Il seme dell'odio - Pt. 1

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Traghettato da WD, uno dei miei primi racconti.
Buona lettura.


Il seme dell’odio Pt. 1


La casa aveva le pareti dipinte di nero, anche il soffitto lo era.
Nella casa non entrava sole, alcune finestre erano sbarrate, altre murate.
Nelle poche stanze una coltre di polvere ricopriva i pavimenti, miasmi di muffa escrementi e marciume ammorbavano l’aria stagnante.
L’oscurità regnava in quello spazio che pareva aver inghiottito il fluire
del tempo, arrestandone il respiro.

Lui non sapeva il nome di quel colore, aveva solo quattro anni e nessuno gli aveva parlato dei colori, ma ne conosceva la natura: era quella del buio.
Il buio e il silenzio riempivano la casa vuota e la sua mente, quando chiudeva gli occhi per sfuggire alla paura, o per nascondersi nel sonno, dove trovava uno spazio che gli donava conforto.
Nel sonno non c'erano paura né dolore, il sonno era una cosa buona, era il bene. Fin da quando ne aveva coscienza il buio era la sua dimensione di rifugio, un luogo caldo e protettivo, nel quale adagiarsi, raccolto in una postura fetale, ad ascoltare la sua solitudine e il silenzio.
In quella dimensione oscura, come un cieco vedeva le cose senza l’uso dello sguardo, ne percepiva i contorni: aveva sviluppato un sesto senso, la sua sensibilità bastava a disegnargli, nello schermo della mente, lo spazio e la forma delle cose che aveva intorno.
Il bambino non era mai uscito dalla casa, sapeva che c’ era un “fuori” perché da lì venivano gli altri e anche sua madre. Da lì venivano angoscia e paura: avevano forma di corpi d’ uomo sconosciuti.

Una lampadina rossa, pendeva da un filo in centro al soffitto, certe volte veniva accesa e faceva cessare il buio: questo avveniva solo quando mamma era a casa. A lui non piacevano quella luce e sua madre.
Senza luce non erano visibili quegli strani simboli, di cui non capiva il significato, disegnati sulle pareti: erano segni inquietanti, perché avevano il colore cupo del sangue. Nella luce rossa, il sangue era nero come il buio e usciva dal suo corpo, era il colore del dolore e della paura, quando sua madre lo colpiva con violenza, ovunque. Sua madre gli faceva paura, sempre.

Il male aveva due nature: una fisica, quando quegli uomini facevano cose orribili e dolorose sul suo corpo, o lo picchiavano come faceva sua madre,
ma quel male aveva un termine: smetteva quando se ne andavano.
L’altro dolore era più profondo, covava dentro acuto, era fatto di una paura lucente e crudele come una lama affilata. Non cessava mai quando era sveglio: l’ unico scampo che conosceva per sfuggirgli era il sonno, nel dormire il dolore era più remoto, sopito e distante. Poteva osservarlo come qualcosa fuori dal suo corpo e dal suo pensiero, non lo cancellava, ma tenerlo lontano procurava sollievo.
Non sempre era sonno quello stato in cui entrava, era piuttosto una sorta di letargo catatonico, a cui si abbandonava in ogni fibra della sua carne, con un respiro che diveniva impercettibile, mentre la mente era vigile e attiva. Talvolta gli pareva che la mente, separata e leggera, si staccasse del corpo: in quella condizione poteva osservare sè stesso da un punto esterno, vedersi giacere sul lercio materassino che gli faceva da letto, raggomitolato e immobile come per una morte apparente.

Un tempo, quando gli facevano violenza, gridava, abbandonandosi a singhiozzi disperati, nessuno poteva udirlo: la casa era un rudere isolato, lontano dall' abitato, sorgeva in un terreno brullo, coperto di sterpi e fitti rovi. Quei sassi in rovina, molti anni addietro, erano stati un piccolo cascinale, solo un viottolo accidentato che si perdeva tra i campi, conduceva lì dagli avamposti di estrema periferia.
Aveva smesso di urlare e piangere, perché era inutile: non serviva a far cessare la loro brutalità, allora si allontanava dal corpo, chiudendosi nella mente, attendeva che tutto finisse in fretta.

