Mid wrote: La seconda opzione funziona, anche se l'uso del doppio "ché" mi suona forzato.
Giusto. Se elimini il secondo
ché è molto meglio.
Mid wrote: Dipende dal tipo di voce che vuoi dare a quel personaggio.
Il primo capitolo di Baudolino di U. Eco è un buon esempio di come rendere un personaggio "ignorante" di quell'epoca (è del XII secolo, ma non credo che faccia molta differenza).
Sono alla perenne ricerca di fonti in volgare. Baudolino è molto interessante, e sono andato a ripescarlo. Eco è un noto esperto di "semiotica".
Mid wrote: Ma non è l'unico modo: anche farli parlare in italiano corrente è totalmente accettabile.
Non condivido: leggere un testo dove il modo di parlare di un servo della gleba sia analogo a quello di un re (o di un religioso a quello di un soldato) risulterebbe piatto e "anacronistico". Ho un prete che si arrabbia e impreca in latino, un castellano con la zeppola, un fabbro sgrammaticato che... bestemmia (ma lo dico soltanto che bestemmia...) , eccetera eccetera. Ho studiato i penitenziali medievali, coevi e della zona, che, oltre a essere utilissimi per le confessioni, sono pieni di parole ed espressioni in volgare. Anche le "testimonianze" in volgare servono alla bisogna. Insomma, se studi puoi avere un'idea, anche se un po' approssimativa, del gergo dell'epoca e del luogo. E puoi cercare di trasmetterla al lettore, ma senza esagerare, per non trasformare il tuo romanzo in un mattone. In effetti, il primo capitolo di Baudolino è un bel mattone, che rischia di essere indigeribile per un lettore medio. O per chi apprezza, tanto per non fare nomi, i vari Mauro Corona & compagnia bella.
Ecco un esempio di confessione con citazioni dai penitenziali, tanto per rendere edotto il buon magister
@Marcello del guaio che lo aspetta.
Julia lo raggiunse caracollando sugli zoccoli. Appoggiò il primo ginocchio sul pavimento e, nel farlo con il secondo, per poco non cadde. Si aggrappò al bracciolo della scranna del parroco per recuperare l’equilibrio.
«Ripeti, figlia mia: «Io mi confesso a Dio in tucto el mio cuore et nel consiglio degli giusti come si nota nella Sacra Iscrictura».
Julia borbottò un’eco sommessa e poco chiara. Si era dimenticata la formula. D’altronde, da quanto non si confessava?
Barduccio glielo chiese, come consuetudine anche con le parrocchiane più avvezze a battersi sul petto: «Quanto ha che non ti confessasti?»
«Domine, perdono, non ricordo.»
«Tu ai fatta la penitentia che te impuse el sacerdoto quando ti confessaste?»
Julia fece di no col capo.
«Quanta peccati ai fatti poi che ti confessaste?»
«Domine, non saprei quanti, ma per certo tanti, e taluni gravissimi, e che il Signore mi perdoni.»
«Se sei davvero pentita, il Signore perdonerà. Ma, dimmi, figlia mia, quale sarebbe la colpa che ti affligge? Hai facto o facto fare incanti in herbe o in altre cose colte?»
«Sì, domine, nell’esercizio della mia arte lo feci più volte, in pozioni per impedire il concepimento o la nascita dei bambini.»