[TRIGGER WARNING: La seguente storia parla di suicidio]
Il piccolo segreto
La morte ha una mano sulla nostra spalla e porta un orologio al polso, o almeno così dice qualcuno. Però non lo guarda mai, quell’orologio.
Mai.
Non le serve guardarlo. Non le serve sapere.
La morte è quello strano movimento che vediamo con la coda dell’occhio quando siamo distratti. È quando camminiamo in mezzo alla folla e pensiamo che qualcuno dall’altra parte della strada ci stia osservando. È quella sensazione di avere dimenticato qualcosa o qualcuno di importante.
La morte è la portinaia del mondo. Quando il suo orologio segnerà la mezzanotte non lo guarderà. Lei non lo guarda mai, non le serve guardarlo. Semplicemente saprà che è arrivata l’ora, e allora sarà compito suo spegnere la luce, chiudere la porta e restituire le chiavi quando lo spettacolo sarà finito.
Parlare con lei non è difficile.
A volte, quando si ha una motivazione più che valida, capita che conceda udienza, ma il più delle volte è semplicemente lei che si annoia di seguirci senza dire niente. Si ferma, e senza mai guardare il suo vecchio orologio consumato decide di dedicarci qualche secondo di quelli che ci restano.
Parlare con lei è più facile di quanto non si pensi. Aspetta solo che tu arrivi per parlarle. Lei è tutto il tempo del mondo.
Aspettare, per lei, non è un problema.
«TI STAVO ASPETTANDO» disse il bambino, guardandosi l’orologio al polso.
«Lo so» rispose, ma il bambino ignorò il suo saluto, continuando studiare il quadrante consumato.
Non aveva messo in conto che potesse scegliere un aspetto del genere, il che rese il loro incontro ancora più fuori dell’ordinario di quanto già non fosse.
«Quel bambino lo conosco» e sorrise, più che altro per cortesia.
«LO SO» rispose il piccoletto, staccando finalmente gli occhi dall’orologio. «HO PENSATO CHE QUESTO ASPETTO TI SAREBBE PIACIUTO.»
«Come mai proprio lui?»
«MI PREFERIVI CON LA FALCE E TUTTO IL RESTO?»
«No, ma mi aspettavo qualcosa di diverso.»
La piccola creatura si abbandonò ad un sorriso sincero, nostalgico.
«ME LO RICORDO QUEL BAMBINO.»
«Oh sì, anche io me lo ricordo. Pensava di poter afferrare le stelle e portarsele a casa senza che nessuno se ne accorgesse.»
«TUTTI LO ABBIAMO CREDUTO, AD UN CERTO PUNTO.»
Il bambino ci pensò un attimo.
«SE PREFERISCI POSSO SCEGLIERE UN ASPETTO DIVERSO» disse, e si piegò come un girasole al tramonto. I suoi margini svanirono nell’oscurità, e per un istante sembrò scomparire, ma presto tornò ad esistere, ed era un ragazzo poco più che ventenne.
«Quello invece è il bambino che ha compreso che le stelle non le poteva prendere, e che anche se ci riesci ne resti scottato.»
«ESATTO.»
«Ad essere sincero ti preferivo quando ti credevi un cacciatore di stelle.»
«LO SO, ANCHE IO. MA È NORMALE. È COSÌ CHE FUNZIONA» fu la sua sentenza. E si piegò ancora, diventando ancora nient’altro che un’ombra.
«POSSO SCEGLIERE ALTRE FORME, SE PREFERISCI.»
La voce parlò da al di là di tutto il creato, e per un istante diventò una voce di donna, una donna conosciuta e oramai scomparsa.
«No, rimani il bambino che voleva le stelle.»
«VA BENE.»
E il bambino tornò ad esistere.
«CHE DICI? ANDIAMO?» chiese il cacciatore di stelle.
«Hai paura di fare tardi?»
Il bambino guardò l’ora sul quadrante.
«NO, HO TUTTO IL TEMPO DI CUI HO BISOGNO, MA È MEGLIO AFFRETTARCI» fu il suo giudizio. Si avviò verso il cimitero, ma si fermò sulla soglia e si voltò.
«POTREI CHIEDERTI PERCHÉ VUOI FARLO, MA SO GIÀ CHE TU MI RISPONDERESTI CHE HAI LE TUE RAGIONI, E IO CONOSCO LE MIE.»
Si limitò a rispondere con un cenno del capo. Raggiunse il bambino con il suo orologio consumato ed insieme varcarono il cancello del cimitero.
