[CN24] Il buio che filtra - Costruttori di Mondi
Una rosa per Martina Pt.10
Il ritorno in ufficio fu per entrambi segnato dal fatto che si era sparsa la voce del nostro incidente: eravamo divenuti la notizia del giorno.
Si provava la fastidiosa condizione di essere, controvoglia, nel cerchio di luce di un palcoscenico; tutti ne parlavano e ci osservavano con l’espressione riservata a chi è reduce da un malaugurato incidente.
Verso di me c’era sicuramente un sentimento di pietà per essere stato costretto a trascorrere mezza giornata chiuso in quella cassa metallica con la Signetti.
Mascheravamo il disagio sottraendoci ai commenti, quasi timorosi che dalle nostre facce, dal tono delle parole, si potesse intuire il segreto disdicevole che ci univa.
Lei prese a ignorarmi, evitò di incontrarmi e di rivolgermi la parola.
Io feci altrettanto: eravamo divenuti fantasmi l’uno per l’altra, ci sfuggivamo o fingevamo di non vederci.
Questo non solo per fugare sospetti negli altri, ma anche per mettere una distanza tra noi stessi e ciò che avevamo fatto.
Quel nostro silenzio, per me, fu benvenuto.
Evitarci rendeva le cose più facili, ci risparmiava il disagio di ricordare, di porci domande, di chiarire e definire quali sarebbero stati i nostri futuri rapporti personali e di lavoro.
Il tempo avrebbe lavorato come il vento su un arenile, sfumando e cancellando le impronte dei passi compiuti.
Vennero le vacanze, l’azienda chiuse per tre lunghe settimane. Mi ricongiunsi con mia moglie e mia figlia sul mare ligure.
Inutile dire che ero ancora pervaso dal senso di colpa per quanto era avvenuto in quell’ascensore.
Per tutta la prima settimana mi trovavo a sfuggire lo sguardo di mia moglie, evitavo l’incontro dei suoi occhi, come temessi che vi potesse leggere quel mio tradimento forzoso.
Lei se ne accorse e chiese cosa mi turbasse, se avessi qualche grana sul lavoro di cui non le avevo parlato.
Ovviamente negai, mi giustificai dicendole che stavo subendo una sorta di jet lag da lavoro: così abituato all’attività convulsa dell’ufficio, ora avevo bisogno di adattarmi all’improvvisa inerzia.
Fu in quel momento che il problema della Signetti divenne improvvisamente irrilevante.
Dal profondo mi emerse un ricordo agghiacciante.
Nei giorni che precedevano le vacanze avevo chiuso tutte le urgenze operative che componevano le mie mansioni, proprio per non lasciare qualcosa in sospeso che rappresentasse un problema.
Nel fare la cernita degli impegni avevo spuntato ogni pendenza, mi risultava di aver adeguatamente esaurito ogni voce.
Eppure, ripassando la lista, avevo la sgradevole sensazione di aver dimenticato qualcosa.
Solitamente ero di una precisione chirurgica sulle cose del lavoro, ma quanto era accaduto di recente mi aveva procurato uno sfasamento che mi richiedeva maggiore attenzione anche per le attività che ero solito svolgere.
Ecco che, d’improvviso, come un fulmine a ciel sereno, era emersa questa mancanza angosciosa: non avevo ricordato di chiudere un problema di gravità capitale.
Nulla, ero basito, mi ero totalmente scordato di sospendere parte del programma pubblicitario della nuova stagione con le agenzie dei media.
Nelle mie competenze c’era la gestione dei mezzi pubblicitari: possedevo un budget nominale di oltre due miliardi di lire da destinare alla comunicazione a mezzo stampa, radiofonica e affissionale.
Nominale, poiché in realtà la cifra che l’azienda era disposta a investire per la prossima stagione era la metà di tale importo.
La tecnica per la pianificazione di una campagna pubblicitaria era, in realtà, di natura truffaldina, benché fosse un gioco delle parti sottinteso, al quale utenti e agenzie dei mezzi si affidavano in un collaudato gioco di specchi.
In sostanza, si pianificava un certo numero di uscite su mezzi (quotidiani, riviste o altri), nel quale l’impegno finanziario stimato dava vita a percentuali di sconto su ciascuna uscita.
Uno sconto che si aggirava sul venti per cento sul costo di ogni annuncio.
A questo sconto andava sommato uno sconto del quindici per cento, che ci veniva riconosciuto in quanto possessori di un’agenzia pubblicitaria interna all’azienda.
Normalmente, le aziende si rivolgevano a un’agenzia di pubblicità, affidandole la creazione della campagna e la pianificazione dei mezzi, e queste, nella trattativa con le agenzie dei media, ricevevano un ristorno pari al quindici per cento dell’investimento del loro cliente.
Noi, avendo uno studio pubblicitario aziendale, godevamo dello stesso beneficio; quindi, la cifra stornata si cumulava allo sconto generale sulla campagna mezzi impiegata, ottenendo uno sconto complessivo del trentacinque per cento, che in denaro rappresentava un discreto numero di milioni.
Qui subentrava la parte truffaldina della trattativa.
Infatti, con trenta giorni d’anticipo sulla prima uscita prevista di ogni mezzo, si comunicava, tramite lettera raccomandata, alle agenzie di tale mezzo che, in seguito a una revisione del piano finanziario destinato alla nuova campagna, le uscite previste venivano dimezzate.
