[Lab7] Angelo azzurro - capitolo 1

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[Lab7]  Angelo azzurro


Quella era una strana giornata: appena aveva aperto gli occhi non aveva potuto che stupirsi per l'intensità dell'azzurro nel cielo.
Si era svegliato con una canzone di Battisti che gli ronzava nella testa, era anni che non la sentiva, ma da ragazzo gli piaceva un sacco:

“Acqua azzurra, acqua chiara
Con le mani posso finalmente bere
Nei tuoi occhi innocenti
Posso ancora ritrovare
Il profumo di un amore puro
Puro come il tuo amor“

Era una vecchia bella canzone: Mogol a quei tempi andava alla grande con i testi.
La storia raccontava di uno che era stato mollato dalla donna, e ogni sera andava a cercarsi una mignotta in qualche bar.
Poi aveva, finalmente, incontrato una ragazza per bene, che gli aveva fatto ritrovare un amore puro, a quel punto, aveva smesso di frequentare bar equivoci alla ricerca di figa.

Ma ovviamente tutto questo era irrilevante.
Il fatto realmente significativo di quella nuova giornata era che Azzurra l'aveva mollato.
Era stato un addio molto stringato e preciso, di quelli definitivi.
Gli aveva mandato un messaggio esplicito in whatsapp:
“Fottiti e crepa! Brutta merda!”
Se c'era una qualità in quella ragazza, era l'essere estremamente diretta: quello che voleva dirti, lo diceva con chiarezza, senza inutili giri di parole.
Dopo il messaggio lo aveva anche bannato, senza dargli la possibilità di replicare.
Che poi anche volendo, a un messaggio così, che cosa avrebbe potuto replicare?
Mica poteva scrivergli qualcosa del tipo: “Ma, no. Ciccina che dici, parliamone dai.”
Di che volevi parlare? Cosa mai c'era da dire? Inutile cercare di giustificarsi o discolparsi: dirle che no, che era tutto un equivoco, uno scherzo.
Col cazzo che ci avrebbe creduto.
Poi, perché essere così perentoria? Magari visto che lo lasciava, avrebbero potuto scopare per l'ultima volta: era un bel modo romantico di dirsi addio.
Ma figurati, manco sarebbe stata a sentirlo.
Lei era così nelle sue cose: o bianco o nero, niente mezzi toni, intransigente fino a essere ottusa.


Comunque l'essere stato mollato, non era la cosa più spiacevole di quel risveglio mattutino: l'amore è importante, questo è sicuro, ma la pelle non è solo importante, è indispensabile...di tenersela.
Sì, perché c'era un secondo messaggio: questo non era scritto, ma un vocale.
- Ciao stronzo! Sono il “Molleggiato”, ti ricordi di me? Ti sei preso la mia roba vero? Ci vediamo presto coglione.
Certo che se lo ricordava quello: smilzo, dinoccolato, con la passione per Celentano, convinto pure di assomigliagli, che poi in effetti era brutto e con la faccia da scimmia scema.
Ma col vero “molleggiato” non aveva nulla a che spartire, inoltre, era anche stonato quando si ostinava a cantare “Azzurro”, facendo la faccia da duro come l'Adriano nazionale.
Per altro a lui quella canzone era sempre stata sul gobbo: odiava nei testi le imprecisioni linguistiche.
Infatti non aveva mai compreso come fosse successo che, l'ottimo autore: Paolo Conte, avesse potuto incorrere in quel sanguinoso svarione grammaticale.
Il pezzo in cui diceva: - “Egli” è partita per le spiagge – era marchianamente sbagliato, poiché trattandosi di una donna avrebbe dovuto usare un “lei” o un “ella”.
Però il Molleggiato, una cosa di quell'atteggiamento spavaldo l'aveva davvero: essere un vero duro.
In effetti era cattivo come una bestia, quando le bestie sono cattive.
Anzi pure di più, era proprio una carogna “inside”, una vera fogna di stronzi.
Quindi quel messaggio non era da prendere sottogamba.


