L'incontro Pt.2

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[Lab14] Scialle con le frange a Berlino - Costruttori di Mondi



L'incontro Pt.2


Fu Sampo, nel togliere il copriletto, a fare lo sfortunato rinvenimento, all'interno della nostra soffitta-alcova d'amore.
Con un'espressione schifata, come se tenesse per la coda un ratto di fogna, lo prese con due dita e me lo mise sotto il naso:
«Questo che sarebbe?» chiese con tono inquisitorio.
«Direi un anello» risposi candidamente, ma conscio dell'idiozia insita nella risposta.
Subito la mente mi entrò in un loop di panico, mentre un gorgo d'angoscia si spalancava sotto di me per inghiottirmi.
«Non dire cretinate!» fu la risposta, secca come una scudisciata.
«Lo so anch'io che è un anello. Ma visto che non è mio, che ci fa nel nostro letto? E soprattutto, chi ce l'ha messo?»
«Ma sei proprio sicura, amore, che non sia tuo?» tentai di insinuare velleitariamente un dubbio.
«Sei scemo o fai il furbo? Non provarci, che m'incazzo davvero!»
Avrei voluto rispondere che ignoravo a chi potesse appartenere il gioiello, magari attribuendo quella comparsa a un fenomeno "poltergeist", ovvero di materializzazione soprannaturale di oggetti nello spazio, ma non credevo che avrebbe risolto la situazione.
Inoltre, l'aria inferocita che aleggiava nel suo sguardo suggeriva di misurare con attenzione ogni parola.
Stavo senza dubbio con la merda fino al collo e senza idea di come uscirne.
Cazzo! Quell'anello era indubbiamente di Patty.
Quella benedetta ragazza doveva proprio perderlo nel nostro letto, ficcandomi in quel casino cosmico?
Lo ricordavo bene al suo anulare: aveva una circonferenza di poco più grande del dito e lei, nei momenti di noia, ci giocava, sfilandolo e rinfilandolo distrattamente lungo la falange.
Lo faceva mentre era assorta nei pensieri o chiacchierava; quel tic se l'era portato fin dentro le nostre lenzuola, magari conversando col suo tipo dopo aver finito di scopare.
Non potendo fare altro, fui costretto a confessare che avevo prestato la soffitta alla mia amica e al suo ragazzo, senza dirle nulla.
Apriti cielo! Non credette a una sola parola.
A suo dire, in quel letto c'ero stato io con Patty a fare porcate e, fatto esecrabile e poco igienico, non avevo neanche cambiato le lenzuola su cui avevamo consumato quel perfido tradimento.
Venni investito da una furia di recriminazioni del tipo: «Io me lo sentivo che quella zoccola ti faceva gli occhi dolci e tu, che sei un porco, ci stavi!» seguite da sanguinosi appellativi e insulti verso lei e me.
«Schifoso! Dillo che non aspettavi altro che te la mollasse! E poi venire a fartela sul nostro letto. Sei una merda!»
Naturalmente, per quel giorno di scopare non se ne parlò, ma nemmeno per le successive sei settimane, nelle quali mi tenne il muso con un'aria profondamente ostile, senza quasi rivolgermi la parola.
Io ne soffrii molto, sia perché amavo Sampo in maniera devota e assoluta – lei era per me speciale, ne ero innamorato fin dal primo anno di liceo – sia perché rappresentava l'ultimo dono fattomi dal mio fraterno amico Giulio, prima che lasciasse questa vita terrena.
Era stata il generoso sostegno psicologico durante i lunghi mesi di lutto seguiti all'infausto e doloroso evento della sua scomparsa.
La nostra sintonia affettiva e fisica era totale.
A letto sfioravamo apici di perfezione: facevamo l'amore con passione e fantasia quasi ogni giorno.
Ero profondamente certo che sarebbe stata la donna della mia vita e che avrei trascorso con lei il futuro che avevo davanti.
Per quanto giurassi in tutte le salse che tra me e Patty non ci fosse mai stato niente, quell'evento sciagurato restò una macchia indelebile sulla mia credibilità, segnando il resto della nostra esistenza di coppia.
Anche dopo decine d'anni, ogni volta che la mia buona fede veniva messa in dubbio per qualche circostanza riguardante un'altra donna, il deprecabile episodio veniva riesumato come capo d'accusa: «Ricordati che tu sei capace di tutto! Sei quello dell'anello lasciato nel nostro letto da quella troia che ti sei scopato nella nostra soffitta.»
Si dice che le colpe dei padri ricadano sui figli; io ebbi la fortuna di scampare a questa sventura: con Sampo generammo un'unica, amatissima figlia femmina, e questo mi salvò dal condannare un mio discendente maschio a questa sorta di peccato originale.