“Madre”: Questo termine indicava la donna che viveva nella casa con lui.
Nessuno gli aveva insegnato a chiamarla con quel nome.
Lo aveva sentito da quegli uomini, sempre gli stessi, che venivano nella casa: “Tu sei la madre di quell’aborto mostruoso”, dicevano con disgusto.
Madre era quella che gli lasciava ogni mattina una ciotola colma d’acqua e una di una zuppa disgustosa. La zuppa era calda, lui la consumava con voracità, non avrebbe avuto altra fino al mattino seguente.
Madre, era il nome del cibo che lo teneva in vita, ma anche quello del tormento, quando esplodeva con isteria di furia e lo puniva con un rancore rabbioso per ragioni che lui non conosceva o poteva comprendere.

“Figlio”: anche questo significato lo aveva appreso e indicava lui, “Quel parto dell'inferno è tuo figlio” dicevano, gli estranei, esprimendo un disgusto inesorabile nel tono sprezzante della voce.
Li odiava quegli uomini: li trovava ripugnati quando i loro fiati nauseabondi lo sfioravano mozzandogli il respiro, gli provocava il vomito l’odore animalesco dei loro corpi, la bava vischiosa e le loro secrezioni acide che gli bagnavano il corpo.

La scodella di zuppa, densa e insapore che riceveva, non bastava alla sua fame. La donna stava fuori a lungo, non tornava prima che fosse notte, a volte non tornava per giorni. Allora la fame diveniva impellente, lo aggrediva con morsi dolorosi e lo costringeva a procurarsi altro cibo, in altro modo. Quando la casa era deserta e restava solo col buio e il silenzio, allora venivano: li sentiva muoversi nelle stanze, udiva il loro zampettio di unghie aguzze sulle vecchie assi del pavimento, erano circospetti, ne udiva le corse rapide e furtive rasenti i muri, piccoli squittii lievi di ratti affamati in caccia.
Occhietti rossi, punte di spillo incandescenti scandagliavano febbrili le tenebre in frenetiche esplorazioni, cercavano cibo: rimasugli, avanzi abbandonati a marcire nel secchio del pattume. La cantina di quella stamberga ne pullulava, salivano anche dalle rive del canale torbido che scorreva nei pressi della casa.

Quando s'immergeva in quella sorta di dormiveglia osservava il paesaggio all'interno della sua mente: era un luogo caldo e rassicurante in cui trovare rifugio e nulla lì lo allarmava.
I ratti venivano e lui, che stava ad attenderli a occhi chiusi, con i sensi vigili di un predatore notturno, ne seguiva i movimenti: venivano sempre molti, famelici e aggressivi, ma non li temeva, a lui non osavano avvicinarsi, non lo facevano mai, avevano paura di lui.
Bastava un suo respiro più profondo o un movimento lieve a farli fuggire.
La donna che dicevano esser sua “madre” a volte spariva per giorni, senza curarsi di lui, questo era buono: significava che non ci sarebbe stata punizione, non sarebbero venuti gli uomini e le cose che lo accecavano di dolore, ma significava anche mancanza di cibo e fame.
Lei mancava ormai da quattro giorni: ora la fame era forte e non riusciva a sfuggirgli cadendo nel sonno, crampi dolorosi lo assalivano, doveva nutrirsi al più presto.

Era il più grosso dei ratti, quello che precedeva il gruppo nell'esplorazione del territorio, il più audace, il più forte, il loro capobranco.
Il pelo ispido e bruno, la coda lunga e coperta di scaglie, un esemplare di una quarantina di centimetri, denti affilati come lame: si muoveva a suo agio nel buio, la lunga coda frustava l'aria.
Come quelli della sua specie era in grado di percepire ultrasuoni e frequenze degli ultravioletti, i ratti sono metacognitivi, come nei primati e nei delfini, hanno coscienza di sé.
A occhi chiusi, iniziò a seguirlo, lo sentì muoversi nella casa, era vivo, caldo e pulsante, poteva udire il fruscio del suo respiro e il battito del suo cuore: nella mente di lui appariva come una sagoma fluorescente, un segnale smeraldino nello schermo nero di un radar che si spostava rapido nella frenesia della ricerca.
La fame divenne impellente, allora iniziò a chiamarlo a sè, con un comando mentale silenzioso e ferreo: il ratto arrestò la sua attività, si irrigidì come inchiodato da una scossa elettrica.
Riluttante si diresse verso l'origine del richiamo, non poteva sottrarsi a esso, comprese di non avere scampo quando fu davanti al bambino: il corpo della bestia avanzando lasciava una piccola scia di urina, era scosso da un fremito di puro terrore.
Il bimbo allungò la piccola mano, lo cinse nel pugno, sentì le setole ispide e il calore del corpo tremante nella stretta, il piccolo cuore dell'animale impazziva nel parossismo dei battiti.
Denti acuminati come piccole lame ne trafissero la cotenna e spezzarono l'osso: staccò il capo dal corpo del ratto con un morso di tagliola.
Senti nella bocca il gusto del sangue. Sputò la testa verso un angolo della stanza, poi prese a bere il liquido che sprizzava a fiotti dal collo mozzato: la sensazione calda e appagante del nutrimento gli colmò di piacere il corpo.