Pertanto, si inviava il nuovo piano operativo degli annunci in veste ridotta.
Nella sostanza, si dimezzavano le uscite, ma si manteneva inalterato lo sconto praticato.
Infatti, le agenzie che rappresentavano i mezzi, ovvero le grandi testate della carta stampata o altro, già conoscevano l’antifona e, non dovendo sborsare di tasca propria i soldi perduti, lasciavano invariati gli sconti praticati anche in vista di una minore pianificazione e di un minore impegno finanziario.
L’azienda otteneva così la sua campagna pubblicitaria a un costo quasi dimezzato.
Il compito di condurre una vantaggiosa trattativa nell’acquisto degli spazi pubblicitari, in cui servivano abilità e aggressività commerciale anche per strappare un solo punto percentuale in più di sconto, era, affiancato alla parte creativa, una delle voci più rilevanti del mio impegno di lavoro.
Avevo scoperto di aver scordato di inviare le lettere con cui annunciavo la riduzione delle uscite programmate alle agenzie dei media: era una cosa di una gravità enorme.
In pratica, impegnavo legalmente la mia azienda a investire un budget che era solo presunto, si trattava di centinaia di milioni che nessuno aveva la minima intenzione di spendere.
Il problema era drammatico, non avevo idea di cosa fosse accaduto nella mia mente per una dimenticanza di tale entità.
Mi ero perso, non era possibile, mi si era totalmente bollito il cervello.
Precipitai in un abisso d’angoscia: questa cosa era una condanna a morte. Quasi dieci anni di impegno, con l’anima stretta tra i denti, per raggiungere la posizione che occupavo in azienda, buttati nel cesso per un buco di memoria fatale.
I tempi tecnici erano ormai scaduti; se anche mi fossi precipitato a inviare delle lettere di recesso dal programma mezzi pattuito, non sarebbe servito a nulla: la macchina era in movimento e niente, a questo punto, poteva fermarla.
Iniziai a pensare a ciò che sarebbe venuto da quel danno e la prospettiva era spaventosa: saputa la cosa, l’azienda mi avrebbe scuoiato vivo e la Signetti avrebbe aggiunto calce viva sulla pelle scarnificata; mi avrebbero messo al rogo sulla spianata del parcheggio aziendale.
Sarei stato cacciato dall’azienda pieno di ignominia e senza liquidazione, mi sarei ritrovato sulla strada con la mia famiglia, non avrei più trovato un posto di lavoro dove svolgere la mia professione, poiché un fatto di tale gravità mi avrebbe seguito ovunque.
Nessuno mi avrebbe mai assunto dopo una colpa simile.
La mia vita era perduta, la mia famiglia era perduta, non c’era rimedio possibile.
Un solo errore di tale peso può cancellare decenni di azioni virtuose, può rovinare totalmente la vita di un individuo.
Non potevo affrontare un simile disastro, nato dalla debolezza della mia mente, perché non ero stato capace di padroneggiare le mie emozioni e i miei pensieri, rendendomi irresponsabile delle mie azioni.
C’era una sola cosa da fare per scongiurare la vergogna che mi attendeva: porre fine alla mia vita.
Stavo seduto in riva al mare mentre pensavo a tutto questo, lacerandomi.
Osservando quella distesa placida, nella quale una lieve brezza generava piccole creste di spuma nel monotono fluire delle onde, una calma suprema di rassegnazione si sostituì al terrore.
Immerso in quel tramonto prossimo, mentre la spiaggia si svuotava lentamente di gente e rumori, lasciando il posto a un’aria colma unicamente del verso dei gabbiani che si inseguivano in volo, per poi tuffarsi nelle acque tiepide alla ricerca di cibo.
Guardavo, trasognato, il mare che, sulla linea dell’orizzonte, si fondeva al cielo nella luce ramata del sole calante.
Improvvisamente sentii i muscoli del corpo rilassarsi e i polmoni riempirsi dell’aria salmastra e della pace che governava l’universo.
Il mondo e l’esistenza umana mi apparvero per ciò che erano: una briciola infinitesimale del cosmo.
Io, col mio dramma, non eravamo che pulviscolo insignificante di fronte alla straordinaria complessità del creato.
Tutto appariva irrilevante, banale, transitorio, davanti all’idea che presto lo avrei lasciato, sarei morto con quella nuova consapevolezza, sapendo che possedevo la più grande e invincibile forza che può avere un uomo: decidere di togliersi la vita.
Non avevo più timore, nulla di quello che avrebbero potuto farmi era più temibile, neppure uccidermi, se avessero avuto quel potere, perché anche questo era un potere solo mio.
Mi tornavano in mente gli anni della gioventù dedicati allo yoga, alla meditazione finalizzata alla presa di coscienza che conduceva alla “liberazione” dell’uomo dall’illusione della realtà: era qualcosa di simile allo stato d’animo che stavo vivendo.
La realtà degli esseri umani era un inganno che loro stessi avevano creato, un gioco folle di illusioni concatenate in milioni di piccoli intricati inganni che creavano questo immane disordine.
Ora tutto, finalmente, mi era chiaro.
Il velo di Maya era caduto, io ero finalmente libero.
Dovevo solo decidere il momento, il come e il dove avrei lasciato questo mondo.
(Continua)
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