.
Traccia: Percorso del mistero
.
Commento:viewtopic.php?p=55499#p55499
«Buongiorno, pigroni! Sono le sette e trenta e vi aspetta una giornata meravigliosa…»
Con la mano cerca a tentoni la radio sveglia, trova il tasto off e lo schiaccia come un insetto schifoso. Lo sa che non è colpa sua, quell’aggeggio fa soltanto il suo dovere: rompe i coglioni per farla arrivare puntuale al lavoro. Avesse sposato uno ricco, adesso ci sarebbe una cameriera col vassoio della colazione, pagata per farsi maltrattare e, di sicuro, con maggior soddisfazione reciproca. In fondo la dignità è solo questione di cifre.
Si tira a sedere sul letto, butta giù le gambe e si trascina fino in bagno.
Ha una faccia orrenda, ci vorranno minimo tre strati di correttore. E un bidone di caffè, si fosse ricordata di comprarlo.
Accasciata sullo sgabello in cucina, guarda la tazza vuota. Questa vita va riorganizzata dalle fondamenta.
In quel momento sente vibrare il cellulare: numero sconosciuto, trascina l’icona rossa verso l’alto. Non ha nessuna voglia di stare a sentire quella disgraziata del call center: «Ma almeno mi faccia dire, non ha ancora sentito …» Partirebbe subito il vaffanculo che darebbe l’impronta al resto della giornata. Non va bene.
Altra vibrazione, stesso numero, stesso vaffanculo in canna, icona rossa verso l’alto.
Scende dallo sgabello, prende la scatola dei croccantini e riempie la ciotola. «Ciccio, la pappa.» Scuote la ciotola, ma Ciccio non si vede. «Sei rimasto chiuso nell’armadio, eh?»
Non è rimasto chiuso, c’è morto dentro.
E qui succede una cosa strana. Dovrebbe sentire una stretta al cuore, sicuramente piangere, perché quella bestiola l’ha riempita di affetto senza darle alcun problema: niente strappi alle tende, niente graffi alla pelle del divano, solo coccole e fusa. Una lacrima, dopotutto se l’era guadagnata. E invece, a vederlo stecchito tra calzoni e magliette, sente una leggerezza strana, una sensazione di benessere inspiegabile.
Proprio in quel momento, il cellulare in cucina trilla, scampanella, trilla ancora, ma non l’aveva messo in vibro? Di nuovo quel numero. Piantala! Icona rossa, registro chiamate, blocca. Adesso puoi chiamarmi tutte le volte che vuoi.
Ed è allora che Ciccio appare. Le lancia un’occhiata strafottente e comincia a ingozzarsi come niente fosse.
«Ma tu non eri…?»
Crick Crok, mastica, ingoia, sbriciola e, ad ogni boccone, lei sente un pezzo di leggerezza che se ne va. Crick Crok.. La ciotola è vuota, e a lei è rimasto soltanto un cupo malessere. Che sta succedendo?
Niente, starà covando un’influenza.
In ufficio tutto come al solito: la Biancastri che sculetta con le fotocopie, il Marelli che le corre dietro. E Caterina che la squadra con la fronte aggrottata: «Ma chi era?»
«Chi era chi?»
«Quel tizio alto col cappotto nero. Si è chinato, ti ha bisbigliato qualcosa all’orecchio e se n’è andato.»
«Non è venuto nessun tizio col cappotto nero.»
«Abbiamo i nostri segretucci, eh?» fa Caterina con aria furbetta «Comunque bel tipo, magari un po’ tetro, ma decisamente affascinante.»
«Ti dico che non…» Non riesce a finire la frase perché il malessere di prima è tornato tale e quale, anzi peggio: le ha preso lo stomaco e glielo sta rovesciando come un calzino.
Corre in bagno tenendosi la bocca, scansa la Vannucci con una spallata, «Ma che modi!», riesce a franare sul lavandino e vomita. E poi vomita ancora. E ancora.
Esausta, apre il rubinetto e guarda il getto rimestare tutto lo schifo. Cos’è quella roba? Guarda ancora e non riesce a trattenere un urlo.
Esce di corsa, afferra giacca e borsa.
«Stai bene?»
«No, Caterina. Non sto bene per niente.»
Arriva a casa, non sa nemmeno lei come. «Vermi! Erano vermi!» dice con la voce arrochita dal panico. Cammina avanti e indietro, si torce le mani, suda freddo «Vermi!» urla e sente che sta per vomitare ancora.
In quel momento suonano alla porta, un trillo che la fa sobbalzare, non ricordava fosse così forte, ma almeno sembra aver placato la nausea.
