[Lab 9] A sicut erat - Com'era prima (cap. 2 di 5)

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Capitolo 2
 
Stadera si avvicinò al muretto bloccando il ragazzino, gli prese la confezione di carta  musica indicando a gesti che si era rotta. Inutile parlargli: era straniero. Il ragazzino fece una smorfia di disgusto mostrando i suoi  denti cinti da un apparecchio metallico, gli strappò di mano la confezione, frantumando ulteriormente la carta musica e cominciò a urlare  come un ossesso. Intervennero i genitori dietro di lui affrettando il passo. Il padre, un energumeno biondo di due metri, barba da francescano, orecchino da corsaro, coda di cavallo e tatuaggi cinesi su braccia  e gambe  aveva uno sguardo omicida. Cominciò a urlare, poi urlò la madre e continuò il figlio. Tutta la famiglia. Il tutto attirò una folla di curiosi fra cui turisti italiani istruiti che capivano quel linguaggio. Tanto è vero che uno di loro, un italiano  ustionato come un gambero, rivolgendosi indignato a Stadera gli disse ― Ma cosa stavi facendo al bambino? Vergognati!
Stadera si ritrovò circondato da altri di turisti che lo guardavano male.
― Chiamate i carabinieri! ― disse qualcuno. ―Sono passati qui poco fa!
Kaffettera si fece avanti ansimando, alzando le mani come a placare una rissa dicendo ― Signori! Signori! Ma niente è successo! Ma non capite!? Il bambino stava rompendo la carta musica e lui voleva dirgli di non farlo altrimenti è da buttare! Ma è proprio così la questione!
Ma nessuno capiva questo tortuoso concetto autoctono. La folla aumentava, qualcuno agitava i pugni, altri fotografavano con i cellulari, l’ambulanza non riusciva a passare. I vecchietti del gruppo si erano alzati in piedi, guardando la scena preoccupati. Vennero  i carabinieri. Come Stadera si vide davanti il maresciallo Jaddanu  tentò di parlare ma la voce gli si strozzò in gola, il mondo  vorticò intorno e portandosi le mani al petto  si ritrovò faccia a terra senza sapere come. L’unica cosa che lo confortava era quel bell’odore di catrame caldo dell’asfalto che gli ricordava la nafta del motore per tirare l’acqua dal pozzo per innaffiare l’orto ai suoi bei tempi.
― Spostatevi! ― urlava il maresciallo chinandosi su Stadera e reggendogli la testa. ― Fermate l’ambulanza!  Ma  che succede ziu Pedru? Come vi sentite? Che succede?
― Glielo dico io! Glielo dico io! ― urlò Kaffettera facendosi largo e spiegando al maresciallo cos’era successo. Il maresciallo si tolse il berretto, fece cenno alla folla di allargarsi e parlò ai genitori del bambino. Kaffettera e gli altri vecchietti lo ascoltarono allibiti: il maresciallo Jaddanu sapeva parlare la lingua di quella gente! Sì. l’inglese del maresciallo Jaddanu era molto buono. I genitori ascoltarono quel carabiniere alto come loro e se ne andarono senza guardare nessuno. Il maresciallo spiegò le cose alla folla che cominciò a diradarsi delusa. Qualcuno rimase, per accertarsi se Stadera moriva sul posto e aggiungerlo alle foto delle vacanze. Stadera non si alzava da terra, ansimava. Arrivò l’ambulanza, con la sirena languente a tratti come un cane bastonato, spalancarono i portelli,  fecero rotolare fuori una barella, scese un infermiere.
Stadera vide la scena. Sollevò  una mano. ― Non voglio… Non voglio…
― Per il vostro bene ziu Pedru. Vi portano all’ospedale per visitarvi. Per il vostro bene, state  tranquillo… No, non fate così ziu Pedru…― diceva il maresciallo aiutando a mettere Stadera sulla barella.
― Non… Non ditelo a mia moglie.  Non ditelo… ― disse Stadera levando imperioso l’indice come un iman levantino.
― Ci penso io. State tranquillo. Penso a tutto io.
L’infermiere ascoltò il cuore, fece un cenno ai barellieri che caricarono Stadera come fosse una balla di fieno e se ne andarono a sirene spiegate.
 
Il giorno dopo Kaffettera  in casa sua parlava con sua moglie Chiaretta.
― Si sa qualcosa?
― Niente. Annedda ha telefonato al figlio per andarlo a trovare.
― Ma non sarà niente.
― Che ne sai tu?
Squillò il telefono. 
― Vai a rispondere  ― disse Chiaretta.
―  Pronto?
― Kaffettera?
― Chi sei?
― Porca la miseria ladra! Stadera sono!
― Ehi! Ma come stai? Come facciamo domani?
― Sto bene, facciamo tutto. Vienimi a prendere.
― Ma vogliono andare a trovarti Annedda e tuo figlio…
― Non voglio che mi vedono qui. Vieni  adesso tu con la motoape.
― Ma sono quaranta chilometri…
― Ne avrai fatti milioni di chilometri con quella motoape…
― È un po’ scassata, lo sai.
― Non me ne frega un... Vienimi a prendere ti ho detto! O mi butto da una finestra, se le aprono! Questo posto è un manicomio ghiacciato! C’è pure un frate che da le immaginette! Io muoio se sto qui! Devo essere per forza in paese per la festa! Devo!
― Non fare niente Kaffettera, arrivo. Ma da dove telefoni?
― Mi hanno prestato quel coso… il cellulare, e fatto il numero. Vieni adesso!
― Adesso…
 
