Una, due volte, con avidità. La nausea si calmò. Si asciugò sulla manica, raccolse con un gesto i lunghi capelli rossi. Riprese il lume, e uscì richiudendo la porta. Tic. Toc. Mentre risaliva il primo scalino, un raggio di luce sfarfallò sulla doratura del Facini: il riflesso rivelò occhi azzurri, capelli biondo cenere, un sorriso beffardo dietro una delle pendole a torre.
Máire trasalì, lo stomaco si chiuse. Corse su per la rampa, incurante del rumore dei suoi passi. Gli orologi batterono l’ora.
***
Sabato, 26 novembre, S. Corrado di Costanza.Il sole basso e livido si rifrangeva come spuma sul Mare d’Irlanda prima di illuminare il salone. Sir James and Lady Aoife sedevano al tavolino, intenti a consumare pudding, uova e fagioli.
— Sei pallida, mia cara —, disse la sua signora.
— Non ho dormito bene, m’lady.
— Perché non prendi una giornata di riposo? Potresti andare a trovare i tuoi. Non stanno a Kilbarrack?
— Grazie, m’lady. Ma starò meglio dopo la colazione.
— Sicura? Hai anche gli occhi gonfi.
— Sì, m’lady, sono stati solo… incubi, ecco.
— Aoife ha ragione —, intervenne Sir Carew, con aria severa. — Non devi preoccuparti per noi. Per un giorno ce la possiamo cavare.
Lady Aoife annuì con convinzione nel suo abito nero. Máire tacque. In realtà preferiva evitare la compassione moralista di sua madre, l’ira bigotta di suo padre, e le chiacchiere della gente che avrebbe incontrato per strada. Ma le parve scortese ribattere ancora.
— È deciso, dunque —, Sir James si pulì le labbra col tovagliolo. — Portaci il tè, dopo sarai libera.
Máire fece una riverenza. Prese i coperti, li posò sul vassoio, e si diresse in cucina.
Tic. Toc. Gli orologi nel lungo corridoio scandivano il tempo al ritmo di un De profundis. Le barre dei pendoli recitavano quel salmo con severità, mentre lei camminava tra le loro ombre, tra le casse di legno laccato, cercando di non far loro caso.
Tic. Toc.
Benedicta tu in mulieribus.
Et benedictus fructus ventris tui.
È l’Agnello che toglie il peccato del mondo.
Io lo risusciterò nell’ultimo giorno, così è scritto.
Si fermò un istante a esaminare l’orologio presso la rampa. La Natività era incisa in argento, con i vestiti e le finiture in oro. Il volto di Maria era addolorato, e piangeva piccole lacrime di sangue. Dopo quella notte Máire non era riuscita a lavare via tutte le macchie.
— È un Facini, padre mio. Un pensiero, anche in onore della nostra Máire.
Il Reverendo Gabriel le sorrise, dando le spalle alla finestra sulla baia. Gli occhi azzurri brillavano di luce inquieta. Lei arrossì, mentre sistemava tazze e cucchiaini sul vassoio.
— È meraviglioso. Dev’essere costato una fortuna.
— Un dono del vescovo, in realtà, per i miei servizi. L’avevo notato nella curia e ho pensato a voi.
D’un tratto, un lampo di occhi azzurri, alla sua destra, dietro le sfere e gli ingranaggi di bronzo, contro il muro. Un abito nero.
Il cuore mancò un battito. Guardò meglio, ma la visione era svanita.
***
Fuori dalla misera finestra si scorgeva il cimitero, dietro alle rovine di Mariners Church. Nella brughiera oltre la strada, più a destra, si intuivano i suoni e le voci di ragazzini che giocavano a hurling. A sinistra si aprivano le acque della baia e le basse rive di Bull Island. La luce al di là delle nubi iniziava a scemare.Seduta a quel tavolo grezzo, cercava conforto in un paesaggio che un tempo apparteneva anche a lei.
— Non ringrazi il Signore abbastanza, ecco cos’è —, pontificò sua madre. — E Lui ti manda incubi. Tuo padre avrebbe dovuto spedirti a un istituto, senza tante storie.
— Ma non l’ha fatto perché non aveva le palle.
Sua madre si segnò.
— Una vita di preghiera ti avrebbe tolto di bocca certe oscenità. È solo preoccupato per te.
— Strano modo di dimostrarlo.