I sussulti ebbero termine, finalmente sazio riprese il suo sonno immergendo lo sguardo dentro sé.

Re: Il seme dell'odio - Pt. 1

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Almissima ha scritto: gio gen 28, 2021 9:33 am Bellissimo, terribile e disturbante.
Non credo di poterlo rileggere per un commento vero, ma mi piacerebbe leggerne il seguito.
Così a caldo ho pensato a Carrie. L'odio, il dolore, i maltrattamenti che trasformano le persone in qualcosa d'altro, che donano capacità diverse, che affinano abilità dormienti.
Grazie di avermi letto e commentato.
Questo racconto di cui esistono gia cinque puntate pubblicate due anni fa, lo sto riprendendo in mano. Conto di pubblcare le puntate successive dopo averle revidionate e poi proseguire con le nuove che ho in cantiere.
Un saluto e un grazie, amica mia.

Re: Il seme dell'odio - Pt. 1

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Buon pomeriggio @Nightafter :) Inizio a commentarti...

Il seme dell’odio Pt. 1
Titolo inquietante

La casa aveva le pareti dipinte di nero, anche il soffitto lo era.
Nella casa non entrava sole, alcune finestre erano sbarrate, altre murate.
Nelle poche stanze una coltre di polvere ricopriva i pavimenti, miasmi di muffa escrementi e marciume ammorbavano l’aria stagnante.
L’oscurità regnava in quello spazio che pareva aver inghiottito il fluire
del tempo, arrestandone il respiro.
Io scriverei così: La casa aveva le pareti dipinte di nero, anche il soffitto lo era. Non entrava sole, alcune finestre erano sbarrate, altre murate. Poche stanze, una coltre di polvere ricopriva i pavimenti, miasmi di muffa escrementi e marciume ammorbavano l’aria stagnante. L’oscurità regnava in quello spazio che pareva aver inghiottito il fluire del tempo, arrestandone il respiro.
Senza andare a capo


Lui non sapeva il nome di quel colore, aveva solo quattro anni e nessuno gli aveva parlato dei colori, ma ne conosceva la natura: era quella del buio.
Scriverei: il buio

Nel sonno non c'erano paura né dolore, il sonno era una cosa buona Qui metterei: il bene senza era era il bene. Fin da quando ne aveva coscienza il buio era la sua dimensione di rifugio, un luogo caldo e protettivo, nel quale adagiarsi, raccolto in una postura fetale, ad ascoltare la sua solitudine e il silenzio.
Opinione: un pò mi ci rivedo

In quella dimensione oscura, come un cieco vedeva le cose senza l’uso dello sguardo, ne percepiva i contorni: aveva sviluppato un sesto senso, la sua sensibilità bastava a disegnargli, nello schermo della mente, lo spazio e la forma delle cose che aveva intorno.
Cancellerei questa parte: come un cieco vedeva le cose senza l’uso dello sguardo è ovvio

Il bambino non era mai uscito dalla casa, sapeva che c’ era un “fuori” perché da lì venivano gli altri e anche sua madre. Da lì venivano angoscia e paura: avevano forma di corpi d’ uomo sconosciuti.
Non mi piace perché da lì venivano gli altri e anche sua madre. Suona male. Spiegherei: "fuori" un luogo neutro da dove provenivano tutti, anche sua madre.

