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Una rosa per Martina - Pt. 5

Posted: Mon Jun 16, 2025 5:02 pm
by Nightafter
[CC25 Inciampi d’amore] - Costruttori di Mondi


Una rosa per Martina - Pt. 5



Dovetti essere di certo un pessimo attore, poiché la Signetti, scaltra scrutatrice d’anime, percepì l’ombra anomala che era corsa nel mio sguardo.
- Dica la verità, Grimaldi, lei aveva una simpatia particolare per Martina Benzi, le piaceva, vero?
Nel pormi la domanda, i cristalli di ghiaccio dei suoi occhi assunsero una luce irrisoria che mi fece pensare allo sguardo maligno di certi rettili che scrutano la preda intrappolata.
Non risposi, mio malgrado il viso mi si contrasse in una smorfia desolata che lei sottolineò con un sorriso divertito, come quando gli adulti si compiacciono d’aver intuito il segreto d’un bambino.
Lasciai lei e la macchina del caffè con un senso di disagio: la sensazione d’essermi tradito, rivelando ciò che provavo.
Era giugno inoltrato, quell’anno il caldo incalzava, anticipando canicole oltre i trenta gradi che già facevano desiderare le vacanze e il ristoro di spiagge marine.
In azienda l’aria condizionata viaggiava a manetta dall’inizio del mese: in realtà, non si trattava di un sistema di aerazione di tipo classico, ma di un refrigeratore d’aria.
La differenza stava nel fatto che il refrigeratore d’aria raffreddava l’aria già presente, rimettendola in circolo a ciclo continuo.
In sostanza, si respirava sempre la stessa aria viziata, ma resa più fresca.
Un sistema non certo ideale dal punto di vista igienico, benché, nell’operazione, l’aria venisse filtrata attraverso filtri, non era ovviamente esente dal riproporre le impurità e i micobatteri che vi stagnavano.
E questo, infatti, generava il protrarsi di forme allergiche, riniti e raffreddori fuori stagione che, di continuo, colpivano il personale dell’azienda.
Il motivo di quella infelice scelta tecnologica era d’ordine economico: pare vi fosse un considerevole risparmio sui costi di gestione.
La buona salute della forza lavoro aziendale era una variabile trascurabile rispetto al risparmio ottenuto.
Quello che ai più non andava giù di quella soluzione tecnica era che si fosse fatta un’eccezione per l’area degli uffici direzionali.
Il Presidente, il consiglio di direzione, la Signetti e la ristretta cerchia dell’area dirigenziale beneficiavano di un’aria condizionata freschissima e purificata di un sistema di condizionamento classico.
La Signetti, quando per ragioni legate alla sua attività era costretta a uscire da quel bunker di privilegio, la vedevi passare tra gli uffici con aria vagamente disgustata, quasi trattenesse il respiro nel timore di contaminarsi.
Io detestavo qualsiasi sistema di condizionamento dell’aria, perché mi procurava pesantezza alla testa e raffreddori.
Ma quello in particolare mi stava in gola per un motivo politico: era un odio di classe, l’esempio d’una prevaricazione verso la forza lavoro di livello inferiore.
Avrei spalancato volentieri le finestre, sarebbe certo entrato il caldo, ma anche un’aria più sana, meno umida e appiccicaticcia di quella che stazionava nei nostri uffici.
Ma aprire una finestra, col sistema refrigerante attivo, era tassativamente proibito, era considerato un delitto pari all’infedeltà aziendale o al sabotaggio.

