Venerdì nero Pt.3

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(1) Senza disturbare nessuno - Costruttori di Mondi




Venerdì nero Pt.3



Riflettevo sulla cretinata di aver lasciato a mia moglie la scatola del tabacco e il cellulare, da custodire in borsa, perché mi erano d'ingombro sulla lettiga.
M'era venuto in mente che se m'avessero trattenuto in osservazione, per un qualche motivo, non potevo avvisare la mia amica per annullare il nostro appuntamento.
Lei, per trovarsi in aeroporto al mio arrivo, poiché viveva a duecento chilometri da Fiumicino, comportava il partire da casa alle sei del mattino, e percorrere due ore d'auto a cavallo dell'Appennino.
Se fosse giunta al terminal e non mi avesse trovato, senza essere stata avvisata del problema, si sarebbe incazzata come una belva.
Giustificare che non ero riuscito ad avvertirla a causa della sorveglianza di mia moglie, sarebbe stata una perfetta figura di merda.
C'era un concreto rischio che mi mandasse a stendere.
E non si poteva certo dargli torto...

La mia consorte era assai sospettosa e gelosissima.
In verità, per natura, lo era sempre stata in modo quasi ossessivo: ogni mio rapporto con l'altro sesso, veniva seguito da sguardi torvi.
Suscitare qualche sentimento di gelosia nella propria donna, poteva essere anche gratificante per l’autostima, ma dopo trent'anni di vita insieme, che 'sta cosa non si fosse stemperata era un filo fastidioso.
Era comprensibile che, pur non essendo un adone, all’inizio del nostro rapporto, stando nel fiore degli anni, potessi risultare interessante per qualche altra donna: la giovinezza raramente rende brutti, è facile esserlo a quell’età.
Ma, ormai, passati i cinquant'anni, al più cercavo di non cascare a pezzi come un rudere; in definitiva, ero solo un uomo di mezz'età con un aspetto presentabile, mica un maturo Paul Newman che, pur sulla soglia dei settant'anni, poteva ancora affascinare cuori femminili.
Eppure, lei non desisteva dai suoi sospetti: ero certo che se ci fossimo trovati in una sorta di “Villa Arzilla” per trascorrere gli ultimi anni della nostra vita, avrebbe continuato a insinuare, anche lì, di una possibile mia tresca con qualche vecchietta dell'istituto.

La borsa in oggetto stava ai piedi della branda, se mi fossi messo a cercarvi il telefonino, mi avrebbe certo chiesto a chi stessi messaggiando.
Questa fastidiosa diffidenza era nata in seguito a uno sfortunato episodio di molto tempo prima: quando per distrazione, avevo lasciato il cell incustodito in giro per casa, convinto di non aver ricevuto messaggini inopportuni.
L’incidente occorsomi consisteva nel fatto che, a quel tempo, avevo, un'amicizia virtuale con una vispa e piacente quarantenne su Facebook.
Con la signora in questione, su quella piattaforma, eravamo iscritti a un gruppo “chiuso” di scrittura erotica.
Dove, per hobby, ci dilettavamo nel creare racconti assai spinti.
Alcuni miei racconti, particolarmente riusciti, avevano attirato la sua attenzione, inducendola ad approfondire la conoscenza dell'autore di quelle fantasie letterarie tanto scollacciate.
Mi contattò in privato, quindi, da quel contatto, maturò una simpatica e assidua amicizia.
Flirtavamo amabilmente, con sagacia e ironia.

Nel nostro giocare virtuale, gradiva le inviassi «sms» stuzzicanti, che ricambiava con spirito e fantasia.
Talvolta, maliziosamente, per farmi una sorpresa: oltre ai messaggini di testo, mi inviava anche qualche suo autoscatto fatto col telefonino, contenente particolari anatomici della sua graziosa persona.
Di solito in quelle immagini si mostrava in pose succinte o del tutto priva d'abbigliamento.
La cosa era gradevolmente simpatica, ma, in ogni caso, non si era mai giunti a un incontro reale, neppure per un innocente caffè preso insieme.
Per altro, la distanza delle rispettive città di residenza non invitava a farlo, inoltre, in quel tempo, avevo un lavoro diverso dall'attuale e non avrei potuto assentarmi per viaggi del genere.
Quel gioco, tenuemente erotico, ci bastava e avanzava.

