[MI186] Un pianto dal passato - Costruttori di Mondi
L'incontro – Pt.7
Inutile dire che, benché i punk fossero considerabili una storia parallela al mondo freak, l’estetica che avevano adottato mi era sempre risultata aliena. Tutto quel nero, quella pelle e quella ferraglia che si portavano addosso conferivano loro qualcosa di barbarico, quasi a voler apparire inquietanti e persino pericolosi
Magari era tutta scena, ma il messaggio trasmesso era quello.
Il fatto stesso che, politicamente, quella loro foggia si prestasse a essere adottata sia da giovani d’estrema sinistra sia da gruppi neonazisti, li rendeva difficili da collocare ideologicamente: non si capiva immediatamente se considerarli affini o avversi.
La mia idea di freak, come comunemente la si intendeva fra quelli che frequentavo, proveniva in maniera naturale dalla cultura hippy dei tardi anni Sessanta: ribelli, figli dei fiori votati al pacifismo e all’amore universale.
Il vestire eccentrico e colorato rispecchiava valori positivi e solari, mentre l’abbigliamento punk era improntato a una provocazione violenta; il loro stile richiamava il disagio sociale e un nichilismo estremo.
La loro musica parlava di droghe pesanti, di rivolta violenta e guerriglia urbana.
Insomma, non è che mi stessero proprio sul cazzo, ma non avevamo lo stesso DNA, e questo era evidente.
Non ci tenevo a frequentarli, e loro, giustamente, mi scansavano con uguale diffidenza.
In ogni caso, non era mia abitudine giudicare qualcuno per il proprio abbigliamento, poiché io stesso ero spesso vittima del pregiudizio di chi non gradiva la maniera in cui andavo vestito o portavo i capelli.
Quindi decisi di prestargli attenzione.
La voce di quello che aveva parlato era bassa, ma non aveva la tonalità cantilenante di chi era strafatto.
Entrambi avevano un aspetto sciamannato, ma non da tossici; l’altro non aveva aperto bocca.
Inutile dire che, nello stato in cui versavo, non avevo alcuna voglia di applicarmi a una vendita di fumo.
Solitamente, lo shit lo compravo per il mio fabbisogno.
Era accaduto che ne offrissi gratuitamente un tocco ad amici che ne fossero sprovvisti, ma venderlo non era nelle mie abitudini, per cui risposi con molta flemma e poca convinzione:
- Ho qualcosina per me, poca roba, mi spiace.
Dissi, sperando che si togliessero dalle palle, lasciandoci godere il termine del nostro sballo.
- Stiamo cercando del fumo da tutta la mattina, ma oggi non se ne trova. Quanto ne hai? - chiese quello che parlava.
- Poco, una stecca che sarà neanche ventimila lire.
- Ok, vendicene anche solo metà per un paio di canne. Ci stiamo sbattendo da ore con ’sto tempo di merda, senza rimediare un cazzo.
Ero infastidito, ma anche con poca voglia di tirarla per le lunghe negandoglielo, poiché già sapevo che avrebbero insistito per averne un tocco.
Decisi che gliene avrei dato un pezzo.
- Ve ne posso dare metà, se lo volete. Di più no, che mi serve.
- Ok, va bene, per “dieci carte”. Che roba è?
- È Libano rosso. Libanese.
- Com’è? È fresco?
- Sì, freschissimo, profumato e pungente.
- Ok. Me lo fai vedere? - chiese.
Esitai un momento, guardai con cura la zona intorno: non c’era nessuno, la via era vuota.
Per un secondo mi era sorto il dubbio che fossero uno specchietto per le allodole della narcotici.
Detenere shit per uso personale non era perseguibile per legge, ma la cessione ad altri, come vendita, era spaccio: quindi si andava sul penale.
Ma, osservandoli bene, ci sarebbe voluta molta fantasia per pensare che fossero agenti in copertura.
Se lo fossero stati, il famoso Donnie Brasco avrebbe dovuto cambiare mestiere, tanto erano bravi e credibili nel travestirsi.
Davvero improbabile che la narcotici montasse un “cinema” con quei due disperati per beccare uno che vendeva mezza stecca di fumo da diecimila lire. Ero eccessivamente paranoico, mi stavo facendo una sega mentale inutile.