La prima tomba era consumata dal tempo, invasa da muschio ed erbacce. Sembrava che nessuno fosse mai venuto a prendersene cura da che era stata posata.
«PRIMA TAPPA.»
Si chinò per cercare il nome del proprietario, ma le lettere intagliate sulla pietra erano oramai scomparse.
«Suppongo che dopo un po’ nemmeno i nomi servano a molto» fu il suo giudizio, ma il bambino era di un altro parere.
«DIPENDE DAI CASI. A VOLTE, PER QUALCUNO, UN NOME È TUTTO QUELLO CHE RESTA.»
Il bambino posò una manina sulla tomba. Era spettrale, quasi trasparente, ma afferrò comunque la lapide con forza.
Ci fu un singhiozzo dell’esistenza e da dietro il loculo comparve un signore sulla cinquantina.
«Chi è?» chiese, indicando con un cenno del capo il fantasma dietro alla tomba, ma si rese subito conto di quanto stupida fosse la domanda e si corresse all’istante. «Chi era?»
Dopo così tanto tempo anche la sua memoria iniziava a fare cilecca.
«AVEVA UN NOME, MA IL TEMPO L’HA CANCELLATO, COM’È NORMALE CHE SUCCEDA. ORA NON SE LO RICORDA NEMMENO LUI. PER TUTTI LORO È COSÌ.»
Ci pensò un attimo.
«PER QUASI TUTTI LORO» si corresse.
Si sforzò di decifrare quel nome scomparso da tempo, ma si arrese subito. Si alzò e guardò il fantasma negli occhi.
E il fantasma parlò.
«Una volta, tempo fa, ero ricco. Tanto ricco» disse lo spettro. «Avevo tante fabbriche, tante e più grandi di quanto tu possa immaginare. Ed ero ricco, schifosamente ricco.»
L’apparizione si guardò intorno, come per sincerarsi che nessun altro lo stesse ascoltando.
«Molti dicevano che le mie ricchezze erano state il frutto del patrimonio della mia famiglia e di alcuni investimenti andati particolarmente bene, ma i giornali che hanno parlato di me non potevano immaginare tutto quello che c’era dietro.»
Il fantasma decise che sì, era sicuro continuare a raccontare la sua storia.
«Traffici illeciti, collusione con persone non troppo raccomandabili, accordi con questo o quel politico. E ovviamente tanti tagli alle fabbriche, specialmente sulla sicurezza.»
Sospirò come se ancora gliene importasse qualcosa.
«Tutto era fantastico finché uno non ci rimase. Neanche lo conoscevo. Figurati se potevo sapere i nomi di tutti i miei dipendenti. Ma capii all’istante che ne avevo avuto abbastanza, che era il momento di farla finita» e mostrò le braccia.
Due solchi neri, grumosi, gli salivano dai polsi ai gomiti.
«Dici che è valsa la pena di attraversare il cancello del cimitero?» chiese al fantasma.
Il cercatore di stelle non disse niente. Si limitò ad aspettare la risposta dello spettro.
«Credo di non pentirmene, ma fanno ancora male» rispose quello, massaggiandosi i polsi. «Fanno ancora male, e spero che questo possa bastare.»
Il bambino staccò la manina dalla tomba e l’apparizione scomparve.
«VOGLIAMO CONTINUARE?» chiese guardando l’orologio, e proseguì verso la lapide successiva senza aspettare risposta.
La seconda tomba era più grande della precedente, una di quelle che di solito ospitano due persone. La toccò, e un altro fantasma apparve. Sembrava stesse nascondendo qualcosa dietro di sé.
«Sono scappato. Non ho paura di ammetterlo. Ma chi mi può giudicare? Voi la guerra non l’avete mai vista.» disse guardandoli negli occhi come se ne volesse avere la conferma.
«Mia moglie era stata tra le prime vittime, per cui invece che combattere ho preso mio figlio e siamo scappati. Non volevo che la seguisse. Siamo scappati nel mentre che i razzi piovevano. Mi ricordo che si tappava le orecchie.»
Sospirò.
«Confesso che un po’ lo invidiavo. Invidiavo la sua ingenuità, il suo pensare che bastasse non sentire perché tutto finisse. E se le stava tappando anche quando raggiungemmo la barca, mentre spingevo nella calca, cercando di essere tra i primi a salire. E una volta salpati il timoniere aveva provato a toccarlo, per cui mi sono opposto. Non volevo che sentisse altro male. Quello ce lo saremmo lasciati alle spalle, pensavo.»
Tentò di piangere, ma gli occhi erano troppo secchi, troppo morti per farlo.
