Buon compleanno Pt.6

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[N2022R] Marco amava passeggiare di notte - Costruttori di Mondi


Buon compleanno Pt.6


Il tempo scorreva con esasperante lentezza.
Ogni tanto davo mano all'accendino e guardavo l'orologio: eravamo bloccati, al buio, in quell'ascensore da oltre due ore.
La luce non tornava e questo era un fatto strano: queste interruzioni dovute al sovraccarico sulla rete, solitamente non duravano oltre i trenta minuti.
Probabile che un relè o un fusibile del cazzo, andati in malora per lo sbalzo di tensione, impedisse la ripartenza della cabina.
Avevo premuto il tasto di soccorso fino a consumarmi il pollice, ma non c'era stato verso: o non funzionava neppure quello, o quelli che avrebbero dovuto soccorrerci facevano la settimana corta ed erano già tutti ad abbronzarsi sulle spiagge della Liguria.
Era un pomeriggio di sabato a fine luglio: tempo di presentazione di collezioni, avevamo lavorato in straordinario fino all'una e mezza, ai primi di settembre incombevano i saloni della moda.


La Signetti e io eravamo stati gli ultimi a lasciare l'ufficio e a salire su quell'ascensore prima che si arrestasse per il black out.
L'azienda a quell'ora era ormai deserta e noi completamente soli.
Più scorrevano I minuti e più si faceva chiara la prospettiva che quella clausura forzata, non si sarebbe esaurita in tempi brevi.
Un silenzio corrucciato ci avvolgeva, inoltre, sentivo un fastidioso bisogno di svuotare la vescica.
Rassegnati, sedevamo al pavimento in quel buio statico a fissare il vuoto tenebroso che ci avvolgeva e sudare copiosamente.
La moquette ruvida e pungente, sotto di noi, puzzava di stantio e polvere.
Faceva un caldo torrido, si boccheggiava: fuori c'erano 38 gradi, e lì dentro con l'aria condizionata inattiva, non se ne avvertivano di meno.
C'era il profumo di lei che, per via dalla traspirazione e dal calore, aveva saturato l'aria della cabina, ammorbandola di quell'effluvio insinuante, creato ad arte per mettere in subbuglio i sensi.
Usava un'essenza raffinata: di quelle che sentivi addosso alle strafighe d'alto bordo nelle caffetterie eleganti o nei ristoranti costosi del centro.
Odiavo quelle fragranze lussuose, ero convinto che fossero trappole olfattive create per risvegliare gli istinti primordiali del maschio.
Mi ricordavano le piante carnivore che, nel trionfo cromatico dei petali e con un aroma irresistibile, attiravano gli insetti per cibarsene.


Svanito il sogno di una risoluzione rapida del problema, restava il sudore che inzuppava la camicia, l'urgenza di pisciare e il disagio della compagnia della Signetti: che per me era empatica come la fioritura di un herpes genitale.
Se non era iella questa! Roba da non crederci: fra tutte le oltre cento persone dell'azienda, finire, al buio, in quello spazio angusto proprio con la Signetti. “Fanculo va'!”
C'era, poi, il fatto che ultimamente mi avesse messo gli occhi addosso, cosa che mi dava un forte disagio e che mi infastidiva epidemicamente.
Come donna nulla da dire: era indubbiamente affascinante, ma di quel fascino oscuro esercitato dalle dark lady dei film noir, possedeva l'appeal e l'eleganza fluida e micidiale di un mamba nero.
Era, a tutto tondo, una figlia del nostro tempo: il perfetto paradigma della nuova donna in carriera, preparata, spregiudicata e ambiziosa quanto bastava per raggiungere gli obiettivi che si era prefissa.
Dicevano avesse fatto carriera perché fosse nelle grazie “particolari” del Presidente.
A me, in realtà, non fregava nulla del come fosse giunta al suo livello aziendale: erano fatti suoi se stava dove stava, che vi fosse giunta per meriti di lavoro o aprendo le cosce al Presidente, la cosa mi era del tutto indifferente.
Io la detestavo per ben altro: non avevo dimenticato che al suo debutto nello staff dirigenziale, era stata l'artefice della cacciata di Martina dall'azienda.