Una mattina mi trovavo con un voluminoso incartamento da duplicare, nel corner della fotocopiatrice, una delle aree aziendali esenti dal sistema di riciclo dell’aria, quindi con una temperatura decisamente calda.
Mentre ero profondamente concentrato nell’operazione d’inserimento delle pagine, non m’accorsi d’avere la Signetti alle spalle in attesa del suo turno, con un plico di pagine tra le mani.
Avevo una sigaretta accesa che mi pendeva all’angolo delle labbra e, poiché sudavo, avevo allentato la cravatta e sbottonato il colletto della camicia button-down che indossavo.
Il capello ribelle e mosso mi calava sulla fronte accaldata, conferendomi un’aria tra il blasé e l’esistenzialista maledetto.
La salutai distrattamente e continuai il mio lavoro fino al termine.
Nel voltarmi trovai i suoi occhi che mi scrutavano con una luce che avrei definito del gatto che si fa un pensiero sul canarino in gabbia.
Sorrise e, con aria sottilmente compiaciuta, disse:
- Le hanno mai detto che, con quella sigaretta tra le labbra e l’aria dégagé, assomiglia a Humphrey Bogart?
- No! Cioè, in che senso? - balbettai, incerto sul senso di quella osservazione.
- È sexy... Per così dire: fa sangue. - rispose tra l’insinuante e il faceto.
Poi scoppiò in una risata che trovai disarmante.
Ero perplesso e confuso, un’espressione così diretta, che aveva tutto il sapore d’una avance, era l’ultima cosa che mi sarei atteso da lei.
Il caldo, seppure stemperato dall’aria condizionata di privilegio che godeva nella sua area, doveva averle dato alla testa.
Imbarazzato, feci finta di non aver colto il significato e mi unii alla sua risata, declassando la provocazione a battuta di spirito.
Vedendo la mia espressione di lieve disagio, aggiunse divertita:
- Grimaldi, non mi faccia il timido. Non sarà certo la prima volta che riceve un complimento da una donna. Ora non mi diventi rosso come un liceale.
Improvvisamente mi sorse l’allarme che nella Signetti fosse nato un inaspettato interesse per me, e che non fosse un interesse professionale.
Non ero abituato a pensarmi come oggetto d’attenzioni di una donna, in particolare di quel genere di donna.
Preferii archiviare la cosa come un episodio inoffensivo, che risultava insolito unicamente per l’idea preconcetta che avevo di lei come protagonista e dell’aura greve che la circondava.