Questi scambi avvenivano solo nelle ore in cui entrambi eravamo fuori dalle rispettiva abitazioni, cosa necessaria, poiché entrambi avevamo un consorte.
Si era quindi molto attenti nel far scomparire tracce delle nostre corrispondenze, prima di rientrare tra le pareti domestiche.
Ma, si sa: il diavolo confeziona ottime pentole, ma scarseggia di buoni coperchi: non sempre i servizi di messaggistica della "Omnitel" erano impeccabili nelle tempistiche d'invio e ricezione.
Secondo la legge per cui la fortuna è cieca, ma la sfiga ci vede benissimo, un giorno, al rientro dal lavoro, essendo certo di aver ripulito il telefonino, lo lasciai sul tavolino del salotto per recarmi in bagno, per la consueta rinfrescata prima di cena.
Mia moglie stava tranquillamente seduta in poltrona a intenta leggere un libro davanti al suddetto tavolino.
L'ultimo messaggino della mia amica, inviato diverse ore prima, giunse a destinazione in quel momento.
Non era un semplice messaggio di testo, ma un'immagine assai esplicita dell'intimo della bella signora, la cui foto del profilo comparve in una minuscola anteprima del messenger.

Ahimè! La notifica sonora fece alzare lo sguardo di mia moglie verso l'apparecchio: incuriosita da quel volto femminile, aprì il messaggio arrivato.
Quella sera, inutile dirlo, scoppiò un finimondo: rischiai di passare la notte sullo zerbino della porta, poiché voleva cacciarmi di casa.
Venni investito da un’invettiva feroce, con minaccia di divorzio e inudibili violenze fisiche verso la mia persona: un finimondo protratte fino all’alba.
Inutile tentare di sostenere si trattasse di un “mms” inviato erroneamente da qualcuna che avesse sbagliato numero: ma, nulla la convinse in quella notte infernale.
Per questo infausto evento venni trattato con la ripugnanza di un lebbroso e confinato a dormire sul disagevole divano del salotto per oltre tre mesi.
Certo, il fatto che avesse letto furtivamente un messaggio sul mio cell era una cosa moralmente riprovevole.
Mancanza di rispetto, insana curiosità, violazione della mia privacy.
Però queste cose assai giuste potevano essere sostenute in caso non avesse trovato nulla su cui recriminare
Infatti, se fossi stato del tutto innocente, avrei potuto ribellarmi a questa pessima azione e mostrarmi offeso.
Ma di fronte alla così detta: “pistola fumante”, la cosa risultava complicata, non c'era principio morale a cui appellarsi.

Da lì in avanti, opporsi a quei controlli, equivaleva ad avere qualcosa da nascondere: la reticenza a verifiche lasciava supporre una possibile colpevolezza.
Per questa ragione ero costretto a cancellare sistematicamente ogni traccia di conversazioni con altre donne, anche le più innocenti, ma che potessero essere equivocate e generare sospetto.
Lei da quell'episodio si riservava il diritto di controllo a “campione" del telefonino.
Per buona pace domestica, mantenevo un atteggiamento elastico su questa mania: mi limitavo a uno sguardo di biasimo nel momento in cui mi chiedeva di effettuare quei controlli.
Quindi ero in ambasce sul come poter tornare in possesso del cell per inviare il messaggio che scongiurasse il rischio di essere brutalmente scaricato dalla mia recente liaison sentimentale.
Mentre mi maceravo l'anima, dibattendomi nell'angoscia, mi era venuta una gran sete.
Alle volte i problemi più complicati hanno soluzioni tanto semplici che sono le ultime a venirci in mente.
D'improvviso mi colse l'illuminazione: dissi a mia moglie della sete e le chiesi se, gentilmente, poteva procurarmi dell'acqua al distributore automatico del reparto.
Come scomparve alla mia vista, recuperai fulmineamente il cell, e digitai rapido il messaggino per la mia amica.
Al suo ritorno con l'acqua avevo già rimesso il cell nella borsa.
Tracannai d'un fiato mezza bottiglietta, mai quelle bollicine nel liquido fresco mi erano parse tanto gustose e dissetanti.
Ma la soddisfazione ebbe vita breve, nel giro di qualche minuto iniziai a sentir montare una nausea consistente: sbiancai sentendomi mancare.

(Continua)
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