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Una rosa per Martina Pt. 7

Posted: Wed Jun 18, 2025 5:10 pm
by Nightafter
L'uomo che dava i nomi alle stelle - Costruttori di Mondi


Una rosa per Martina Pt. 7

Dopo quella cena intima che, senza danni apparenti, si era conclusa nonostante l’evidente tentativo di seduzione della Signetti, ci salutammo sulla porta di casa a cui mi aveva riaccompagnato intorno alla mezzanotte.
Dal momento in cui avevo richiesto il conto al ristorante e per tutto il percorso di ritorno era divenuta silenziosa, non che si mostrasse ostile, ma era percepibile un’ombra d’insoddisfazione che le velava lo sguardo.
Era evidente che si attendesse da quella cena qualcosa che dava per scontato di ottenere, ma che non fosse arrivata.
I nostri rapporti nei giorni seguenti si limitarono a quelli dovuti alle nostre mansioni, ignorando la nostra parentesi come se non fosse mai avvenuta.
Ne ero felice poiché ritenevo che il mio atteggiamento nella serata avesse fugato ogni sua aspettativa o bizzarro progetto.
Come facevo da tempo, alla soglia di ogni nuovo mese, passavo dal solito fioraio accanto all’ufficio di Martina per ordinare la consueta rosa da farle recapitare sulla scrivania.
Era molto presto poiché il fioraio apriva bottega alle sette e mezza, quindi potevo evadere quell’impegno prima di andare in ufficio.
Così, intorno alle otto, sbrigata la faccenda, stavo già fuori dal negozio, dirigendomi alla mia auto parcheggiata lì accanto.
Sulla via stazionava una lunga coda di auto ferme per il semaforo rosso all’incrocio: una lussuosa BMW, grigio canna di fucile, era posizionata nella fila proprio all’altezza del fioraio da cui ero uscito.
All’interno del veicolo un uomo elegantemente abbigliato e dall’aria distinta sedeva al fianco di una donna dall’aspetto raffinato alla guida del mezzo.
Quella donna era la Signetti che, voltata nella mia direzione, mi osservava con un sorriso sardonico a fior di labbra.

La macchina era la sua, l’uomo al suo fianco era il marito che lavorava nella stessa azienda di Martina.
Era evidente che lei lo stesse accompagnando in ufficio, probabilmente perché l’auto del consorte era da un meccanico per qualche manutenzione.
Mi aveva sicuramente visto uscire dal fioraio: la cosa mi infastidì, benché non fossi stato colto a fare qualcosa di sconveniente.
Ma l’essere stato visto lì, a quell’ora e in quel giorno, mi lasciò una spiacevole sensazione; il disagio per quell’incontro inopportuno era che la Signetti potesse legare la mia presenza alla storia della rosa che Martina riceveva dall’ammiratore sconosciuto.
A pensarci, vi era ragione per sostenere un tale collegamento, poiché avrei potuto essere lì per mille altri motivi, ma quella donna mi rendeva paranoico.
Comunque decisi di non farmene un cruccio: se avesse accennato di avermi visto uscire dal negozio, avrei detto di essere andato a ordinare dei fiori per il funerale di un conoscente che avevo nella zona.
Non ci fu seguito a quel fatto e non ebbi bisogno di giustificare alcunché; lei non ne fece cenno e io mi misi l’anima in pace, archiviando l’evento.
Ma avevo mal riposto le mie speranze e tratto ingenue conclusioni, le quali si dissolsero nel primo pomeriggio di un tragico sabato estivo.