Una lampadina rossa, pendeva da un filo in centro al soffitto, certe volte veniva accesa e faceva cessare il buio: questo avveniva solo quando mamma era a casa. A lui non piacevano quella luce e sua madre.
Scena molto suggestiva. Domanda: perchè non li piace sua madre?

Senza luce non erano visibili quegli strani simboli, di cui non capiva il significato, disegnati sulle pareti: erano segni inquietanti, perché avevano il colore cupo del sangue.
Scriverei così: inquietanti segni color del sangue.

Preferirei: L'effetto della luce rossa rese il sangue nero come il buio e usciva dal suo corpo, era il colore del dolore e della paura, quando sua madre lo colpiva con violenza, ovunque. Sua madre gli faceva paura, sempre.
Che cosa vuol dire: e usciva dal suo corpo, ?

Il male aveva due nature: una fisica, quando quegli uomini facevano cose orribili e dolorose sul suo corpo, o lo picchiavano come faceva sua madre,
ma Cancellerei(quel male) aveva un termine: smetteva quando se ne andavano. Qui niente invio L’altro dolore era più profondo, covava dentro acuto, era fatto di una paura lucente e crudele come una lama affilata. Non cessava mai quando era sveglio: l’ unico scampo che conosceva per sfuggirgli era il sonno, nel dormire il dolore era più remoto, sopito e distante. Poteva osservarlo come qualcosa fuori dal suo corpo e dal suo pensiero, non lo cancellava, ma tenerlo lontano procurava sollievo.
Osservazioni: Stai perfettamente descrivendo me :aka:

Non sempre era sonno quello stato in cui entrava, era piuttosto una sorta di letargo catatonico, a cui si abbandonava in ogni fibra della sua carne, con un respiro che diveniva impercettibile, mentre la mente era vigile e attiva. Talvolta gli pareva che la mente, separata e leggera, si staccasse del Refusso dal corpo: in quella condizione poteva osservare sè stesso da un punto esterno, vedersi giacere sul lercio materassino che gli faceva da letto, raggomitolato e immobile come per una morte apparente.
Secondo me questo paragrafo è troppo pesante

Un tempo, quando gli facevano violenza, gridava, abbandonandosi a singhiozzi disperati, nessuno poteva udirlo: la casa era un rudere isolato, lontano dall'abitato, sorgeva in un terreno brullo, coperto di sterpi e fitti rovi. Quei sassi in rovina, molti anni addietro, erano stati un piccolo cascinale, solo un viottolo accidentato che si perdeva tra i campi, conduceva lì dagli avamposti di estrema periferia.
La descrizione mi sembra che abbia un ritmo troppo veloce. Cancellerei: un tempo Quando ...

Aveva smesso di urlare e piangere, perché era inutile: non serviva a far cessare la loro brutalità, allora si allontanava dal corpo, chiudendosi nella mente, attendeva che tutto finisse in fretta.
Non mi convince l'inizio. Smise

Madre era quella che gli lasciava ogni mattina una ciotola colma d’acqua e una di una zuppa disgustosa. La zuppa era calda, lui la consumava con voracità, non avrebbe avuto altra fino al mattino seguente.
Non ripeterei: zuppa Era calda e lui la togli la virgola preferirei la congiunzione

Madre, era il nome del cibo che lo teneva in vita, ma anche quello del tormento, quando esplodeva con isteria Refuso? isterica? di furia e lo puniva con un rancore rabbioso per ragioni che lui non conosceva o poteva comprendere.
Eliminerei: anche quello

Direi: Lui era il “Figlio” “Quel parto dell'inferno è tuo figlio” dicevano, gli estranei, esprimendo un disgusto inesorabile nel tono sprezzante della voce.
Li odiava quegli uomini: li trovava ripugnati quando i loro fiati nauseabondi lo sfioravano mozzandogli il respiro, gli provocava il vomito l’odore animalesco dei loro corpi, la bava vischiosa e le loro secrezioni acide che gli bagnavano il corpo.
Mostri?