Ciò che m’era nato come sospetto divenne una certezza manifesta durante una mattina di venerdì, cinque settimane dopo.
A metà del mattino mi trovai a una pausa caffè davanti alla solita macchinetta con alcuni colleghi; era il fine settimana e tutti avevano in progetto di riversarsi al mare o ai monti, per trascorrervi il weekend e trovare sollievo alla calura cittadina.
Si parlava di questo e anch’io, come loro, dichiarai che il venerdì sera, dopo l’ufficio, ero solito puntare la macchina verso la Liguria e raggiungere mia moglie e mia figlia a Finale Ligure per il fine settimana.
Lì, da qualche anno, affittavamo una casa nel periodo estivo, e loro due vi trascorrevano la stagione balneare fino a fine agosto.
Io le avrei raggiunte stabilmente quando l’azienda chiudeva per le vacanze estive.
Mentre, col caffè in mano, terminavo il mio discorso, alle mie spalle la voce della Signetti disse: - Caspita, Grimaldi, le tratta bene le sue donne di casa, fortunate loro, con tre mesi di mare.
Mi voltai e lei, col solito sorrisino urticante, mi salutò e si apprestò alla macchina per servirsi un caffè.
- Mia moglie non lavora - replicai - e quando chiudono le scuole di mia figlia sono felice che entrambe si godano l’estate.
- Certo – replicò – è giusto che si godano il frutto del suo duro lavoro, Grimaldi. Come si conviene a un buon padre di famiglia. - sorrideva, sorseggiando lentamente il caffè bollente.
Tornai al mio ufficio lievemente urtato da quelle battute.
Di cosa facessi col mio stipendio e la mia famiglia erano fatti miei, non vedevo cosa avesse da commentare, che imparasse a farsi i cazzi suoi, Donna Signetti.
Dopo circa un’ora, mentre ero immerso nel lavoro, il telefono sulla mia scrivania emise il trillo che caratterizzava le chiamate interne.
Sollevai la cornetta, a chiamare era la Signetti; con un tono tra il confidenziale e il suadente mi chiese: - Ha impegni questa sera, Grimaldi?
La domanda era assolutamente inaspettata, ovvio che avesse udito il discorso fatto alle mie spalle e ben sapesse che sarei dovuto partire a fine lavoro, non capivo che senso avesse.
- Scusi, Signetti, posso sapere perché me lo chiede?
- Perché ho intenzione di portarla fuori a cena. Naturalmente sarà mio ospite.
Il mio silenzio divenne prolungato e imbarazzante.
- Allora, è libero o ha impegni? - mi sollecitò,
Avrei dovuto declinare quell’invito, ma ragionando rapidamente sui pro e i contro, pensai che rifiutarlo sarebbe stato offensivo, poiché si era messa direttamente in gioco con quell’offerta decisamente insolita.
Un no equivaleva a uno sgarbo e non era una che digerisse di buon grado d’essere mortificata da un rifiuto.
Non potevo neppure inventare una scusa plausibile, poiché già aveva sentito che progetti avevo a fine giornata.
Perché mi stava chiedendo una cosa del genere?
Era evidente che stesse cercando, per qualche motivo, di mettermi in imbarazzo.
Tardavo a rispondere e lei mi precedette: - Ah! Giusto, mi scusi, Grimaldi, avevo dimenticato che il venerdì sera raggiunge la famiglia al mare. Mi perdoni, sono così smemorata, immagino che mi dirà di no. Vero?
Mi stava mettendo alla prova, non capivo perché e a quale scopo, ma quello era un gioco che stava facendo.
Un gioco che ignoravo e in cui lei aveva tutte le carte in mano.
Se volevo scoprire a cosa stesse giocando, avrei dovuto vedere “al buio” come nel poker.
Se avessi accettato, come scusa avrei potuto telefonare a mia moglie che, per un’urgenza di lavoro, mi sarei fermato in ufficio fino a tardi, quindi sarei partito per raggiungerle, di buon’ora, il mattino successivo.
- Sono libero questa sera, Signetti. - risposi deciso - A che ora devo passare a prenderla?
- Molto bene, Grimaldi, ci vediamo alle otto. Ma passerò io a prenderla con la mia auto. Il suo indirizzo lo conosco dalla sua scheda personale.
- Signetti, accetto il suo invito e ne sono onorato, ma c’è un piccolo particolare. - dissi, cercando un tono disinvolto ma assertivo.
- Quale particolare, Grimaldi? Qualcosa non va?
- Assolutamente no. Il particolare è che accetto l’invito a patto che mi permetta d’offrire la cena.
- Ahahaha! - fece una sonora risata – Ho capito, così sarei io la sua ospite. Bella mossa. È un tipo buffo, lo sa?
- No, ho solo una mia consuetudine nelle cene con una signora.
- Lei è uno di quegli uomini moderni, ma fermamente piantati nel passato. Non accettano l’idea che sia una donna a offrirgli una cena, giusto?
- Per carità, Signetti, nessuno più di me è aperto alla parità di genere. Lo chiami bon ton maschile o ciò che vuole, ma a cena con una donna mi è d’obbligo essere io a offrire.
- Ahahaha! - rise ancora – Certo che sua moglie con lei non ha sbagliato il colpo. Comunque, se il conto della cena è un problema, sono felice di lasciarglielo. Ci vediamo alle otto sotto casa sua, sia puntuale.
- Lo sarò. - dissi.