Con una certa lentezza tirai fuori dalla sacca la confezione di stagnola con la stecca di libanese.
Dopo averla aperta, scostai il sottile strato di nylon in cui era avvolto.
- Annusa - gli dissi, porgendogliela.
Lui la prese, portandola alle narici: ne inalò l’aroma con aria soddisfatta, gli sorridevano gli occhi.
- Allora, come lo trovi? - chiesi compiaciuto.
- Figa! È proprio buono, ottima qualità. Hai ragione.
Embè, non stentavo a crederlo.
A vendermelo con un prezzo di assoluto favore era stato Piero, l’amico e socio di Marco, il cugino di Giulio, che, al loro ritorno dall’India un anno prima, avevano aperto un negozietto d’artigianato indiano in piazza Montebello a Torino.
Quando andavo a trovarli, gli acquistavo sempre qualche tocco di ottimo shit, che quasi sempre avevano in casa, con garanzia di qualità eccellente.
- Bene. Te ne spezzo metà e ve la prendete.
Il compare muto di quello loquace, che si era tenuto a un paio di passi di distanza, a quel punto si rianimò e si fece più vicino.
- Lo fate sentire anche a me? - chiese.
- Ok. Faglielo annusare – dissi al primo.
L’amico glielo passò, e lui lo portò alle narici.
Fece la stessa aria soddisfatta dell’amico, poi riavvolse il nylon e richiuse la stagnola della stecca.
A quel punto, in una frazione di secondo, invece di ripassarla a me, se la infilò in tasca e, con uno scatto fulmineo, entrambi iniziarono a correre verso il fondo della via.
Ero rimasto stranito per la rapidità con cui tutto era avvenuto.
- Cazzo! - urlai. - ’Sti bastardi mi hanno fregato lo shit!
Patty e Monica, destate dall’urlo, balzarono in piedi, confuse e con volti allarmati.
- Quelli, scappano col mio shit! - gridai, indicandoglieli, mentre scattavo all’inseguimento dei due sciamannati.
Loro, dopo un attimo di smarrimento, iniziarono a correre, seguendomi a rotta di collo.
La via era corta; al fondo svoltava a destra in una traversa minore.
I due erano già scomparsi, imbucandosi in quella.
Giunti alla svolta, di loro non c’era traccia.
Diversi vicoli e viuzze si affacciavano su entrambi i lati della traversa. Correndo trafelati, gettammo sguardi sulle prospettive delle traverse, ma niente: altre viuzze si dipartivano, era un vero dedalo, impossibile inseguirli.
Sapeva solo Iddio dove cazzo fossero finiti quei due stronzi.
Fare attività fisica dopo aver fumato non era certo la scelta ideale.
Avevamo il fiato corto, la lingua fuori, i cuori in gola e la tachicardia per l’adrenalina che ci scorreva in corpo.
Appoggiati a un muro, mezzi piegati in due, ci fermammo a cercare di recuperare il fiato, con facce da colpo apoplettico.
Mi sentivo un indicibile coglione, preso da un astio feroce, frustrato per essermi fatto fregare in una maniera tale che nemmeno un bambino col ciuccio ci sarebbe cascato.
La mia dabbenaggine bruciava molto più del danno per il furto: il mondo dei furbi ci campava con idioti come il sottoscritto in giro.
La mia opinione sui punk non ne usciva migliorata.
Una rondine non fa primavera, ma due punk ladri insieme fanno sicuramente una coppia di figli di puttana.
Con facce da funerale, l’effetto del fumo ormai svanito, ci avviammo al punto d’incontro per il ritorno.
Era ancora presto, eravamo i primi ad arrivare; di compagni e professori non si vedeva ancora nessuno, l’automezzo era deserto e le porte ancora chiuse. Anche l’autista se la prendeva comoda, facilmente stava prendendo un secondo caffè contro l’abbiocco del dopopranzo, al tavolino di qualche bar nelle vicinanze.
Il sole si era nuovamente nascosto sotto un cielo cinereo, molto intonato al mio umore del momento.
Stava anche ricominciando a piovere.
(Continua)
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