La scodella di zuppa, densa e insapore che riceveva, non bastava non saziava la sua fame. La donna stava fuori a lungo, non tornava prima che fosse notte, a volte non tornava per giorni. Allora la fame diveniva impellente, lo aggrediva con morsi dolorosi e lo costringeva a procurarsi altro cibo, in altro modo. Quale modo?Quando la casa era deserta e restava solo col buio e il silenzio, allora venivano: li sentiva muoversi nelle stanze, udiva il loro zampettio di unghie aguzze sulle vecchie assi del pavimento, erano circospetti, ne udiva le corse rapide e furtive rasenti i muri, piccoli squittii lievi di ratti affamati in caccia.
Suona male: udiva il loro zampettio di unghie

Occhietti rossi, punte di spillo incandescenti scandagliavano febbrili le tenebre in frenetiche esplorazioni, cercavano cibo: rimasugli, avanzi abbandonati a marcire nel secchio del pattume. La cantina di quella stamberga ne pullulava, salivano anche dalle rive del canale torbido che scorreva nei pressi della casa.
Immaginava o vedeva?

Quando s'immergeva in quella sorta di dormiveglia osservava il paesaggio all'interno della sua mente: era un luogo caldo e rassicurante in cui trovare rifugio e nulla lì lo allarmava.
Bell'immagine!

I ratti venivano e lui, che stava ad attenderli a occhi chiusi, con i sensi vigili di un predatore notturno, ne seguiva i movimenti: venivano sempre molti, famelici e aggressivi, ma non li temeva, a lui non osavano avvicinarsi, non lo facevano mai, avevano paura di lui. Niente a capo Bastava un suo respiro più profondo o un movimento lieve a farli fuggire.

La donna che dicevano esser sua “madre” a volte spariva per giorni, senza curarsi di lui, questo era buono: significava che non ci sarebbe stata punizione, non sarebbero venuti gli uomini e le cose che lo accecavano di dolore, ma significava anche mancanza di cibo e fame.
La prima parte la dici già

Era il più grosso dei ratti, quello che precedeva il gruppo nell'esplorazione del territorio, il più audace, il più forte, il loro capobranco. niente a capo
Il pelo ispido e bruno, la coda lunga e coperta di scaglie, un esemplare di una quarantina di centimetri, denti affilati come lame: si muoveva a suo agio nel buio, la lunga coda frustava l'aria.
Non ripetere coda lunga

Come quelli della sua specie era in grado di percepire ultrasuoni e frequenze degli ultravioletti, i ratti sono metacognitivi, come nei primati e nei delfini, hanno coscienza di sé.
Cosa c'entrano i delfini?

A occhi chiusi, iniziò a seguirlo, lo sentì muoversi nella casa, era vivo, caldo e pulsante, poteva udire il fruscio del suo respiro e il battito del suo cuore: nella mente di lui appariva come una sagoma fluorescente, un segnale smeraldino nello schermo nero di un radar che si spostava rapido nella frenesia della ricerca. Anche qui, niente invio La fame divenne impellente, allora iniziò a chiamarlo a sè, con un comando mentale silenzioso e ferreo: il ratto arrestò la sua attività, si irrigidì come inchiodato da una scossa elettrica.
Bella descrizione

Riluttante si diresse verso l'origine del richiamo, non poteva sottrarsi a esso, comprese di non avere scampo quando fu davanti al bambino: il corpo della bestia avanzando lasciavana Refuso: lasciava una piccola scia di urina, era scosso da un fremito di puro terrore. Cancellerei: era
Il bimbo allungò la piccola mano, lo cinse nel pugno, sentì le setole ispide e il calore del corpo tremante nella stretta, il piccolo cuore dell'animale impazziva nel parossismo dei battiti.
Denti acuminati come piccole lame ne trafissero la cotenna e spezzarono l'osso: staccò il capo dal corpo del ratto con un morso di tagliola.
Senti nella bocca il gusto del sangue. Sputò la testa verso un angolo della stanza, poi prese a bere il liquido che sprizzava a fiotti dal collo mozzato: la sensazione calda e appagante del nutrimento gli colmò di piacere il corpo.
Osservazione: se era buio come vide l' angolo della stanza?


