L'incontro Pt. 9

1
[CC25] Partita a tre - Costruttori di Mondi

   
L'incontro Pt. 9


Dopo l’ulteriore infelice episodio della gita scolastica a Modena, mi ero ripromesso seriamente di darmi pace.
Allontanare dalla mente ogni pensiero che potesse condurmi a infrangere quella linea di confine tra la pura amicizia e qualcosa di pericolosamente diverso nel rapporto con Patty.
Trascorsero mesi tranquilli, privi d’occasioni che potessero indurmi in tentazione. Il nostro anno scolastico terminò, iniziarono le vacanze estive.
La mia relazione con Sampo si era fatta solida, senza l’ombra d’una sola nuvola sul nostro orizzonte d’amore.
Trascorremmo l’estate immersi nell’incandescente passione delle anime e dei corpi: facevamo l’amore praticamente ogni pomeriggio dalle tre alle sette di sera.
Poi le vacanze ebbero termine e tornammo entrambi alle nostre rispettive sedi scolastiche.
Al rientro, il rapporto con Patty riprese a scorrere sui binari leggeri e quieti della pura amicizia; nessun turbamento mi sfiorava, sentivo d’aver lasciato alle spalle ogni pulsione interiore d’altro genere.
Ma dicono che, quando Dio dona la farina, il diavolo sia pronto a impastarla.
Avvennero due fatti lontanissimi tra loro, ma che, per la loro coincidenza temporale, procurarono un discreto lavoro al forno diabolico.
Monica, l’amica di Patty e nostra compagna di classe, compiva gli anni in una domenica di fine ottobre.
Abitava in una villetta immersa nel verde, intorno a Rivoli, e i genitori, nel giorno del suo compleanno, le avrebbero lasciato la casa libera perché potesse organizzare una grande festa con gli amici.
Praticamente quasi tutta la nostra classe fu invitata all’evento.
Io, purtroppo, con dispiacere, dovetti declinare l’invito.
Non potevo esserci poiché, non correndo buon sangue tra Sampo e Patty per la famosa questione dell’anello trovato nella nostra soffitta, lei non avrebbe voluto saperne di venire con me e, se ci fossi andato da solo, sarebbe nata una questione infinita.
Mi spiaceva, ma la situazione non lasciava scelta.
Ma una settimana prima dell’evento accadde un fatto assai spiacevole tra me e Sampo, che mutò il corso degli eventi.
Fulvio Trovato, il famoso neopittore amico di Sampo – quello che imbrattava tele che avevano come unico tema campi con tralicci di vite delle colline della Langa – organizzava una mostra in città e l’aveva invitata, con una sua amica, a presenziare al vernissage.
Questo Fulvio era uno scaltro dilettante del pennello e spacciava le sue croste per impressionismo naïf, tirandosela da nuovo Cézanne della bassa piemontese.
Il soggetto mi era sempre stato indigesto, perché, nonostante avesse il doppio degli anni di Sampo, da sempre la tampinava per farsela.
M’infastidiva anche per la faccia di bronzo con cui si millantava artista, cosa che si permetteva grazie a un pubblico incolto, incapace di distinguere qualcosa di artistico da un “bidone” incorniciato.
Inoltre, le sue cazzate su tela riusciva pure a venderle, e questo mi lasciava basito.
Prima che io e Sampo ci mettessimo insieme, la tempestava continuamente di inviti a visitare il suo studio, nello chalet che si era fatto sopra Bardonecchia.
A suo dire, poiché lei aveva studi artistici e gusto, teneva a un suo giudizio sulle ultime opere prodotte.
Ma chi voleva prendere per i fondelli? Nessuno era tanto scemo da bersi questa menata della critica artistica. Quello era un marpione che mirava a farsi la giovincella in forza del fascino da artista decadente. Per fortuna Sampo non aveva mai accettato di fargli visita, e da quando stavamo insieme di lui non si era più sentito parlare.
Ma ora tornava ad affacciarsi con questa storia della mostra e del vernissage, che sembrava fatta apposta per farmi girare le palle.
Inoltre, ciò che me le faceva roteare selvaggiamente era l’atteggiamento di Sampo, che si era mostrata gratificata ed entusiasta dell’invito. Fanculo!...
Pareva apprezzare che lui la stimasse al punto di volerla al suo vernissage per dare un giudizio ai lavori esposti; era gratificata di quella considerazione, felice come una bimba a cui fosse stata regalata una grossa manciata di caramelle.
Sembrava ignorare, ottusamente, il reale secondo fine di quella cortesia pelosa.
Non ero per nulla contento che accettasse quell’invito; inoltre, l’offerta era riservata solo a lei e alla sua amica, io ne ero escluso a priori.
Le espressi subito la mia contrarietà, elencandole le ragioni che la motivavano.
Ma lei liquidava, sminuendole, le mie diffidenze, sia sulle intenzioni recondite sia sulle qualità artistiche del pittorico scalzacane.