Non aprire se non sai chi è. Dallo spioncino vede il faccione gommoso della signora Spinelli, con Ciccio in braccio. Visite inopportune, del gatto da lei, ma pure della Spinelli che adesso rischia una svomitazzata di benvenuto.
Abbozza un sorriso, ma già sa che le è venuto male. Apre. Pianerottolo deserto. Si sporge, sbircia le scale. «Signora Spinelli?» Nessuno. E Ciccio è in soggiorno che dorme sul divano.
Se è un’influenza, l’ha presa proprio brutta.
Un’altra scampanellata, un altro sobbalzo.
Ma stavolta, dallo spioncino, non vede la Spinelli né Ciccio né il vuoto del pianerottolo.
È una sagoma scura, imponente. Al posto del viso ha un teschio deforme sormontato da corna ritorte, orbite nere grosse come il palmo di una mano e, al centro, due braci rosse, scintillanti, che la stanno fissando.
Fa un balzo indietro perché quella Cosa la vede. Ma sei scema? Non può farlo, si chiama spioncino per questo. E invece sì, ne è certa, come fosse lì, a meno di un metro, come ce l’avesse davanti. Senza muro, senza porta, senza nessuna protezione tra lei e quella Cosa agghiacciante.
Resta immobile, trattiene il fiato, accosta l’orecchio alla porta. Nessun rumore, ma è lì, lo sente.
Dovresti guardare. No! Guarda, non puoi stare così per sempre! Allunga una mano e lentamente fa scivolare il coperchietto.
È ancora lì.
Vorrebbe scappare, urlare, ma non riesce a muoversi, è come impietrita con la faccia incollata alla porta.
La Cosa continua a fissarla con quelle braci rosse che le bucano il cuore. Poi, incredibilmente, scuote la testa, si stringe nelle le spalle e, come un telo mosso dal vento, ondeggia, si accartoccia e svanisce.
Se n’è andato. E lei non riesce a smettere di tremare.
Ha la bocca e la gola secca, manco avesse mangiato chili di sabbia.
Va in cucina. Acqua. No, meglio qualcosa di forte. Apre lo stipo, dovrebbe esserci ancora della Wodka, incauto acquisto, peggio dell’anticalcare. Meglio così, che almeno si porta via tutte queste paranoie idiote. Butta giù con una smorfia. Altro sorso, altra smorfia. Fa proprio schifo, però funziona.
Lo vedi che sei cretina? Basta un coglione mascherato e te la fai sotto.
Guarda fuori, s’è fatta notte. Strano, erano appena le dieci e mezza. Il tempo vola quando ci si diverte. Sorso, smorfia, la gola in fiamme, la stanza comincia a girare e, nello stomaco, una rissa tra di porcospini. Però meglio.
Barcolla fino in camera e frana sul letto. Dovrà pur finire questa giornata di merda.
«Buongiorno, pigroni! Sono le sette e trenta e vi aspetta una giornata meravigliosa…»
Si tira a sedere sul letto, butta giù le gambe e si trascina fino in bagno.
Tutto come ogni giorno. La sua faccia orrenda, il caffè che non ha comprato, il cellulare che vibra e l’icona rossa che scivola in alto per farlo tacere. Ma non lo aveva bloccato?
E poi l’ufficio. La Biancastri che sculetta con le fotocopie, il Marelli che le corre dietro. E Caterina che la squadra con la fronte aggrottata. Vita deliziosamente monotona, chissà che le era preso ieri.
«Tesoro, credo che tu abbia pestato qualcosa.»
Caterina ha ragione, c’è un fetore insopportabile, devono essere stati quelli coi cani, gliela farebbe mangiare, ai padroni non ai cani.
Va in bagno, toglie le scarpe e le guarda. Suole immacolate. Però il tanfo c’è.
Si annusa un braccio, un’ascella. Sì è lei, eppure ha fatto la doccia. Ma certo, è la camicetta sintetica. La toglie e mentre è con le braccia alzate, una manica sì e l’altra no, lo vede dallo specchio. Si gira di scatto, nessuno. Guarda ancora lo specchio. È lì, proprio alle sue spalle.
Lo stesso teschio deforme le stesse corna ritorte, le stesse orbite nere grosse come il palmo di una mano. La sta fissando con le due braci scintillanti e a lei si è fermato il cuore.
Chiude gli occhi, cerca di respirare.
Calmati. Con tutta quello che ti sei scolata, che ti aspettavi, la Fata Turchina? La prossima volta beviti qualcosa di meglio dell’anticalcare.
Apre un occhio solo. È ancora lì e, come l’altra volta, scuote la testa, ondeggia e si dissolve.