«Un colpo e non sentì più niente, proprio come voleva quando si tappava le orecchie.»
Sembrò che qualcosa lo strattonasse da dietro la lapide.
«Il timoniere lo lanciò fuori bordo, giustificandosi dicendo che non c’era posto nella barca per i pesi morti. Io l’ho guardato affondare, e poi ho guardato il timoniere. Sapevo che non aveva senso, sapevo che sarei morto anche io, ma mi sono tuffato lo stesso.»
«Ne è valsa la pena? Sei contento di avere attraversato il cancello per raggiungere tuo figlio?» chiese, e ancora una volta il bambino che voleva le stelle non disse niente.
Il fantasma si accovacciò, raccolse il figlio da dietro la lapide e lo prese in braccio. Non doveva avere più di sette anni.
«Sì, ne è valsa la pena. Ora non sentiamo più niente» disse, e scomparvero senza che il bambino alzasse la mano dalla lapide.
«SI STA FACENDO TARDI» disse, guardando l’orologio al polso.
Alla tomba seguente comparve uno spettro così sciupato che era impossibile capire se in vita fosse stato un uomo o una donna.
«Dicevano che ero la creatura più bella mai esistita, ma per me non era abbastanza» disse l’apparizione, tremando come un fiammifero sottovento.
«Non ci credevo, per cui decisi di fare qualcosa. Volevo solo raggiungere quella perfezione che pensavano io fossi. Per cui smettere di mangiare fu il primo passo.»
Arrivò una folata di vento dal nulla, e per un istante il fantasma sembrò un soffio di fumo.
«E però continuavano a dirmi che una meraviglia come me non era mai esistita, ma per me non era ancora abbastanza» continuò. «Sapevo che sotto sotto non lo pensavano davvero.»
L’apparizione sembrò tentare di acquisire una forma comprensibile.
«Dicevano che mi stavo sciupando, che si preoccupavano per me, ma loro non potevano capire. Non potevano sapere che tutto quello che io volevo era diventare un’opera d’arte, al di là della droga e degli scandali, al di là delle fotografie, al di là delle copertine dei giornali, dei film e dei social» e si guardò le mani, niente più che due macchie chiare nelle tenebre.
«Volevo essere immortale come una statua, come un’idea, come una canzone, così che anche chi fosse venuto dopo si sarebbe ricordato di me.»
Il bambino cercò lo sguardo del fantasma, ma quello continuò come se gli altri due non esistessero, ipnotizzato com’era dal ricordo delle sue mani.
«È finita in una pozza di vomito. Hanno detto che forse era stata la droga, ma nessuno ha capito che lo stavo facendo per loro. Nessuno sapeva che il giorno dopo avrei avuto un’importante audizione. Nessuno poteva immaginare che lo stavo facendo per lasciare loro un’opera d’arte.»
Solo in quel momento, appena prima che ponesse la domanda, l’apparizione sembrò acquisire una forma umana. Una forma sciupata, morta, terribile, che li guardava con occhi supplicanti.
«Tu che vieni da oltre il cancello, e tu invece che ne sei la guardiana, ditemi una cosa: si ricordano di me?» e toccò la tomba. «Ditemi che è valsa la pena di attraversarlo.»
Non ebbero il tempo di rispondere. Un altro soffio di vento e il fantasma era scomparso.
Il bambino guardò di nuovo l’orologio.
«ANCORA UNA, L’ULTIMA, POI NON AVRÒ PIÙ TEMPO. MI SPIACE.»
«Non è un problema per me. Ho tutto il tempo del mondo.»
Arrivarono all’ultima tomba, e il fantasma era già lì ad aspettarli, e parlò senza che nessuno le avesse dato il permesso.
Era il fantasma di una donna.
«Ci conosciamo, e sai già perché l’ho fatto. Sai già la mia storia e tutto il resto.» disse. «Lo sai già, sennò non saresti qua.»
Si limitò ad annuire, rispondendole con un cenno del capo.
«Per cui sono io a chiedertelo: pensi che ne valga davvero la pena? Sei sicuro di volere attraversare il cancello? Per me?»
Ma prima che potesse rispondere lei alzò un dito per impedirglielo.
«Già sai la tua risposta, e la conosco anche io. Per cui non posso fare altro che dirti addio.»
E anche l’ultimo fantasma, l’unico che conosceva, scomparve.
«ALLORA, PENSI CHE VALGA LA PENA DI ATTRAVERSARE IL CANCELLO?» domandò il cacciatore di stelle, guardando l’orologio un’ultima volta. Le lancette erano ferme sulle dodici.
Mezzanotte.
