Buon compleanno Pt. 5

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[MI 174] il passato di Mrs Kendal - Costruttori di Mondi


Buon compleanno Pt. 5

Dovetti essere un pessimo attore, poiché ero certo che la Signetti, scaltra scrutatrice d'anime, percepì l'ombra anomala che era corsa nel mio sguardo.
- Dica la verità Grimaldi. Lei aveva una simpatia particolare perla Martina, le piaceva vero?
Nel pormi la domanda, lessi nei cristalli di ghiaccio del suo sguardo una luce che mi fecce pensare allo sguardo di certi serpenti dal veleno letale.
Abbandonai la macchina del caffè con un sentimento di disagio, come la sensazione di aver compiuto un passo falso, d’essermi tradito, rivelando ciò che provavo.

Era giugno inoltrato, quell'anno il caldo incalzava, anticipando canicole oltre i trentotto gradi, che già facevano desiderare le vacanze e il ristoro di arenili marini.
In azienda l'aria condizionata viaggiava a manetta dal primo del mese:
in realtà, non si trattava di un sistema di aerazione forzata di tipo classico, ma di un refrigeratore d'aria.
La differenza nei due sistemi stava nel fatto che il primo aspirava dall'ambiente l'aria vecchia e ne immetteva della nuova, proveniente dall'esterno, raffreddata; il secondo, più semplicemente, raffreddava l'aria già presente rimettendola in circolo a ciclo continuo.
In sostanza, si respirava sempre la stessa aria viziata, ma resa più fresca.
Un sistema non certo ideale dal punto di vista igienico, benché nell'operazione, l'aria venisse filtrata attraverso dei depuratori, ovviamente non era esente dal riproporre le impurità e i micobatteri che conteneva.
E questo infatti, generava il protrarsi di forme allergiche, riniti, e raffreddori fuori stagione che, ripetutamente, colpivano il personale aziendale.
Il motivo che aveva indotto alla scelta di quella infelice tecnologia, era tutta d’ordine economico, vi era un considerevole risparmio sui relativi costi di gestione.
La buona salute della forza lavoro aziendale, era evidentemente, una variabile trascurabile, rispetto al risparmio così ottenuto.
Quello che ai più non andava giù di quella singolare soluzione economica, era che si fosse fatta un'eccezione per l'area degli uffici direzionali.
Il Presidente, il consiglio di direzione, la Signetti e la ristretta cerchia
d’eletti dell'area dirigenziale, beneficiavano di un'aria condizionata, freschissima, del primo tipo...
Signetti, quando per ragioni legate alla sua attività, era costretta a uscire da quel bunker di privilegio, la vedevi passare tra gli uffici con aria vagamente disgustata, quasi trattenesse il respiro nel timore di contaminarsi.

Io odiavo qualsiasi sistema di condizionamento dell'aria, ma quello in particolare mi stava in gobba per un motivo politico: era un odio di classe, l’esempio d’una prevaricazione verso la forza lavoro di livello inferiore, una discriminazione, manifesta, attuata della classe dirigente aziendale.
Oltre all’aspetto etico, l’aria condizionata mi procurava pesantezza alla testa e raffreddori.
Avrei spalancato volentieri le finestre, sarebbe certo entrato il caldo, ma si sarebbe respirata un'aria meno malsana, meno umida e appiccicaticcia di quella che stazionava nei nostri uffici.
Ma aprire una finestra, dal momento in cui entrava in funzione il sistema refrigerante, era tassativamente proibito.
Farlo significava incorrere in una pesante sanzione: era considerato un delitto pari alla infedeltà aziendale, finanche al sabotaggio.

Una mattina che mi trovavo alla fotocopiatrice sul corridoio con un voluminoso incartamento da duplicare, profondamente concentrato nell'operazione d'inserimento delle pagine, non mi accorsi di avere la Signetti alle spalle, in attesa del suo turno.
Stavo con una sigaretta accesa che mi pendeva all'angolo delle labbra, poiché accaldato, avevo allentato la cravatta e sbottonato il colletto della camicia button down a sottile righine blu che indossavo, il capello ribelle e mosso mi calava sulla fronte conferendomi un’aria blasé.
Terminato il lavoro mi voltai: trovai i suoi occhi che mi scrutavano con una luce che avrei definito tra la cupidigia e lo sguardo bramoso del gatto, che scruta meditando il canarino chiuso in gabbia.
Lei sorrise e disse: - Le hanno mai detto, che con quella sigaretta tra le labbra e l'aria dégagé, assomiglia a Humprey Bogart? "-
- No! Cioè in che senso? - Balbettai incerto di aver ben compreso il senso di quella osservazione.
- È sexy…Per come dire: fa' sangue. - rispose tra l'insinuante e il faceto.
Poi scoppiò in una risata che trovai agghiacciante: ebbi la piena conferma delle sue brame verso me.

