[Lab 9] A sicut erat - Com'era prima (cap. 1 di 5)

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Capitolo 1
 
Mancavano un paio di giorni alla festa dell’Assunta, aspettata con pazienza e pacato entusiasmo nel paese di Bauflores; più che per la festa religiosa  per la colossale sagra della capra arrosto che attirava moltitudini di turisti. Era piacevole vedere quella scia di legna ardente scendere come una colata lavica  dalla collina affiancata di olivastri millenari, con la chiesetta in cima che dominava il mare. Legna pregiata  bruciava emanando un gradevole odore, facendo tossire e lacrimare i turisti che si avvicinavano per fotografare gli spiedi accuditi da un gruppo di volenterosi paesani.
I vecchietti di Bauflores aspettavano nel lungomare sotto la chiesa, ombreggiato da pini mediterranei, olivastri e carrubi che  gettavano la loro ombra sulla spiaggia sottostante costellata di ombrelloni e gente sdraiata al sole. Il mare cambiava colore a seconda della predominanza di scogli sommersi: in taluni tratti era verde scuro, in altri violaceo e cupo come il vino, poi così limpido  che guardando dall’alto pareva che le barche fossero sospese nell’aria e chi si immergeva in quei punti aveva l’impressione di precipitare nel vuoto. Piccoli bar in mezzo alla frescura degli alberi, vecchi tavoli e sedie per soddisfare  le  esigenze della gente, con il sole a quaranta gradi.
I vecchietti  osservavano silenziosi e pacifici lo spettacolo dei turisti in movimento, seduti su panchine e in piedi sotto gli alberi. C’erano anche Pedru Cumbianu, detto Stadera e Vincenzo Stabesu, detto Kaffettera, ormai prossimi agli ottanta anni.
― Tutto questo non è che mi piace molto ― disse pensieroso Stadera, scocciato e scuotendo la testa.
― Cosa non ti piace? ― chiese Kaffettera, pur sapendo da sempre cosa non piaceva al suo amico.
― Ma per esempio quella gente che sta salendo in chiesa.
Indicò un gruppo di uomini e donne dai capelli bagnati, in maglietta, pantaloncini corti e zoccoli di legno che battevano sugli scalini di pietra. Le donne in costume da bagno gocciolante, cappello messicano in testa e un pareo trasparente. Stadera si accese un mozzicone di sigaro e continuò ― Stanno andando in chiesa. Il prete non dovrebbe farli entrare conciati così.
― Eh, quando c’era don Salvario! ― disse un altro annuendo.
― Uh! Ma parli di cinquanta anni fa! Ma era un altro mondo!
― A me non piace questo di mondo! Non lo dovevano cambiare! ― disse Stadera mettendosi il pezzo di sigaro con la brace all’interno della bocca.
Alcuni giovanotti su monopattini frenarono davanti a lui, talmente vicini che il loro odore di bagnoschiuma investì l’uomo, facendogli storcere il naso.
― Ma si è messo la brace  accesa in bocca? ― domandarono increduli i ragazzi.
― Può essere ― rispose Stadera a mezza voce, guardandoli dritto negli occhi come un cinghiale snidato dal suo rifugio e senza togliersi il sigaro di bocca.
― Ma dai! È figo ragazzi!― e tirarono fuori i cellulari per immortalarlo. Stadera si innervosì.
― Ma andate a squaddigarvi  (sfracellarvi…) negli scogli sotto la torre. Cosa mi fotografi?― E arretrò mettendo le mani davanti mentre i ragazzi, fatte le foto, si dileguarono a tutta velocità ridendo e scambiandosi commenti.
I compagni di Stadera ridevano divertiti. A Placidotto venne un colpo di catarro e cominciò a tossire diventando paonazzo, ma continuando a ridere tenendosi la pancia. Due carabinieri erano poco distanti, uno era il maresciallo Jaddanu che avendo visto la scena e stava accennando un sorriso.
― E dai, ziu Pedru, adesso dite ai turisti anche di andare a schiantarsi?
― Tanto mica hanno capito! Pensano di essere allo zoo a fare fotografie!
Il maresciallo annuiva divertito ― Eh! Lo so che non hanno capito. Bisogna avere pazienza con la gente.
― La pazienza non ci manca.
I carabinieri continuarono il loro giro.
Stadera si sedette in silenzio, tirò un paio di boccate dal sigaro poi lo tolse di bocca: si era spento. Pulì la brace scuotendola con le dita nodose e se lo mise in tasca. Per un po’ stette in silenzio, i turisti  andavano e venivano dal paese alle spiagge e ai bar sotto i pini, passando davanti a loro come se non esistessero.