Prima di quella telefonata mattutina e successivamente al nostro incontro alla fotocopiatrice, erano seguiti altri episodi.
La Signetti, grazie ai nostri uffici open space, aveva sott’occhio tutti i miei movimenti, così accadeva che ogni volta che mi spostavo per farmi un caffè al distributore, dopo poco mi raggiungeva, impegnandomi in qualche amena chiacchierata.
Io ero sempre stato di poche parole, nonché poco propenso al fatuo chiacchiericcio confidenziale, pertanto era sempre lei a prendere la parola e scegliere l’argomento del dialogo.
Al contrario di me, era un’ottima conversatrice, la cosa le risultava assai facile.
Era particolarmente dotata per i rapporti interpersonali, non aveva difficoltà a trovare materia anche dallo spunto più insignificante.
Spaziava dalla vita aziendale, alle previsioni meteo, al costo dei generi venduti al mercato, alla politica o alla macrofinanza internazionale.
Più che partecipare a quei dialoghi, li subivo, annuendo o assumendo sorrisi di circostanza per mascherare il disinteresse per quel cianciare futile.
Col tempo, gli argomenti si erano fatti più personali e la cosa, in verità, mi metteva in un certo disagio.
Tenevo alla mia privacy e non amavo mescolare la vita privata con quella lavorativa.
Era però arduo, senza apparire villano, sottrarsi a certe abili incursioni che lei sapeva attuare con domande all’apparenza innocenti.
Inevitabilmente finivi col rivelare cose che avresti preferito tenere per te.
Alle confidenze che riusciva a strapparmi, abilmente, affiancava intime istantanee dalla sua vita personale.
Venivo così a conoscenza di suoi fatti privati che, in verità, ben poco mi appassionavano, ma che, secondo la sua idea, agevolavano una nostra più intima conoscenza amicale.
Essere amico della Signetti era, per altro, cosa che non desideravo affatto.

Giunse a raccontarmi che la sua vita matrimoniale attraversava un momento di stanchezza, cosa che lei, donna di temperamento, trovava frustrante.
Suo marito viveva solo per il lavoro e il golf, attività sportiva che gli portava via la gran parte del tempo libero: occupando quasi tutte le domeniche e le feste comandate.
Le convenzioni sociali e le reciproche posizioni elevate d’impiego li obbligavano a mantenere quel legame coniugale: più simile a un rapporto di fraterna sussistenza, che di due coniugi che si amavano.
Nel parlarmi di queste cose, leggevo nei suoi occhi una luce indecifrabile, come di rassegnazione, ma lo sguardo non cedeva all’amarezza.
Mi chiedevo il motivo di quelle confidenze, che, lasciavano intendere di non essere sentimentalmente impegnata, e parevano mirate a suggerire un’avance da parte mia.
Al momento, le cose erano ferme a livello d’intenzione, tra noi c’erano solo parole e suoi atteggiamenti allusivi, bastava che non prestassi il fianco e non avrei corso pericoli.
Al contempo, temevo che sarebbe venuto il momento in cui, restando inattivo, sarebbe stata lei a passare all’azione.
Infatti, purtroppo, era ciò che stava accadendo.
Ora iniziavo seriamente a temere, si trattava d'una donna non disposta a rinunciare a ciò che voleva prendersi.
Questo mi spaventava, per quanto avrebbe comportato: una relazione clandestina vissuta in azienda, col rischio altissimo d'essere scoperti.
Uno scandalo che avrebbe compromesso la mia carriera, che mi avrebbe costretto a cambiare lavoro, che facilmente sarebbe giunto alle orecchie di mia moglie col danno che avrebbe comportato.
Non avevo mai tradito mia moglie e l’idea d’iniziare a farlo con una donna come la Signetti mi era ostile.
Al di là dell’innegabile avvenenza fisica, restava mentalmente ed eticamente all’opposto di ogni mio ideale femminile.
Era il prototipo della donna di potere: algida e scaltra, abituata a dominare e a soggiogare gli uomini per il proprio tornaconto.
Priva d’empatia, era sicuro che m’avrebbe usato come un giocattolo.
Si sarebbe interessata a me finché la cosa l’avesse divertita, poi m’avrebbe gettato come un rifiuto.
Sarei inoltre divenuto uno scomodo testimone del suo svago, una rischiosa mina vagante, non avrebbe tardato molto a trovare modo di cacciarmi dall’azienda.
Era abilissima in queste cose e ne aveva dato ottima prova.
Allo stesso tempo, capivo che un rifiuto avrebbe generato la sua frustrazione, essere respinta avrebbe acceso un velenoso intento di vendetta.
In tal caso, le mie probabilità di sopravvivenza in azienda divenivano quelle del famoso “gatto in autostrada”.

Avevo la sensazione d’essere in trappola: ovunque cercassi una via di scampo, trovavo una tagliola ad attendermi.


(Continua)