Rumori di un carretto appoggiato contro il muro della casa. Un uomo fischiettava una melodia popolare. Passi sulla rena. L’uscio si aprì, ed entrò suo padre: tozzo, barbuto, gli occhi chiari e sorridenti. Non appena la vide, il sorriso si spense e la musica si interruppe.
Istanti di silenzio imbarazzato.
— Bene, bene, la signora si degna di uscire dal castello —, scimmiottò una riverenza. Máire si alzò.
— E nel castello torna immediatamente, dato che non è più gradita.
— La figlia è sempre gradita. La sgualdrina, no. Grazie al cielo, Nostro Signore è giusto.
— Pa’, ma’, arrivederci —, accennò un inchino e uscì.
Suo padre stava per ribattere. Máire vide sua madre posargli una mano sulla spalla. Udì borbottare, e la porta si richiuse.
Si incamminò verso Casa Carew, trattenendo le lacrime.
Il tramonto si perdeva dietro di lei, mentre il cielo oltre Thormanby Hill si incupiva. Sulla strada in mezzo alla campagna di Kilbarrack incrociò diverse persone, ma nessuno la salutò. I più la guardavano appena e mormoravano insulti alle sue spalle. L’appellativo più cortese era maddalena. Un vecchio la chiamò “la rovina dei Carew”. Ebbe un conato di vomito. Nel vento fresco e umido della sera la cicatrice sul braccio tornò a dolerle.
Erano seduti nel salone, il più ricco che avesse mai visto. Il fuoco di quella sera di gennaio era acceso, confortevole.
— Come ti chiami? — chiese Sir James.
— Máire O’Kelly, signore.
— È “sir” o “my Lord”. Tuo padre è Michael O’Kelly, di Kilbarrack?
— Sì, sign… m’lord.
— Cosa sai fare?
— Cucinare e pulire, m’lord.
— Per quale motivo hai chiesto un colloquio con noi? È Conor che si occupa di queste faccende.
— Ecco… Padre Gabriel me l’ha suggerito. M’lord.
— Sei sposata, Máire?
— No, m’lord.
— Ma aspetti un figlio.
Máire arrossì e abbassò il capo. Davanti a sé vide le mani di Lady Aoife accarezzare quelle del marito. Forse si stavano guardando, ma lei non osò alzare gli occhi per confermarlo. Si udiva solo lo scoppiettare nel camino, e quell’inconsueto, ininterrotto ticchettio delle pendole. Le mani della coppia si strinsero l’una nell’altra.
— Come hai intenzione di chiamare il bambino? — chiese Lady Aoife.
— Se è femmina non so, m’lady. Se è maschio, Íosa.
Infine Sir James sospirò.
— In fondo, anche San Giuseppe prese con sé la Vergine Maria già gravida. Vieni domattina, Conor ti spiegherà cosa fare.
Una fresca pioviggine le bagnava appena il vestito. Era quasi buio quando giunse al bivio di Sutton Cross. Iniziò a percorrere Thormanby Road, tra le brughiere, la strada più veloce per Casa Carew. Poi, in lontananza, scorse una figura nell’erica: abito talare, colletto bianco, cappello romano, la tesa che nascondeva il volto nel crepuscolo. Máire non attese che quell’ombra sollevasse il capo, sapeva già chi avrebbe visto. Corse indietro, e prese la strada che passava per il paese.
Sancta Maria, mater Dei.
Ora pro nobis peccatoribus, nunc et in hora mortis nostrae.
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna, così è scritto.
***
Girò la chiave e aprì la porta d’ingresso. Tutto era oscurità.La pioggia cadeva fine e silenziosa. Tic. Toc. L’unico suono era il Kyrie meccanico recitato dalle pendole.
— M’lady? M’lord? Sono tornata —, chiamò Máire.
Nessuna risposta.
Entrò e richiuse. Le tende del salone non erano accostate, e dall’esterno penetrava la tenue luce notturna riflessa dalle nubi. Nel camino le braci erano spente.
— M’lady? M’lord?
Prese un candeliere dal salone, ma non trovò nulla per accenderlo. Tornò nel corridoio.
Tic. Toc. Figure di Cristo, intagli di personaggi biblici, smalti con le effigi dei santi: le tenebre erano un sudario, e di quelle pie scene non restavano che smorfie vaghe, grottesche, irreali, accompagnate da una litania di ruote dentate.
Máire camminava con prudenza, orientandosi nel buio. Poi un’ombra comparve alle sue spalle, eclissando la larva di luce che proveniva dal salone. Si voltò.