― C’è anche un’ambulanza ― disse Kaffettera indicando un punto con il dito.
― Hanno accompagnato Virginia all’ospedale a fare le lastre.
― Era meglio se non ci andava.
― Meno male che l’hanno riportata viva!
― Quanti anni ha Virginia?
― È del Ventiquattro, fatti i conti.
Annuirono. Aggiunsero qualche aneddoto su come ricordavano Virginia a diciotto anni, poi a trenta, quando era rimasta vedova senza figli e non si era più risposata. Ora viveva sola, con una badante straniera. Si guardarono tutti, assentendo  pensierosi.
― Ma cos’è questo odore, ancora quel bagnoschiuma da vomito?
― No. È quella roba per proteggere la pelle dal sole ― disse Stadera.
― Ogni anno mia nuora vuole che mi metta quella crema e io ogni anno le dico di lasciarmi perdere. Preferisco il sole, se la metta lei la crema. E lei si offende.
― E tuo figlio che dice?
― Martino non dice niente. Ride.
― Ehh!― fece Kaffettera, che anche lui aveva un paio di figli sposati che erano andati a vivere in città.
― Ehh!! Così è la questione! Fai tanto per i figli e poi se ne vanno!
― Ma forse è meglio che vivono in città. Qui non c’è niente ― disse  Placidotto con avanzi di tosse in gola e agitando le mani intorno che per poco colpiva in faccia una turista che si mostrò indignata.
Placidotto alzò le mani per scusarsi e arrendersi.
― Non c’è niente perché i giovani se ne sono andati! Noi vecchi che possiamo fare?
― Ma non facciamo niente! Abbiamo la pensione dell’agricoltura. Che si arrangino tutti!
― Non vale la pena farsi sangue amaro! Poi ci viene un infarto!
― Amen!
Guardarono l’orologio.
― C’è tempo, c’è tempo! Ancora due giorni alla festa!
― Se la ricorderanno la festa!
― Meglio che non ci sentono!
Guardarono un paio di camper che transitavano in quel momento gocciolando liquame dalla puzza di pesce guasto che spandendosi sull’asfalto si fondeva con il l’ odore del  catrame in ebollizione sotto il sole.
Stadera aveva deciso di darsi una calmata,  sentiva il cuore in agitazione ma non voleva darlo a vedere, poi Annedda lo avrebbe tormentato per andare a farsi visitare e non era il caso a due giorni dalla festa, con tutto quello che doveva fare. E poi, cosa da tenere conto,  non voleva che nessun dottore gli mettesse le mani addosso. Voleva accendersi un altro mozzicone di sigaro, poi forse sarebbe andato al bar per una birretta ghiacciata, quando vide un ragazzino camminare davanti ai genitori che avevano  le mani occupate da buste della spesa del vicino minimarket. Anche il ragazzino aveva qualcosa in mano, una confezione di plastica sottovuoto di carta musica del forno locale.
Il ragazzino, biondo e bianco, ustionato dal sole, con due occhi così azzurri che sembrava un pesce, poggiò la confezione di carta musica sopra il muretto che delimitava il marciapiede in discesa che dava sul mare sottostante. Stadera lo guardava fisso come un cane da guardia. Non gli importava che quel moccioso bianco come formaggio di primo sale, profumato di olio solare gli passasse davanti,  temeva che si avverasse una cosa. Che si avverò.  Il ragazzino era convinto di avere scoperto la ruota, cominciò a far rotolare la confezione sopra il muretto, divertendosi un mondo e tenendola perché non cadesse a terra. Ma il danno era fatto. Rotolando, la carta musica friabile si era sbriciolata dentro la confezione.  Era un peccato mortale ridurre così il pane,  e non importava che non lo avesse mai visto un pane rotondo,  rigido, fine come un’ostia e così fragile, da trattarsi con cura fino al momento di portarlo a tavola, bagnarlo in acqua per ammorbidirlo, mangiarlo assieme ad altre pietanze… Era un peccato e basta, che lo sapesse o no. Stadera guardò i suoi amici, che anche loro seguivano la scena in silenzio,  scuotendo la testa. Ma nessuno interveniva. A cosa sarebbe servito? Già, a cosa?


continua
Si salveranno solo coloro che resisteranno e disobbediranno a oltranza, il resto perirà.
(Apocalisse di S. Giovanni)
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