La scelta Pt.7

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[MI 175] Biscotti alla Genziana - Costruttori di Mondi



La scelta Pt.7


Poiché amavo mai moglie ed ero certo di non privala d'alcunché,
né avevo intenzione di lasciarla per un'altra, decisi che non le avrei mai confessato il mio tradimento.
Al più, se mi avesse scoperto: avrei cercato qualche astrusa e fantasiosa spiegazione per averlo fatto.
Nella mente umana esiste sempre un'area di dubbio sulle nostre reali responsabilità: un meccanismo che a fronte d'un torto subito, ci induce a dubitare che quel danno sia a causa d'un nostro difetto o negligenza.
Il nostro atavico senso di colpa finisce col farci pensare d'esserci, appunto, meritato quello che subiamo.
In altre parole, se facciamo del male a qualcuno, ma siamo altresì abili a rivoltare la frittata, accusandolo d'aver provocato col suo atteggiamento quel male, otteniamo che dubiti d'essere, in parte, colpevole e complice del danno che gli è venuto: questo alleggerisce la nostra colpa e ci rende più perdonabili.
Nessuno, nel proprio intimo, è mai certo d'essere totalmente puro e innocente: così la linea di separazione, tra vittima e carnefice, si confonde.
Il mio era un pensiero decisamente cinico, ma salvare a ogni costo il mio matrimonio era preminente: mai come in questo caso il fine giustificava i mezzi.

Di solito andavo a prendere la mia giovane amante all’uscita dal lavoro: si raggiungeva un luogo appartato e ci si intratteneva fino alle venti, poi la accompagnavo a casa sua e rientravo, alla mia, per ora di cena.
Questo avveniva a giorni alterni, talvolta anche in giorni seguenti, se ne sentivamo il bisogno; raramente per i miei impegni di lavoro o se lei aveva le sue cose, non ci si vedeva per una settimana.
Non tornammo mai a far l’amore nel suo ufficio dopo l'orario di lavoro: la cosa non era sicura, se scoperti, lei avrebbe perso l’occupazione.
Così per mesi i nostri convegni si tennero nella mia auto, non era il massimo della comodità ma facevamo di necessità virtù.
Ero divenuto esperto nello scovare angoli nascosti in città e sulla collina, dove consumare le nostre effusioni.
La cosa era più problematica nella bella stagione: poiché la sera calava molto tardi e si trovava molta gente in giro; d’inverno le cose andava decisamente meglio, alle diciassette calava il buio che diveniva un complice amniotico dei nostri convegni.
In città ci appartavamo negli anfratti della periferia: ve ne erano al fondo della via Artom o su strada del Castello di Mirafiori, si trovavano stradine fra campi con alte siepi utili a nasconderci, o nei piazzali di parcheggio davanti alla FIAT, deserti prima del turno di notte.
Qualche volta avevamo usato anche il parcheggio sotterraneo davanti a “La Rinascente”: ma era problematico perché rischiavi sempre che arrivasse il proprietario dell'auto parcheggiata accanto alla tua; eri costretto a stare in allerta che non arrivasse a portarsi via la sua macchina.