Allucinazione da stress, questo è. E, quanto all’odore, ha sentito dire che può influire anche sul ph della pelle e dunque sulla traspirazione. Certo, più che sudore è proprio puzza di morto, ma questo significa solo che è molto, ma molto stressata. C’è sempre una spiegazione logica.
Apre il rubinetto, una bella rinfrescata e tutto tornerà a posto. Mette una mano sotto il getto.
No, no, no!
Una alla volta, le unghie si staccano dalle dita, la pelle illividisce e comincia ad aprirsi lasciando vene e tendini scoperti.
Sto marcendo! Non riesce a staccare gli occhi dalla mano. Idiota, prima si muore, dopo ci si decompone. Sei morta tu?
Afferra un asciugamano e ce la fascia stretta, si riveste come può, esce dal bagno.
«Stai bene?»
«No, Caterina, non sto bene per niente.» Quella donna fa sempre domande cretine, sempre le stesse, si merita le stesse risposte cretine. Agguanta la giacca e la borsa. «Devo prendere qualche giorno di malattia.»
«Ti credo, hai una faccia…» Sapesse il resto.
A casa, getta le chiavi sul mobiletto dell’ingresso e guarda l’involto con la mano dentro. Ha paura ad aprirlo, ma deve.
Così vedrai che è tutto a posto, al massimo un po’ di eczema.
Certo, lo stress fa pure questo: puzza di morto ed eruzioni cutanee, niente di cui preoccuparsi.
Da qualche parte dovrebbe avere ancora la pomata che usò… quando? Strano, non se lo ricorda, pazienza.
Va in bagno, appoggia l’involto sul lavandino e cautamente comincia a svolgerlo.
Nessun dolore, bene. Un lembo dopo l’altro, lentamente, l’asciugamano è quasi tutto aperto. Niente macchie quindi niente secrezioni. Bene. Ultimo strato ed eccola: la sua bella manina intatta.
La guarda, ruota il polso, muove le dita. Non è successo niente.
Sorride, guarda lo specchio e la vede: la Cosa con gli occhi di brace è dietro di lei e scuote la testa.
«Cazzo guardi?» dice spavalda, tanto è un’allucinazione, hanno mai fatto del male le allucinazioni?
E in quel momento vede la mano rattrappirsi e le unghie uscire dalle dita come artigli.
«Non attacca, bello, sei solo stress!» Lo dice gridando, con la voce che vorrebbe essere ferma e invece esce così acuta che lo specchio comincia a vibrare e poi a frantumarsi. E allora lei si gira e lo guarda dritto in quel teschio di merda coi suoi puntini rossi, brutto cornuto. «Tu non esisti, hai capito? Non esisti!» urla e l’asciugamano sul lavandino prende fuoco. «Sei vero come una scoreggia dipinta!» L’accappatoio, la tenda della vasca, fuoco ovunque «Credi di farmi paura?» I flaconi sulle mensole, il lampadario, i vetri della finestra, tutto esplode in una cascata di schegge risucchiate dalle fiamme. «Sei patetico! Ridicolo!»
«Adesso basta!» tuona la Creatura mentre le braci scintillano e si dilatano nelle orbite del teschio. «Hai passato il segno!»
La sua voce è un boato che la scuote, le stringe la gola, affonda nella carne come fossero artigli di mille tigri inferocite. Lei annaspa, boccheggia, sente il corpo sollevarsi. «Lasciami!» urla «Così mi uccidi!»
A quelle parole la forza che la teneva a mezz’aria la scaraventa a terra «Non dire idiozie!» ruggisce «Tu non puoi morire!»
All’improvviso silenzio, tutto sembra essersi placato.
Lei si sente stordita e, ancora una volta, si stupisce di non provare alcun dolore.
Dovrebbe essere ferita, ustionata e, dopo quel tonfo, pure fratturata. Invece niente e, a dirla tutta, si sente… bene!
Si aggrappa al lavandino, si alza, si siede sul bordo della vasca.
«Non imparerai mai, vero Lilith?» dice la Creatura.
«Cosa?»
«Il rispetto.» La voce non ruggisce più, le braci sembrano affievolite.
Lei lo guarda e, a poco a poco, nella sua testa la nebbia si dirada.
Non può crederci: «Papà?»
Comincia ricordare. Comincia a capire in che guaio s’è cacciata.
Accanto alla Creatura appare uno scranno di velluto nero e quella si siede «Sparisci, non rispondi al telefono, ti mando segnali e messaggi per farti ragionare, ma tu niente.» Sospira e l’aria che esce dal teschio incenerisce una piantina scampata all’incendio. «Mi hai persino costretto a venire a cercarti a casa.»
«Scusa, non credevo…»
«Ho dovuto scomodare la Spinelli e Ciccio, che nemmeno voleva.»
«Pure il gatto?»