― Non vede che esce fumo? ― disse la vigilessa, una ragazza piccoletta, rotonda e simpatica, i grandi occhiali da vista appannati dal sudore, guardando la motoape di Kaffettera che sbuffava, per rendere onore al soprannome del suo padrone.
― Sì, è colpa della miscela.
― Ma da dove viene?
― Da Bauflores.
― Con la motoape?
― Mica è proibito.
― Ma è  tutta salita!
― A scendere è meglio, ha ragione. Questo è il parcheggio dell’ospedale?
― Sì.
― Devo andare a trovare un amico.
― Le visite sono dalle sei.
― Che ore sono adesso?
― Le quattro.
― Mi faranno entrare lo stesso?
―  Provi.
― Quel frate perché entra adesso?
― È frate Girolamo, il cappellano.
 
Kaffettera si avvicinò in portineria
― Si entra dalle sei ― gli disse un annoiato ragazzotto dietro un vetro, sollevando a fatica la testa dal cellulare.
― Devo dire una questione urgente a frate Girolamo.
 Il ragazzotto non capì bene.
― Cioè?
Kaffettera gli mostrò il rosario che aveva in tasca, ricordo di sua madre.
― E per l’ostia a uno che sta morendo. Non ho fatto in tempo prima. Entro, consegno ed esco subito.
Il ragazzotto cercava di pensare, faticava a collegare i fatti.  Kaffettera era un simpatico innocuo vecchietto ad ogni modo.
― Va… bene. Frate Girolamo è appena entrato.  ― disse il ragazzotto schiacciando il pulsante della portineria.
Dentro l’ospedale  l’aria condizionata  ti gelava l’anima. Kaffettera si perse. Leggeva i cartelli:  non ci capiva niente.
― Devo dare il rosario a un ricoverato ieri, si chiama Stadera… Cumbianu Pietro di Bauflores ― disse a una donna con un camice verde.
― Piano sopra. Cardiologia.
Al piano sopra oltrepassò una vetrata con a fianco la medicheria, camminò ancora  ed entrò in un lungo corridoio con un finestrone in fondo che dava sulle montagne incendiate da poco. Si sentiva l’odore della cenere.
 Sentì la voce di Stadera dalla prima stanza a destra.
― Lo so padre. Ma io non posso stare qui. Me ne devo andare. Stanno venendo a prendermi.
― Ti capisco figliolo, ma…
― Quanti anni avete padre?
― Cinquantadue.
― Io settantotto. Molto lieto. Me ne devo andare.
Kaffettera entrò e vide Stadera  sdraiato in un letto con un  pigiama a strisce che sembrava il carcerato di un film comico in bianco e nero degli anni Sessanta.
La stanza aveva otto letti, oltre a Stadera c’erano altri tre anziani che guardavano il soffitto con gli occhi spalancati e la bocca aperta, come davanti a una visione.
―  Ecco l’amico che è venuto a prendermi, come le dicevo ― disse Stadera rivolto al frate e alzandosi.
― Ma hai parlato con i dottori, figliolo?
― Moltissimo. Hanno tutti ragione. Me ne vado subito.
Mentre Stadera prendeva i suoi vestiti da un armadietto davanti al letto, Kaffettera si avvicinò al frate e mettendosi la mano davanti alla bocca gli parlò sottovoce.
― Vuole morire a casa sua. Non ne ha per molto anche se sembra  sano. I dottori  gli hanno permesso di tornare a casa, ho firmato io, sono un parente.
Il frate annuiva pensieroso.
Stadera  si cambiò. ― Andiamo ― disse e rivolgendosi piano al frate ― Si dedichi a quegli uomini.  Hanno fatto tutte le cure e preso tutte le medicine  che gli hanno dato i dottori, infatti stanno già guardando il paradiso. Li aiuti:  gli dia un’immaginetta.
 
Si salveranno solo coloro che resisteranno e disobbediranno a oltranza, il resto perirà.
(Apocalisse di S. Giovanni)

Re: [Lab 9] A sicut erat - Com'era prima (cap. 2 di 5)

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Alberto Tosciri ha scritto:
―  Pronto?
― Kaffettera?
― Chi sei?
― Porca la miseria ladra! Stadera sono!
― Ehi! Ma come stai? Come facciamo domani?
― Sto bene, facciamo tutto. Vienimi a prendere.
― Ma vogliono andare venire a trovarti Annedda e tuo figlio…
Alberto Tosciri ha scritto: C’è pure un frate che da le immaginette! Io muoio se sto qui! Devo essere per forza in paese per la festa! Devo!
Alberto Tosciri ha scritto:
Il frate annuiva pensieroso.
Stadera  si cambiò. ― Andiamo ― disse e rivolgendosi piano al frate ― Si dedichi a quegli uomini.  Hanno fatto tutte le cure e preso tutte le medicine  che gli hanno dato i dottori, infatti stanno già guardando il paradiso. Li aiuti:  gli dia un’immaginetta.
Sagace il vecchietto...

La tua storia incuriosisce il lettore. Questi due arzilli vecchietti cosa stanno pensando di combinare alla festa del paese?   ;)
Di sabbia e catrame è la vita:
o scorre o si lega alle dita.


Poeta con te - Tre spunti di versi
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