Ripensando al sogno che riguardava Patty, ricordavo che la sera prima mi ero esercitato alla chitarra col pezzo di Guccini Incontro, che narrava, giustamente, di un incontro avvenuto su delle scale tra due ex che non si vedevano da anni. Il riferimento di quella situazione sognata era lampante.
È noto che la mente, talvolta, affidi al sogno aspirazioni della nostra vita rimaste incompiute o dia spazio a qualche desiderio inconfessabile.
Che il suo ricordo mi fosse rimasto presente come l'abbozzo nostalgico di un disegno mai terminato era un fatto certo.
Diversi anni dopo la conclusione del liceo, avevo scritto, con tutti i miei limiti di autore, musicista e interprete, una canzone dedicata a lei, intitolata Patty.
La prima strofa la ricordavo ancora bene:
«Patty, nel silenzio della sera,
tu raggiungi la tua casa.
Mi hanno detto che ora vivi sola.
Patty, Patty, quanto tempo da allora...» ecc.
Era una canzone dalla melodia semplice, in un giro di Do maggiore, con gli accordi più elementari appresi tentando di imparare a suonare la chitarra. L'avevo scritta pensando a lei, poiché dopo l'esame di maturità non avevo più saputo dove fosse sparita.
Siccome Sampo aveva come secondo nome "Patrizia", ebbi buon gioco a giustificarne il titolo dichiarando che la canzone fosse per lei: cosa che, in ogni caso, non la convinse molto.
Pertanto, in genere, preferivo eseguirla quando non era nei paraggi.

Patty, nella nostra classe, aveva un'amica del cuore con la quale faceva coppia fissa: Monica Dalmasso, una brunetta minuta ma ben formata, dotata di un carattere vivace e ricco di spirito, con un viso rotondo e paffuto, guarnito da occhialini alla John Lennon per una lieve miopia.
Appresi da lei della scomparsa di Patty, avvenuta in seguito all'esame di maturità, che non aveva superato.
Io, dovendo recuperare un anno perduto in seconda liceo – perché ero stato bocciato a causa di una lunga serie di assenze e una condotta turbolenta – avevo deciso di presentarmi agli esami di terza e quarta e dare la maturità un anno prima dei miei compagni di classe.
Pertanto, non ero più presente quando avevano affrontato l'esame di maturità e, di conseguenza, non avevo seguito le loro vicende.
Patty viveva a Torino, ospite presso una zia, mentre la sua famiglia era d'origine e residenza veneta, per il suo desiderio di frequentare il Liceo Artistico.
Dopo il fallimento alla maturità, i genitori non intesero più mantenerla agli studi lontana da casa e le ingiunsero di tornare a Vicenza per trovarsi un impiego.
Lei, pur di non tornare a casa, cercò una sistemazione come ragazza alla pari presso una famiglia dell'hinterland londinese.
Con lo stesso lavoro, in seguito, aveva proseguito analoghe esperienze in Francia.
Da lì in avanti, non aveva più dato notizie di sé, nemmeno alla sua amica; quindi, se ne erano perse le tracce, e nessuno aveva idea di dove fosse finita.
Queste erano le uniche informazioni che avevo di lei.
Mi restava solo il ricordo di quegli anni scolastici e il seguirla col pensiero nel suo vagare, solitaria, per l'Europa.
Il nostro primo incontro avvenne quando, allontanato dal 2° Liceo Artistico torinese, sito in piazza Omero, per le mie numerose assenze e una lite in cui ero venuto alle mani con un professore di destra per divergenze concettuali, fui costretto a ripetere il secondo anno di scuola, iscrivendomi al 1° Liceo Artistico, situato all'interno dell'Accademia di Belle Arti, in centro città.

In quegli anni, la nota saliente di quel liceo era costituita dall'aspetto colorato ed eccentrico dei suoi studenti: dominava il post-hippy, che si manifestava nelle fogge d'abbigliamento e nella concezione di pensiero.
Quando giunsi nella mia nuova classe, portavo capelli lunghi e mossi fino alle spalle, come Jimmy Page, il chitarrista dei Led Zeppelin.
Vestivo un giaccone bianco di montone rovesciato, trapuntato di fregi a motivo indiano, che arrivava alle ginocchia.
Per l'uso intensivo e assai disinvolto che ne facevo, di quel bianco restava solo un pallido ricordo, sotto uno strato di lerciume.
A me piaceva perché lo vedevo simile a quello indossato da Jim Morrison, mentre per mia madre ero l'esatta copia, in versione sudicia, di un incrocio tra uno zingaro e un pastore sardo.


(Continua)

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