«Tu non sopporti Fulvio perché è un artista di successo. È l’invidia che ti rode» diceva polemicamente. «Poi, dato che è anche un bell’uomo, è evidente che ne sei geloso.»
A sentire quelle parole mi montava in spalla la carogna.
Ma come? Era sempre stata concorde con me che lui fosse una schiappa, che non sapesse tenere un pennello in mano.
Che poi, il suo successo commerciale, fosse dovuto più alla sua abilità nelle PR e nel trombarsi le madame dell’alta borghesia che al talento artistico.
E poi, questa stronzata della gelosia che mi significava?
Come se fosse una novità che quello se la volesse scopare?
Che avrei dovuto fare? Mostrarmi indifferente e sereno alle manovre d’uno che voleva trombarmi la ragazza?
«Ma non fare il troglodita» ribadiva lei. «A parte che Fulvio ci tiene a farmi vedere le sue opere perché apprezza il mio giudizio. Lui sa che ho del gusto e della cultura artistica. Inoltre, non ci vado mica sola, ma con la mia amica Serena. Ci sarà tanta gente, non resterò mai sola con lui. Di che dovresti essere geloso?»
Niente, era come parlare al muro, sembrava ipnotizzata: il canto delle sirene o il flauto del pifferaio magico che introna i topi; non capiva o non voleva capire.
Eppure il concetto era semplice, lo avrebbe capito anche un ebete: dietro quell’invito c’era un lampante progetto.
Quell’invito non era che un escamotage per riprendere i contatti; i suoi quadri sarebbero stati l’argomento “civetta” da condividere con lei.
Questo apriva sconfinate praterie di motivi per continuare a sentirsi e vedersi, magari iniziando da innocenti caffè o aperitivi presi insieme, per poi passare a innocenti cenette e chissà che altro.
Ero giovane, ma non sprovveduto e fesso al punto da non capire come il lupo voleva camuffarsi per papparsi Cappuccetto Rosso.
Non c’era storia. Questo Fulvio doveva sparire dalla nostra vita.
Dopo ore di accese discussioni, Sampo diede segno di rinsavire.
- Va bene, ora mi hai stressato! Se davvero non vuoi che ci vada, mi scuserò e gli dirò che non posso. Però sia chiaro che esageri.»
L’abbracciai e baciai teneramente: il mio amore finalmente capiva.
- Comunque, - disse - questa sera, visto che dirò a Serena che non se ne fa niente, faremo una cosa che lei desidera da tempo.
- Ok» annuii. - Cosa volete fare?
- Andare, dopo cena, a trovare il suo ragazzo che ha preso una nuova chitarra elettrica e sta imparando a suonare col metodo “fingerpicking”, tipo alla John Lee Hooker.»
- Bello, magari vengo con voi» dissi, sinceramente interessato.
Lei fece una faccia poco convinta. - No, amore» replicò. - Lui non gradisce che ci siano estranei quando prova, non sarebbe una buona idea.
Luciano, il ragazzo della sua amica, era un fricchettone; a quel che mi dicevano amici che lo conoscevano, era molto bravo a suonare la chitarra, un vero virtuoso del blues.
Io lo ricordavo di vista, perché era nel liceo di Sampo e Serena che avevo frequentato due anni prima.
Ma non ci eravamo conosciuti direttamente; comunque, era uno a posto, per cui nulla da eccepire.
- Ok, portategli i miei saluti» dissi. - Magari si ricorda ancora d’avermi incontrato quando stavamo insieme a scuola.
Tranquillizzato dalla rinuncia di Sampo a incontrare il viscido predatore, mi apprestai a trascorrere una rilassante serata in compagnia d’un buon libro.
Cercai di concentrarmi su una torbida storia noir, ma non ero così sereno: nel fondo della mia coscienza iniziò a formarsi il germe del dubbio e anche qualche rimorso.
Mi chiedevo se non fossi stato troppo precipitoso e superficiale nell’affrontare la questione dell’imbrattatele e del suo invito al vernissage.
Nella sostanza, benché fossi certo delle sue oscure mire verso Sampo, mi domandavo se l’averla indotta a rifiutare quell’invito non fosse stato un atto di prepotenza che reprimeva la sua libertà di scelta.
Non solo: era stato anche un palese segno di sfiducia; con il dare quasi per scontato che lei non fosse in grado di resistere alle eventuali avance del tipo, l’avevo certo umiliata, dando un serio colpo alla sua autostima.
Era difficile, a conti fatti, ignorare che avessi agito da perfetto stronzo.
Povero amore mio, quanto mi amava, riusciva a sopportarmi anche quando mi comportavo in maniera così sgradevole.
Mi sentivo pervaso da un’onda di rimorso e gratitudine: lei era quella che mi aveva salvato dalla prostrazione in cui ero caduto dopo la catastrofica esperienza con Nella.
Era sempre lei, presente al mio fianco, a tenermi la mano quando lo strazio per la morte di Giulio mi aveva sprofondato in un abisso di disperazione.