Manco fosse stato chiamato, quello arriva, prende la mira e va ad accoccolarsi sulle ginocchia della Creatura, guarda Lilith e le soffia contro risentito.
«È che non avevo proprio capito, e poi, alla fine, che avrò fatto mai?»
«E certo, perché la signorina vuol essere lasciata in pace, vero? Ha i suoi percorsi, le sue esperienze e nessuno ci deve mettere bocca.»
«Ma no, è che…»
«Sei entrata nella centrale operativa e hai manomesso il sistema, Lilith. È una cosa gravissima, te ne rendi conto?»
Se ne rende conto e ricorda tutto come fosse ieri. I corridoi, gli ascensori, il sibilo delle paratie che si aprivano, la sala controllo, la consolle. E il tasto verde che lampeggiava. Cancella dati.
È stato un attimo.
«Credevi davvero che bastasse un click?»
Lei abbassa lo sguardo. Si sente un’idiota.
«Cento anni, Lilith. Ti sei presa una bella vacanza.»
«Ero stanca!» La voce le trema, vorrebbe piangere, se solo potesse. «Immensamente stanca» dice in un soffio.
«Bastava chiedere. Invece no, come al solito hai voluto fare di testa tua.»
«Mi spiace.»
«Lo credo bene. Abbiamo sollevato dipendenti più esperti di te per molto meno.»
«Sollevato?»
«Non far finta di non capire. Fai torto alla tua intelligenza e alla mia.»
Ma certo, domanda stupida: «Putrefazione, decomposizione, annullamento completo della configurazione temporanea.»
«Esattamente.»
Cancella dati, cancella memoria, e aveva pure istallato la ripetizione ciclica dell’operazione, imbecille che non è altro, si prenderebbe a frustate da sola.
L’ha fatta davvero grossa, dovessero sollevarla, se l’è meritato. Tutto s’è meritato.
«Il processo era già stato avviato.» dice la Creatura.
«Me ne sono accorta.»
«Te ne sei accorta, ma non hai fatto niente per rimediare.»
E come potevo? Non ricordavo e quindi non capivo. Vorrebbe dirlo, spiegare, giustificare, mendicare indulgenza.
Disonorevole, oltre che inutile. E allora alza la testa, drizza la schiena come chi è pronto a pagare i suoi errori.
Pentimento e fierezza, serviranno a poco ormai, ma almeno uno straccio di dignità.
«Dicevo, il processo era stato già avviato, ma ho pensato che…»
Cosa, cosa hai pensato?
Ottomila anni, è ancora giovane, ha sbagliato certo, ma non può finire così. Non può.
Schiena eretta, testa alta e taci!
«Ho pensato che meritassi una seconda chance e sono intervenuto.»
«Immagino di doverti ringraziare» cerca di dirlo con la voce ferma. La voce di un soldato non trema.
«Non occorre, le chiacchiere servono a poco. Dovrai invece dimostrare che ne è valsa la pena. Cento anni di assenteismo, cento anime.»
Sembra fattibile: «Stavolta non ti deluderò.»
«Staremo a vedere. Hai tempo ventiquattr’ore.»
Sembra meno fattibile.
100 anime. Dove trovarle? Un luogo affollato, un cinema, un treno… Pensa, pensa, fatti venire un’idea.
È domenica, la limousine infiocchettata di bianco si ferma davanti alla chiesa.
La sposa è bellissima.
Le anime in area consacrata valgono doppio. Cinquanta e ti levi il pensiero. Forza, Lilith, datti da fare. Come si dice? Tempus fugit.
Si frega le mani e guarda lo sfavillio che finisce a terra. È in splendida forma. Sorride e trotterella verso il sagrato.
L’abito di seta accarezza il marciapiede, nessuno noterebbe i suoi zoccoletti di capra, né le due escrescenze acuminate tra i riccioli neri.
La Range Rover arriva strombazzando dal fondo del viale.
È il testimone con lo sposo che, spencolato dal finestrino, agita il cappello: «Eva, ti amo!» grida ridendo.
Ha fatto tardi, il coglione. Chissà se è riuscito a nascondere i segni sul collo che gli ha lasciato l’altra. D’altra parte, la sposa è di quattro mesi, una bella femminuccia, tale e quale al cognato, dovrebbe lasciar correre. Se solo ne avesse il tempo.
Lilith si ferma al centro alla strada. Fissa l’auto con i suoi grandi occhi vuoti, vuoti come le orbite di un teschio, ma con una scintilla al centro, rossa e calda. Calda come l’Inferno.
L’auto sbanda, fa una brusca sterzata e finisce proprio in mezzo alla folla.
Ne ha falciati almeno quattro e sono appena le undici.
È un buon inizio.