I sussulti ebbero termine, finalmente sazio riprese il suo sonno immergendo lo sguardo dentro sé.
Che significa la prima parte?
I sussulti ebbero termine

I° Conclusione: testo fluido genere horror, mi aspettavo più suspance. Descrivere la vera paura è difficilissimo. Tu ci hai provato, già dall'incipit non mi ha colpito molto. La casa buia è un classico, avrei voluto leggere un effetto che colpisce in modo diretto e chiaro. Alcuni pezzi non vanno separati da altri, se no non vedo la scena. In alcuni paragrafi mi ci vedo, purtroppo.
Continuerò a rileggerti.
BuonaSerata
-Flo-
:laughing-lettersrofl: :happy-smileyflower:

Re: Il seme dell'odio - Pt. 1

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Ciao cara @Floriana

Mi fa molto piacere che tu sia una mia affezionata lettrice.
Vedo che instancabilmente leggi i miei poveri racconti e ti adoperi per darmi interessanti suggerimenti, su forma e contenuto.
Non posso che essertene grato, poiché trovo sempre che il tuo punto di vista dia un contributo significativo alla mia scrittura.

Pertanto nel dirti grazie, ti mando un abbraccio e un saluto.
A presto rileggerci, ciao :)

Re: Il seme dell'odio - Pt. 1

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Nightafter ha scritto: dom gen 24, 2021 4:34 pm La casa aveva le pareti dipinte di nero, anche il soffitto lo era.
Nella casa non entrava sole, alcune finestre erano sbarrate, altre murate.
Nelle poche stanze una coltre di polvere ricopriva i pavimenti, miasmi di muffa escrementi e marciume ammorbavano l’aria stagnante.
L’oscurità regnava in quello spazio che pareva aver inghiottito il fluire
del tempo, arrestandone il respiro.

Buon incipit, claustrofobico e inquietante.

Lui non sapeva il nome di quel colore, aveva solo quattro anni e nessuno gli aveva parlato dei colori, ma ne conosceva la natura: era quella del buio.

Introduci come protagonista un bambino piccolo, quando già hai descritto una location horror anche per un adulto. Ok.

Il buio e il silenzio riempivano la casa vuota e la sua mente, anche quando chiudeva gli occhi per sfuggire alla paura,

Penso che buio e silenzio riempissero la mente del bimbo sia da sveglio che a occhi chiusi, e prima del sonno.
Fin da quando ne aveva coscienza
virgola
il buio era la sua dimensione di rifugio, un luogo caldo e protettivo, nel quale adagiarsi,
dopo "protettivo", quella virgola è superflua
raccolto in una postura fetale, ad ascoltare la sua solitudine e il silenzio.

In quella dimensione oscura, come un cieco vedeva le cose senza l’uso dello sguardo, ne percepiva i contorni: aveva sviluppato un sesto senso,
meglio due punti
la sua sensibilità bastava a disegnargli, nello schermo della mente, lo spazio e la forma delle cose che aveva intorno.
Il bambino non era mai uscito dalla casa, sapeva che c’ era
occhio agli spazi doppi
un “fuori” perché da lì venivano gli altri e anche sua madre. Da lì venivano angoscia e paura: avevano forma di corpi d’ uomo
prima di uomo un altro spazio doppio
sconosciuti.

Una lampadina rossa, pendeva
mai la virgola tra soggetto e verbo
Poteva osservarlo come qualcosa fuori dal suo corpo e dal suo pensiero,
meglio due punti
non lo cancellava, ma tenerlo lontano procurava sollievo.
Un tempo, quando gli facevano violenza, gridava, abbandonandosi a singhiozzi disperati, ma nessuno poteva udirlo:

la casa era un rudere isolato, lontano dall' abitato, e sorgeva in un terreno brullo, coperto di sterpi e fitti rovi.
Quei sassi in rovina, molti anni addietro, erano stati un piccolo cascinale,
meglio punto e virgola
solo un viottolo accidentato
virgola
che si perdeva tra i campi, conduceva lì dagli avamposti di estrema periferia.
Aveva smesso di urlare e piangere, perché era inutile: non serviva a far cessare la loro brutalità,
meglio punto e virgola
allora si allontanava dal corpo, chiudendosi nella mente, e attendeva che tutto finisse in fretta.