A tal proposito doveva ricordarsi di mettersi in tasca la confezione di pallottole che teneva nel mobiletto del bagno, per la Beretta che teneva nel cassettino del Suv: meglio essere pronti in caso di discussioni con l'orango.
Aveva avuto a che fare con lui in passato, per una storia di certe fuoriserie rubate, da taroccare e spedire sui mercati mediorientali.
Si conoscevano, ma lui non avevo più voluto fare affari con lui.
Era uno violento, stupido e pericoloso, meglio girargli alla larga.
Ora era incazzato con lui per la “roba” che si era preso dal “Trucciolo”.
Trucciolo era un frocio che faceva il pusher per sbarcare il lunario.
Lo chiamavano così perché portava una parrucca bionda, rutta boccoli, a coprirgli la pelata da tossico.
Sì, perché Trucciolo, di suo, era un tossico infognato fino ai capelli, che e a causa dell'ero aveva persi tutti, e pure buona parte dei denti.
Ora la “roba” di Trucciolo l'aveva lui: poca roba, della “coca” che al massimo ci mettevi insieme ventimila euro a piazzarla bene.
Ma il molleggiato era avido, ci teneva alla sua “roba” e ai soldi.
Per quelli avrebbe venduto sua madre per cinque euro, e per dieci ti avrebbe aperto dall'inguine alle tonsille e avrebbe dato le tue interiora da mangiare al suo cane.

Ora, vagli a spiegare che lui non sapeva che la “roba” fosse cosa sua e che il Trucciolo fosse solo intermediario e gliela vendeva per suo conto.
Quando si erano trovati per contrattare, l'altro, mica gli aveva detto per chi gli stava vendendo il “prodotto”.
Averlo saputo, si sarebbe ben guardato dal fare quello che aveva fatto.
Avevano già concluso l'affare a casa di Trucciolo: il tossico gli aveva dato il pacchetto e lui gli aveva già dato i soldi.
Stavano per salutarsi, ma Trucciolo aveva chiesto: “Che fai, vai via così? Ti ho fatto fare un affare, a un prezzo, che manco al banco della Caritas ti trattavano meglio. Non fare il pulcioso, almeno una dose me la devi offrire.”


Lui era uno generoso, lo era sempre stato, Azzurra lo sapeva bene: alla stronza, in due mesi che erano stati insieme, le aveva sempre fatto fare la bella vita.
Ristoranti stellati, regali, profumini, vestiti griffati e quant'altro, e lui sempre pronto a tossire contante come un bancomat.
Gli piaceva anche che la scarrozzasse in giro col SUV giapponese, una macchina che cubava novantamila euro, mica a Montecarlo, ce la portava con la Panda.
A lei piaceva essere trattata da principessa, e aveva trovato il suo “principe azzurro” che le foraggiava tutti gli sfizi.
Diceva sempre di essere affascinata dall'aura di mistero che lo avvolgeva.
Un uomo interessante, facoltoso, generoso e che la trombava anche bene:
aveva sbancato il jackpot del Superenalotto la ragazza.
Ovvio che lui avesse mantenuto una certa discrezione sulle sue attività, un lavoro che gli fruttava quei trentamila euro al mese, che gli consentivano di vivere dignitosamente, senza ricorrere all'assegno di sussidio sociale.
Aveva il suo piccolo giro di donnine da proteggere, un po' di scommesse clandestine, e lo spaccio di modiche quantità di cocaina, insomma si arrangiava per mettere insieme il pranzo con la cena.


Aveva soddisfatto la richiesta di Trucciolo, e gli aveva regalato la dose.
Stavano in cucina a casa di lui, ma l'altro con le sue fisime, aveva iniziato a dire che erano vecchi amici: che non fosse bello lasciarlo a “farsi” da solo.
Gli aveva anche rammentato il vecchio adagio: “Chi non sbiella in compagnia è un ladro o una spia. Chi si astien dalla sbiellata è un gran figlio di mignotta”...e tutto quello che ne seguiva.
Per farla breve lui aveva preparò due binari di coca da tirarsi insieme, ma quel vizioso del Trucciolo, aveva detto che lui, la coca, non la sprecava tirandola su col naso: se la faceva direttamente in vena.
Quindi aveva approntato tutta la giostra: cucchiaino, acqua e limone, siringa da insulina; si era annodato il laccio emostatico al braccio e caricata che avesse la “spada”, se l'era sparata in vena.
De gustibus, lui in vena non si era mai sognato di ficcarsi nulla, per altro essendo ipersensibile, sveniva anche al prelievo del sangue fatto alla mutua.
Comunque, cazzi suoi, Trucciolo era grande e vaccinato, se voleva “fiondarsi” con la coca, che facesse pure, chi era lui per impedirglielo?
Solo che doveva aver esagerato con la dose, o forse, non aveva controllato se c'era rimasta aria nella siringa, perché mezzo minuto dopo aveva strabuzzato gli occhi, ed era cascato al pavimento, aveva fatto qualche sussulto, si era pisciato sotto e le aveva tirate.
Bon! Forse un ictus, un embolo o un'overdose fulminante.

(continua)
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