Il tempo scorreva con esasperante lentezza.
Ogni tanto davo mano all’accendino e guardavo l’orologio: eravamo bloccati, al buio, in quell’ascensore da oltre due ore.
La luce non tornava e questo era un fatto strano: queste interruzioni dovute al sovraccarico sulla rete solitamente non duravano oltre i trenta minuti.
Probabile che un relè o un fusibile, andati in malora per lo sbalzo di tensione, impedisse la ripartenza della cabina.
Avevo premuto il tasto di soccorso fino a consumarmi il pollice, ma non c’era stato verso: o non funzionava, o quelli che avrebbero dovuto soccorrerci facevano la settimana corta ed erano già tutti ad abbronzarsi sulle spiagge.
Era un pomeriggio di sabato a fine luglio: tempo di presentazione di collezioni, avevamo lavorato in straordinario fino all’una e mezza, ai primi di settembre incombevano i saloni della moda.
La Signetti e io eravamo stati gli ultimi a lasciare l’ufficio e a salire su quell’ascensore prima che si arrestasse per il blackout.
L’azienda a quell’ora era ormai deserta e noi completamente soli.
Più scorrevano i minuti, più si faceva chiara la prospettiva che quella clausura forzata non si sarebbe esaurita in tempi brevi.
Un silenzio corrucciato ci avvolgeva; inoltre, sentivo un fastidioso bisogno di svuotare la vescica.
Rassegnati, sedevamo sul pavimento della cabina, in quel buio statico, a fissare il vuoto tenebroso che ci avvolgeva e a sudare copiosamente.
La moquette ruvida e pungente sotto di noi puzzava di stantio e polvere, faceva un caldo torrido, si boccheggiava.
Fuori c’erano 38 gradi e lì dentro, con l’aria condizionata inattiva, non se ne avvertivano di meno.
C’era il profumo di lei che, per via della traspirazione e del calore, aveva saturato l’aria della cabina.
Quell’effluvio insinuante aveva ammorbato l’ambiente, aderendo al laminato delle pareti e penetrando in ogni fibra del pavimento, invasivo delle narici e del cervello come un parassita infestante.
Era un profumo sensuale, creato ad arte per mettere in subbuglio i sensi.
Usava un’essenza raffinata, di quelle che sentivi addosso alle donne d’alto bordo nelle caffetterie eleganti o nei ristoranti esclusivi del centro.
Odiavo quelle fragranze lussuose, ero convinto che fossero trappole olfattive create per risvegliare gli istinti primordiali del maschio.
Mi ricordavano le piante carnivore che, con un aroma irresistibile e mortale, nel trionfo cromatico dei petali, attiravano gli insetti per cibarsene.
Svanito il sogno di una risoluzione rapida del problema, restavano il sudore che inzuppava la camicia, l’urgenza di pisciare e il disagio della compagnia della Signetti, per me empatica come la fioritura di un herpes genitale.
Roba da non crederci. Se non era sfiga questa!
Fra tutte le oltre cento persone dell’azienda, finire al buio in quello spazio angusto proprio con la Signetti. “ Fanculo va’! “
Poi, col fatto che mi avesse messo gli occhi addosso, la cosa mi dava un disagio a livello epidermico.
Come donna era indubbiamente affascinante, ma di quel fascino oscuro esercitato dalle dark lady dei film noir.
Possedeva l’appeal e l’eleganza fluida e micidiale di un mamba nero.

Trascorse una misura di tempo che non sapevo calcolare, scandita dai nostri respiri pesanti in quel loculo cieco e umido.
Con l’accendino controllai nuovamente l’ora: ne era trascorsa appena un’altra.
Nel bagliore del momento, il viso di Signetti, imperlato di sudore, assumeva le fattezze tragiche d’una maschera kabuki.
Cercai di fendere quel muro di silenzio che rendeva l’oscurità più fitta e l’aria più greve.
– Non sente fame, Signetti? Io ho un vuoto cosmico nello stomaco.
– Mah! Lasci perdere, Grimaldi, ora come ora, per il nervoso, non manderei giù neppure un chicco di riso. Mi andrebbe un caffè, ma meglio non pensarci.
– Non me ne parli! Darei un mese di stipendio per una sigaretta – sospirai.
Lei sbuffò insofferente, avvertii che cambiava posizione stirando le gambe.
– Non mi spiego cosa aspettino a venirci a cercare.
– Troppo presto! Posto che il pulsante d’allarme abbia funzionato, in un sabato pomeriggio con già metà degli addetti in ferie, prima che organizzino una squadra per le emergenze ci vorranno un po’ di ore. Si rassegni.
– Vero! Inoltre, in questo periodo si lavora spesso oltre il solito orario senza avvisare casa. Mio marito nel pomeriggio aveva una partita al club del golf con amici. Sicuro che fino a sera non sentirà la mia mancanza.
– Purtroppo, non ci resta che pazientare e sperare che si diano una mossa.
In realtà avevo timore che quel cazzo di pulsante fosse fuori uso; questo prospettava un futuro, nelle prossime ore, decisamente nero.
Se nessuno aveva ricevuto la nostra richiesta d’aiuto, c’era da aspettarsi di trascorrere lì dentro la notte e forse parte della domenica successiva.
Sempre a patto che il marito della Signetti si allarmasse per non vederla rientrare.
Ma anche in quel caso, come avrebbe potuto dedurre che sua moglie fosse segregata nell’ascensore dell’azienda?

Mia moglie era al mare con mia figlia; certo, si sarebbe preoccupata di non vedermi arrivare da loro in serata, ma anche lei, cosa avrebbe potuto fare se non cercarmi al telefono di casa o chiamare i miei per sapere se sapessero dove fossi finito?
Che cazzo di casino! Nel peggiore dei casi, sulla nostra scomparsa si prospettava una giostra che si sarebbe risolta solo nella mattina del prossimo lunedì, quando l’azienda avrebbe ripreso l’attività.
–Cazzo!– Quasi quarantotto ore con la Signetti in quel buco nero.
Non volevo pensare cosa avremmo fatto quando il mio e il suo bisogno di liberare le nostre vesciche ci avrebbe costretti a pisciarci nelle mutande o a farla in un angolo della cabina.
Nei film in cui i protagonisti sono imprigionati in una situazione simile, tutto procede senza problemi, pare che gli interpreti abbiano vesciche d’acciaio o siano privi di funzioni fisiologiche, ma sono fatti che diventano salienti nella vita reale.




(Continua)