La collina offriva varie opportunità, con angoli suggestivi immersi nel verde, stradine sterrate su cui arrampicarsi con difficoltà che ricordavano certi sentieri del Camel Trophy, ma perfettamente occultati dalla folta vegetazione.
Bisognava però restare guardinghi: infatti, non mancavano i voyeur, che regolarmente battevano la zona collinare per sbirciare le effusioni delle coppiette in auto.
Una sera ci si era fermati su una stradina collinare deserta: nei pressi del vecchio cimitero di Cavoretto, era autunno avanzato, buio e nebbia coprivano il paesaggio di una coltre umida, fredda e silenziosa.
Era quella che reputavo una condizione climatica e ambiatale perfetta: nessuno in giro, i vetri appannati dell'auto ne rendevano impenetrabile l'interno agli occhi di qualsiasi curioso che fosse in giro a quell'ora, e con quel tempo da cani.
Per fare le nostre cose, in auto, non ci si denudava mai completamente. Lasciavamo scoperte solo le aree d'interesse dei nostri corpi, una consuetudine d'ordine pratico: in caso di problemi ci consentiva di ricoprirci a tempo di record, avviare la macchina ed eclissarci in pochi secondi.
Fermi da una mezz'ora in questo angolo accogliente e profondamente immersi nelle nostre tenerezze, stavo sul corpo di lei nella classica “posizione del missionario”.
Con i sedili ribassati e lo sguardo rivolto al fondo dell'auto, vidi apparire una forte luce di fari nel lunotto termico: immediatamente mi sollevai tornando al mio sedile; alla luce si aggiunse anche il classico lampeggiante blu d'una macchina dei Carabinieri.
Fulmineamente tirai su i calzoni chiudendo la zip, lei che aveva un impermeabile lo chiuse fine al collo: sotto era seminuda.
I melliti bussarono garbatamente al mio finestrino, abbassai il vetro con una certa apprensione: mentalmente mi domandavo cosa comportasse la violazione dell'art. 527 Codice Penale, ovvero di atti osceni in luogo pubblico, e soprattutto, come avrei giustificato a mia moglie le eventuali notifiche di convocazione giudiziaria, giunte alla nostra cassetta postale.
Le pulsazioni salivano come il tachimetro della mia auto quando acceleravo a tavoletta.
Gli esponenti dell'Arma furono in realtà assai cortesi: chiesero i nostri documenti con patente e libretto, che mettemmo immediatamente a loro disposizione.
Con una torcia elettrica scandagliarono l'interno del nostro mezzo: la luce si soffermò per qualche secondo sulle mutandine di pizzo “La Perla” che erano rimaste sul cassettino tra i sedili anteriori, ma non commentarono la cosa.
Alla fine ci consigliarono di non appartarci, con quel buio, in zone deserte come quella, poiché rischiavamo di fare brutti incontri, quindi, ci salutarono militarmente e se ne andarono.
Ci lessi una certa ironia in quel consiglio, ma avevo ancora sudori freddi e non riuscì ad apprezzarne la vena umoristica.


Insomma, l'auto era comoda poiché permetteva di scovare, con spirito avventuroso, posti dove scambiarci momenti d'affettuosa amicizia, ma quegli istanti di piacere, rubati alla vita, erano sovente turbati dall'apprensione d'essere scoperti: urgeva trovare luoghi più sicuri e sereni per consumare i nostri incontri.
Avevo sentito di confortevoli e discreti alberghetti della collina, in verità non ne conoscevo nessuno, poiché non avevo fino a quel momento avuto necessità di servirmene.
Non avendo molto tempo da perdere per indagare personalmente, ritenni opportuno rivolgermi a un esperto del settore.
Avevo un amico di vecchia data, col quale avevamo diviso gli studi e successivamente anche un periodo di comune impiego nell'azienda in cui lavoravo; in seguito lui era uscito dell'azienda per aprire un'attività in proprio.
Si chiamava Valentino Albini, ed era uno dei più scafati donnaioli della città e zone limitrofe, personalmente amava definirsi come un irresistibile “Tombeur de femmes”, che era la versione raffinata del più prosaico “puttaniere”.
Valentino fu molto sollecito e preciso nell'indicarmi l'alberghetto collinare più confacente alle mie necessità: piccolo, ma molto pulito e decoroso, ben organizzato, posto sulla salita per Cavoretto.
Soprattutto decisamente economico: Valentino, che era un assiduo cliente, mi disse di presentarmi a suo nome al titolare, poiché mi avrebbe praticato una tariffa di favore.


Così iniziammo a far l'amore in tutta tranquillità, in un luogo sicuro, con lenzuola fresche e confortevole materasso a molle insacchettate, dove si poteva richiedere un caffè in camera e soprattutto non richiedeva documenti e registrazione alla consegna della camera.
Tutto questo era molto piacevole, ma per quanto il prezzo della camera fosse assai agevole, le mie disponibilità economiche “occulte” non erano in grado di sostenere quella spesa mensile fatta di oltre una decina d'incontri intimi in albergo.
Mi resi conto che come recitava il buonsenso popolare: avere un'amante richiedeva una discreta solidità finanziaria.
Era purtroppo necessario creare un mix tra incontri in auto e incontri in albergo, fortunatamente lei era una ragazza assai alla mano, non si faceva problemi e non mostrava pretese, gli importava solo che continuassimo a vederci.

(Continua)

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