Come avevo potuto essere tanto ingrato e arido da accusarla quasi di voler compiacere le mire di quello stronzo?
Mi prese un profondo senso di colpa, quasi vergogna di me e della mia bassezza interiore.
Sentivo il bisogno di scusarmi, di farmi perdonare per averla delusa e ferita in maniera tanto meschina.
Avevo bisogno di farlo immediatamente, perché non avrei potuto dormire con quel groppo di pentimento che pungeva come una spina nel cuore.
Solo che non potevo chiamarla al telefono, perché era via con la sua amica a casa del ragazzo di lei.
Peccato che di lui non avessi il numero telefonico, altrimenti avrei potuto chiamare casa sua e chiedere gentilmente che me la passasse, magari con la scusa d’una comunicazione urgente.
Era un bel casino, non conoscevo neppure qualcuno che potesse avere quel numero.
Ero preso da uno scoramento pesante; certo, avrei potuto chiamarla l’indomani, ma non era la stessa cosa, avrebbe avuto il sapore di scuse di comodo, di lacrime di coccodrillo, di una pezza peggiore del buco.
L’unico indizio per rintracciare il ragazzo della sua amica era il cognome che aveva.
Quello glielo avevo sentito dire le volte che parlava di lui: si chiamava Luciano Giordani.
Altra cosa che conoscevo era che abitasse quasi al fondo di corso Unione Sovietica, in un palazzo di fronte alla FIAT Mirafiori, sempre secondo quanto aveva detto l’amica di Sampo.
Stetti a riflettere su questi due dati, mi accesi una sigaretta per concentrarmi, poi mi venne di colpo un’illuminazione.
Forse potevo risalire al suo numero di telefono; sarebbe stata una cosa un po’ laboriosa, ma con un pizzico di fortuna probabilmente ce l’avrei fatta.
Presi la guida telefonica: le Pagine Bianche della Telecom.
Si trattava di capire quali fossero i cognomi identici a quello del ragazzo che avessero abitazione nel tratto di fronte allo stabilimento FIAT.
L’unica sfiga sarebbe stata che il contratto telefonico fosse intestato alla madre, ma era una cosa che ritenevo assai improbabile.
La ricerca fu insolitamente fortunata: il suo era l’unico cognome su una sfilza d’una ottantina di nominativi che avesse residenza su corso Unione Sovietica.
“Bingo!” pensai, con un motto d’entusiasmo.
Tirai un grande respiro per caricarmi: dovevo raccontare una balla per giustificare la mia chiamata.
Composi il numero di casa Giordani dal telefono della mia camera.
Mi rispose una voce femminile dal tono adulto, sicuramente si trattava della madre.
Mi presentai come un vecchio compagno di scuola del figlio e le chiesi, gentilmente, se fosse possibile parlargli al telefono.
Cosa che, con grande cortesia, fece subito, chiamando a gran voce il ragazzo, che giunse alla cornetta nel volgere di pochi attimi.
Mi presentai, scusandomi se lo importunavo.
- Ciao, non ci conosciamo direttamente, non so se ti ricordi di me, due anni fa ero nel tuo liceo.
Lui rispose che non mi aveva presente, ma sembrava voler capire il motivo della chiamata.
- Ti spiego subito, scusami ancora. Conosco la tua ragazza poiché è ottima amica della mia. Sono il ragazzo di Sampo» dissi rapidamente. - Lei mi ha detto che questa sera sono lì da te, insieme, per sentirti suonare la nuova chitarra che hai acquistato. Purtroppo devo comunicare una cosa urgente a Sampo prima di domattina. Quindi mi sono permesso di disturbare per chiedere se cortesemente me la puoi passare un attimo al telefono.
Avevo fatto una lunga sparata senza riprendere fiato.
Raccontare balle mi metteva sempre in difficoltà, mi sembrava che gli altri capissero che mentivo, come mi succedeva con mia madre.
Ma mi era parso d’aver avuto un tono pacato e convincente.
Lui non rispose immediatamente, trascorsero alcuni secondi: troppi per essere solo l’elaborazione della richiesta che avevo fatto.
- Scusami- chiesi. - C’è qualche problema?
- Be’, sì. Uno ci sarebbe - rispose.
Perplesso e sorpreso, replicai: - Che problema? Dimmi.
- Niente, te la passerei volentieri, se fosse qui, ma non c’è.
- Come sarebbe che non c’è? Non sono lì tutte e due?
- No, ti hanno informato male, non possono essere qui.
- E scusa, allora dove sono? - chiesi allibito.
- Ma non ti hanno detto che stasera erano invitate al vernissage di quel pittore amico della tua ragazza?»
Mi calò un’ombra buia davanti agli occhi, un senso di smarrimento.
- Hai ragione! Scusami tanto. Che testa. Me n’ero proprio dimenticato.
Balbettai in fretta, mentre uno sciame di vespe impazzite si affollava nella mia mente.
Lo ringraziai e gli augurai una felice serata.


(Continua)

Return to “Racconti a capitoli”