La zuppa era calda, lui la consumava con voracità, non ne avrebbe avuto altra fino al mattino seguente.
Madre, era
togli questa virgola sopra

Quel parto dell'inferno è tuo figlio” dicevano, gli estranei,
togli la virgola dopo "dicevano"
esprimendo un disgusto inesorabile nel tono sprezzante della voce.
Li odiava quegli uomini: li trovava ripugnati
ripugnanti
quando i loro fiati nauseabondi lo sfioravano mozzandogli il respiro, gli provocava il vomito l’odore animalesco dei loro corpi, la bava vischiosa e le loro secrezioni acide che gli bagnavano il corpo.

li sentiva muoversi nelle stanze, udiva il loro zampettio di unghie aguzze sulle vecchie assi del pavimento,
meglio punto e virgola
erano circospetti, ne udiva le corse rapide e furtive rasenti i muri, piccoli squittii lievi di ratti affamati in caccia.

venivano sempre molti, famelici e aggressivi, ma non li temeva, a lui non osavano avvicinarsi, non lo facevano mai,
meglio due punti che introducono alla spiegazione successiva.
avevano paura di lui.

Lei mancava ormai da quattro giorni: ora la fame era forte e non riusciva a sfuggirgli cadendo nel sonno,
meglio punto e virgola
crampi dolorosi lo assalivano, doveva nutrirsi al più presto.
L'ultimo pezzo, ti confesso, l'ho letto di corsa, sfuggendo i particolari.
Hai proprio scritto un racconto horrorifico e rivoltante, con l'aggravante del minore protagonista.
Hai scelto il lessico con cura e la tensione in crescendo l'hai gestita al meglio.
Certo, peggio di così la sorte del bambino no può essere, e spero vivamente che nei prossimi capitoli si delinei la punizione della "madre" e dei suoi accoliti, con la liberazione e la salvezza de bambino. Però questo è un horror a puntate, dal titolo "Il seme dell'odio". Mi sa che non sarò accontentata.
In conclusione, ti faccio i miei complimenti per lo stile e il lessico con cui hai saputo gestire la difficile trama. Bravo, @Nightafter :)
Un unico appunto: un bambino di quattro anni non può resistere in quelle condizioni di vita in così tanto tempo. Dovrebbe avere almeno il doppio di anni del protagonista.
Di sabbia e catrame è la vita:
o scorre o si lega alle dita.


Poeta con te - Tre spunti di versi

Re: Il seme dell'odio - Pt. 1

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Grazie @Poeta Zaza di avermi letto e così dettagliatamente (come sempre avviene ) commentato, mia carissima amica.

Come detto in altri contesti, l'uso indiscriminato della virgola non può mancare in ogni mio testo.
Con sommo dolore, credo che sia giunto il momento di riavvicinarmi all'uso del punto e virgola, che avevo tentato di bandire per il timore di aggiungere un ulteriore elemento di difficile impiego.

"Un unico appunto: un bambino di quattro anni non può resistere in quelle condizioni di vita in così tanto tempo. Dovrebbe avere almeno il doppio di anni del protagonista."

Mia dolce amica, quel bambino è uno dei protagonisti principali del lungo racconto che ho in mente.
Vero che nessun bambino normale potrebbe resistere in quelle condizioni, ma il punto è che non si tratta affatto di un bambino normale.

Grazie ancora e come sempre un affettuoso abbraccio :)

Re: Il seme dell'odio - Pt. 1

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Ciao @Nightafter

Se dovessi definire la tua scrittura, lo farei con una sola parola: atmosfera.
Non riesco neppure a vederli, gli errori. Non mi interessano tanto sono presa dal contenuto.
Per cui mi scusami se non ti sono molto di aiuto.
Ma anche le carezze aiutano a scrivere meglio.
Comunque, per non sentirmi del tutto buona, ti segnalo questo passaggio:

In quella dimensione oscura, come un cieco vedeva le cose senza l’uso dello sguardo, ne percepiva i contorni: aveva sviluppato un sesto senso, la sua sensibilità bastava a disegnargli, nello schermo della mente, lo spazio e la forma delle cose che aveva intorno.
Il bambino non era mai uscito dalla casa, sapeva che c’ era un “fuori” perché da lì venivano gli altri e anche sua madre. Da lì venivano angoscia e paura: avevano forma di corpi d’ uomo sconosciuti.

Secondo me spiega un po’ troppo quello eri già riuscito a trasmettere con pochi colpi di penna ben assestati.
Gli occhi del lettore vedono e sentono molto più di quanto a volte si immagini.
Se chi scrive ha un cuore sensibile.
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