Non avevo tenuto conto di certi segnali, che si erano andati moltiplicando nel tempo.
Altri più attenti e scaltri, certo avrebbero colto quei segni con più rapido intuito.
Ma non ero abituato a pensarmi come oggetto d’attenzioni di una donna, e in particolare di quel genere donna.
Dopo il nostro incontro alla macchinetta del caffè, ne erano seguiti molti altri: la Signetti, stante i nostri uffici open space, aveva sott'occhio tutti i miei movimenti, così accadeva che ogni volta che mi spostavo per farmi un caffè al distributore, o in altra zona, lei dopo poco mi raggiungeva, impegnandomi in qualche amena chiacchierata.
Gli argomenti erano scelti sempre da lei, che si rivelava, al contrario di me, un'ottima conversatrice.
Era una di quelle persone dotate per i rapporti interpersonali, quindi non aveva alcuna difficoltà a trovare materia di chiacchiera anche nello spunto più insignificante, passando dai fatti della vita aziendale, alle previsioni meteo, al costo dei carciofi venduti al mercato, alla politica o grande finanza internazionale.
Io, che per natura ero assai riservato e taciturno, più che partecipare a quei dialoghi, li subivo annuendo, o assumendo sorrisi di circostanza per mascherare il disinteresse per quel cianciare fatuo e vuoto.
Col tempo gli argomenti si erano fatti più personali, e la cosa in verità mi metteva un certo disagio.
Tenevo alla mia privacy e non amavo mescolare la vita privata con quella lavorativa.
Era però difficile, senza apparire villano, sottrarsi a certe abili incursioni, che lei sapeva attuare con domande all'apparenza innocenti, ma che ti portavano a rivelare cose che avresti preferito tenere per te.

Alle confidenze che riusciva a strapparmi, abilmente, affiancava intime istantanee dalla sua sfera personale.
Venivo così a conoscenza di suoi fatti privati, che in verità poco mi appassionavano, ma che di certo, secondo la sua idea, suggerivano una nostra più intima relazione amicale.
Cosa che, in effetti, non desideravo affatto.
Giunse a raccontarmi che la sua vita matrimoniale attraversava, da anni, un momento di stanchezza, cosa che lei, donna di temperamento, trovava frustrante.
Suo marito viveva solo per il lavoro e il golf, attività sportiva che gli portava via la gran parte del tempo libero: domeniche e feste comandate comprese.
Ma le convenzioni sociali e le elevate [font="Open Sans", "Segoe UI", Tahoma, sans-serif]posizioni [/font]d’impiego, li obbligavano a tenere in vita quel legame coniugale: in verità più simile a rapporto di fraterna sussistenza, che all’unione di un marito e una moglie.
Nel parlarmi di queste cose, leggevo nei suoi occhi una luce ambigua
che pareva invitarmi a osare un avance verso lei: vero che al momento le cose erano ferme a livello d’intenzione, tra noi c’erano solo parole e suoi atteggiamenti allusivi.
Ma temevo che sarebbe venuto il momento nel quale se non fossi passato all’azione, di certo sarebbe stata lei a farlo.
Non era una donna disposta a rinunciare a ciò che voleva prendersi.

Questa cosa mi spaventava, per ciò che avrebbe comportato.
Il rischio di una relazione clandestina vissuta in azienda, l’evenienza di essere scoperti, inoltre, che la cosa potesse giungere alle orecchie di mia moglie in qualche modo, mi procuravano angoscia. .
Non avevo mai tradito mia moglie e l’idea d'iniziare a farlo con una donna come Signetti mi era fortemente indigesta, al di là dell’innegabile
avvenenza fisica, restava mentalmente e moralmente all’opposto di ogni mio ideale femminile.
Lei era il prototipo della donna di potere: infida e scaltra, abituata a dominare e soggiogare gli uomini, cinica e priva di empatia.
Ero certo che mi avrebbe usato come un giocattolo: interessante fin che il gioco la divertiva, dopo, mi avrebbe gettato, come un rifiuto, nel cestino dell’umido.
Mi avrebbe, inoltre, visto come uno scomodo testimone del suo svago e
non ci avrebbe pensato molto a escogitare un modo per cacciarmi dall’azienda: era abilissima in queste cose e ne aveva dato ottima prova.

Allo stesso tempo, mi allarmava che l’opporgli un rifiuto generasse la sua ira: che la frustrazione per l’essere respinta accendesse un velenoso impeto di vendetta, per il quale, le mie opportunità di sopravvivenza in azienda divenivano quelle del famoso “gatto in autostrada”.
Questi pensieri mi facevano sentire preso in trappola, ovunque cercassi una via di fuga trovavo ad attendermi una tagliola.

(Continua)
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