L’altra figura rimase in silenzio, e nel mentre che pensava alla risposta, le tenebre iniziarono ad avvolgersi intorno ad essa, come richiamate da un suo muto comando, ammantandola del mantello nero che indossava fin da prima che esistesse la vita. Guardò il cielo albeggiare con occhi di ghiaccio, due fiamme spettrali in un vortice di pura oscurità. L’entità, più antica dell’esistenza stessa, l’unica che aveva il diritto di porre la parola “fine” ad ogni cosa, torreggiava sul cercatore di stelle.
«Questo devi dirmelo tu. È per questo che mi hai chiesto udienza. È per questo che mi hai chiesto di potere indossare il mio orologio.»
«SI, HAI RAGIONE» disse il bambino, e realizzò di stare sorridendo, ma non capì se fosse un sorriso di felicità o di sollievo.
E il cacciatore di stelle si slacciò l’orologio dal polso e lo restituì alla sua proprietaria, e nel toglierselo tornò ad essere tutto quello che era stato fino a poco tempo prima: il bambino che voleva afferrare le stelle, il ragazzo che aveva capito che farlo comportava delle conseguenze, quello che aveva perso quella voce di donna, e poi, infine, quello che aveva chiesto udienza a colei che è la fine di tutto per capire se valesse la pena attraversare l’ultimo cancello.
E anche lei tornò ad essere quello che era sempre stata: la fine. Semplicemente la fine.
Riprese il suo orologio e se lo sistemò al polso, dov’era sempre stato, dove sarebbe stato per sempre, o almeno finché la vita che le aveva chiesto udienza avrebbe voluto, finché l’universo stesso non sarebbe morto.
Quell’orologio che non guardava mai e il tempo che esso rappresentava non erano altro che concetti inventati da esseri come quello che aveva davanti, niente più che una bugia dorata di cui i viventi avevano terribilmente bisogno.
Esseri che vedeva solo come una serie infinità di possibilità, con tutte le incognite e le probabilità che la loro esistenza comporta.
Quell’orologio lo indossava più che altro per loro, perché a loro serviva credere che ne avesse uno e che lo scrutasse costantemente, contando i secondi che mancavano, in un conto alla rovescia che solamente lei sapeva, anche senza guardare le lancette.
Ma tutti, tutta la vita, tutta l’esistenza, tutto l’universo ignorava una cosa, un segreto che solamente lei sapeva.
«QUALUNQUE SIA LA TUA DECISIONE, SAPPI CHE NON POTRAI CAMBIARE IDEA» disse.
L’infinito di possibilità che era stato bambino, ragazzo e poi adulto, quell’adulto che aveva perso per sempre quella donna, quella creatura che aveva chiesto udienza alla morte e l’aveva ottenuta, che le aveva chiesto il permesso di poterne indossare i panni per qualche istante così capire se valesse la pena di attraversare l’ultimo cancello, si massaggiò il polso, come se portare quell’orologio glielo avesse intorpidito.
«Lo so bene» sospirò. «Lo so.»
«E QUINDI?»
«E quindi già lo sai. No?» e sorrise, battendosi il polso con l’indice.
E il cimitero scomparve, ed entrambi tornarono ad essere quello che erano sempre stati, ad esistere dove erano sempre esistiti.
E più tardi, quando i paramedici ricevettero la chiamata e sfondarono la porta dell’appartamento, riferirono alla centrale di averlo trovato sul pavimento, supino, coperto del suo stesso vomito, le braccia aperte in una crocefissione solitaria.
E i suoi amici dissero che l’aveva fatto perché non poteva più sopportare di stare da solo.
E quando due giorni dopo si riprese, guardò fuori dalla finestra d’ospedale e capì che no, non valeva la pena attraversare il cancello.
E lei lo aveva osservato da fuori dalla finestra. Lo aveva guardato nel mentre che lo portavano via, verso l’ospedale, al termine del loro incontro.
E aveva sorriso del piccolo segreto che solamente lei sapeva, del suo scherzo ai danni di tutta l’esistenza. Quel segreto che a volte decideva di condividere con qualcuno. Uno scherzo minuscolo, innocente, ma comunque dannatamente bastardo. Del resto, non ha bisogno di guardare l’orologio.
Si chiese come i viventi potessero ancora cascarci, dopo così tanti eoni. In fondo era uno dei trucchi più vecchi del mondo: piazzare l’inganno meno importante proprio sotto il loro naso per essere certi che tutti lo vedessero, senza sapere però che l’inganno era un altro.
L’orologio, dall’inizio dei tempi, è sempre stato fermo.