Lo aveva fatto con una porcata chiamata pomposamente: “Razionalizzazione delle risorse umane aziendali”: una formula elegante, nel moderno linguaggio manageriale, per indicare una ristrutturazione che prevedeva brutali tagli del personale.
La stronza, aveva fatto carne da macello di una trentina di padri di famiglia, gettandoli in strada come inutile scarto di produzione.
Quei giorni furono di terrore palpabile tra le scrivanie: ci si chiedeva chi sarebbe stato il prossimo a cadere sotto la falce della Signetti.
Ogni mattina cercavi di leggere negli occhi del tuo vicino se gli fosse stata recapitata una di quelle lettere formali d'esecuzione capitale, ed egoisticamente, ognuno pensava: “Speriamo che tocchi a lui”.
Avevo ancora negli agli occhi l'immagine di Martina, chiusa in macchina nel parcheggio aziendale, con la lettera di licenziamento stretta in mano e il viso stravolto di pianto.
Martina sola al mondo col suo bambino da crescere, travolta da quella notifica laconica e inclemente in corpo dieci su A4 bianco, pesante come il mondo che le rovinava addosso.

Trascorse una misura di tempo che non sapevo calcolare, scandita dai nostri respiri pesanti
in quel loculo cieco e umido.
Con l'accendino controllai nuovamente l'ora: ne era trascorsa appena un'altra, nel bagliore del momento, il suo viso imperlato di sudore, assumeva le fattezze tragiche di una maschera kabuki.
Cercai di rompere quel muro si silenzio che rendeva l'oscurità più fitta e l'aria più greve.
- Non sente fame Signetti? Io ho un vuoto cosmico nello stomaco.
- Mah! Lasci perdere Martini, ora come ora, per il nervoso, non manderei giù neppure un chicco di riso. Mi andrebbe un caffè, ma meglio non pensarci.
- Non me ne parli! Darei un mese di stipendio per una sigaretta – sospirai.
Lei sbuffò insofferente: avvertì che cambiava posizione stirando le gambe.
- Non mi spiego cosa aspettino a venire a cercarci? - disse con sconforto.
- Troppo presto, - risposi - se anche fossimo usciti puntuali dall'ufficio, con questo traffico avremmo impiegato almeno tre quarti d'ora per giungere a casa, senza tener conto della ricerca di un parcheggio... Quindi prima che si accorgano del ritardo...
- Vero! In questo periodo ci si ferma sovente oltre il solito orario senza avvisare casa, inoltre, mio marito nel pomeriggio aveva una partita al club del golf con amici. Sicuro che fino a sera non sentirà la mia mancanza.
- Purtroppo, non ci resta che pazientare e sperare per il meglio.


Il rumore indicava che stesse frugando nella borsetta, forse cercava delle salviette per asciugare ll sudore.

- Le va' una salvietta umidificata per rinfrescare il viso? -
Mi stava porgendo il pacchetto: un aroma di Aloe vera mi salì alle narici, ne presi a tentoni un paio dalla confezione.
- Grazie. Ci vorrebbe ben altro per i litri di sudore che sto versando, ma almeno è un palliativo profumato.
Le passai sul viso, il collo e continuai sul petto, dai fruscii leggeri ricavai che anche lei faceva altrettanto.
- Lo sa Martini, quello che più mi dà sui nervi della situazione è l'inattività forzata a cui sono costretta. Odio sprecare il tempo.
“Certo!” Mi venne da pensare “Qui non c'è nessuno da cacciare sui due piedi o a cui fare un pompino per salire di grado nella piramide aziendale.”.
La stanchezza e il caldo mi rendevano cinico e rancoroso.
- Temo che dovrà farsene una ragione. - dissi stancamente - Finché non si accorgono della nostra assenza non c'è nulla che possiamo fare.
- Le confesso che, non avendo impegni nel pomeriggio, ero tentata di continuare il lavoro almeno fino alle diciassette. Lo avessi fatto ora non sarei chiusa qui, ma il caldo mi ha fatto desistere dal proposito.
- Capisco – risposi - pensi che io avrei dovuto uscire alle dodici e trenta, ma ho deciso di fermarmi un'ora in più per terminare il lavoro. Fossi stato meno zelante ora sarei a casa sulla mia poltrona, in ciabatte, con un libro in una mano e una bibita fresca nell'altra.
Il raffronto dei rispettivi approcci al problema non dovette piacergli, perché si zittì e il silenzio tornò a inghiottirci.


(Continua)


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