Un profilo nero, la tonaca, gli occhi che appena lampeggiavano d’azzurro, il cappello a larga tesa sopra i lunghi capelli.
Máire sussultò, arretrò, brancolò. Inciampò contro qualcosa, lasciò cadere il candelabro, rovinò all’indietro, batté il capo. Sotto di lei, due corpi. Sangue? Tutto si confondeva. Udì, ovattata, la voce del Reverendo Gabriel Carew.
— Et ingressus ad eam dixit: Ave, gratia plena, Dominus tecum.
La figura si avvicinò, si chinò su di lei. Occhi azzurri. Frasi mormorate all’orecchio, che lei non intese.
Eppure Padre Gabriel era stato condannato. E impiccato.
Gli orologi scoccarono la mezzanotte. Máire perse i sensi.
Si svegliò di soprassalto. Credette di aver avvertito un rumore nel sonno.
Si sollevò sul letto.
Il consueto ticchettio degli orologi, due piani più in basso. Il respiro profondo delle domestiche addormentate, nei letti lì accanto. La pioggia che batteva leggera sul tetto. Nulla era fuori posto.
Poi si voltò verso la culla. Non percepiva il respiro di Íosa.
Afferrò la candela, l’accese. Il cuore diede un balzo: il bambino non c’era.
Udì uno strillo, infantile, lontano. Un pianto acuto, poi un colpo.
Íosa!
Máire si gettò fuori dal letto, candela in mano, si precipitò giù per le scale. Udiva una voce, al pianterreno, dissennata come una messa infernale.
— Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno! Così è scritto! Giovanni, sei, cinquantaquattro!
Giunse al corridoio. Gabriel schiacciava Íosa contro il muro, tra gli orologi. La mano affondava un coltello nel corpicino. Sangue ovunque. Macchie sulla pelle, sulla stoffa, sulla pietra, sul legno, sull’oro e sull’argento.
Máire gli si lanciò contro. Urlò.
Gabriel lasciò cadere Íosa come una bambola rotta, respinse il suo assalto con un fendente. Il braccio bruciò, il sangue colò sulla veste da notte.
— Ave, o piena di grazia! Il Signore è con te! — gridò Gabriel, e le cacciò il coltello nell’addome.
Una fitta lancinante. Il respiro le sfuggì. Un fiotto caldo sgorgò dalla ferita. Vacillò e cadde.
Tic. Toc.
— Il frutto del tuo ventre è benedetto! — ruggì Gabriel, sollevando Íosa esanime per un polso. — È l’Agnello che toglie il peccato del mondo. Così è scritto! Chi mangia la sua carne e beve il suo sangue avrà la vita eterna!
Máire cercò di sollevarsi, ma la vista le si offuscava. Recitando l’Ave Maria, Gabriel scaraventò Íosa contro il muro. Con il coltello lo lacerò, con i denti ne strappò le carni.
Máire stava ormai perdendo i sensi. Vide il suo amore diventar frattaglie, quella parte di sé fatta a brani come rognone.
Gente che scendeva dalle scale.
— Infame! Maledetto! Che stai facendo?
La voce di Sir Carew tuonava, ma distante come un temporale sulle coste d’Inghilterra.
Poi il buio.
***
Domenica, 27 novembre, Prima d’Avvento.Tic. Toc. Tic. Toc.
Máire si riebbe, accarezzata dai riflessi dell’alba che si insinuavano dalle finestre del salone. Il capo le doleva.
Poi il ricordo di quella visione: si sollevò di scatto. Guardò intorno.
Sotto di lei, Sir James con la pipa ancora in mano, e Lady Aoife nella sua veste di crespo nero. Gli occhi sbarrati, sgozzati come maiali. Sangue secco sul pavimento, sui muri, sulle pendole che, inesorabili, cantavano il Requiem aeternam.
Strisciò all’indietro, gridò, il cuore le martellava. Vomitò. Si asciugò sulla manica, mentre gli occhi dardeggiavano per il corridoio, temendo una nuova apparizione di quel fantasma. La Natività del Fucini era interamente imbrattata. Come quella notte di oltre un anno fa.
Poi, nella sua testa, l’eco d'una voce nota, mormorata mentre lei stava perdendo conoscenza.
Ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno…
E l'angelo le disse: Non temere, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco concepirai un figlio e lo darai alla luce.
Máire, con un moto di nausea, passò la mano sul suo ventre.