Buon compleanno Pt.3

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[LMI171] Come farai? - Costruttori di Mondi



Buon compleanno Pt.3


Il mio lavoro nel settore dell’abbigliamento, inevitabilmente, influenzava aspetti del mio privato.
Erano tempi di riflusso culturale, la società sull’onda di una positiva congiuntura economica, viveva una ventata di nuovo consumismo.
L’azienda in cui lavoravo seguiva il volubile mondo della moda: il trend del Made in Italy, esploso negli anni ottanta, era giunto al vertice della sua popolarità, quindi i nuovi valori esaltavano l’edonismo individua le, la celebrazione del lusso, del successo sociale e della sua ostentazione.
Le Bibbie del momento erano divenute le pagine patinate di: Vogue Donna, Cosmopolitan, Men's Health e Capital.
L’idea di vita e del mondo, mie e di mia moglie erano state all’opposto di tutto questo.
I miei primi anni, all’interno dell’azienda e del clima che la animava, erano stati a dir poco difficili: li avevo vissuti in un totale disorientamento.
Mi ero reso conto di non essere pronto per il nuovo mondo in genere, e vieppiù per quel “genere” di mondo in particolare.
Avevo vissuto, prima d’allora, in una confortevole bolla utopica: nella quale le persone che frequentavo condividevano ideali legati all’impegno sociale, a una solidale amicizia, lontani dai miti imperanti nella nuova società di massa.

Ero stato catapultato in un ambiente che faceva della competizione la sua legge fondante: l’unico valore era la ricerca del successo personale, ottenuto anche calpestando, senza tanti complimenti, sia antagonisti che colleghi di lavoro.
Quotidianamente ti trovavi fra squali spregiudicati, che attendevano un tuo passo falso per sbranarti.
Era un deprimente e sfibrante esercizio di sopravvivenza.
Numerose mattine, nel salire al mio ufficio, ero preso dall’identica ansia di quando, a scuola, avevo un compito in classe o un’interrogazione alle quali non ero preparato: mi aggrediva la nausea e dovevo impormi di resistere all’impulso di fuggire via.
Per la prima volta comprendevo lo stato d’animo del Don Abbondio ne “I promessi sposi”: il suo sentirsi un debole vaso di terracotta costretto a viaggiare tra vasi di ferro.

Accettavo quello stato come un dovere necessario per continuare a sostenere la famiglia.
Avevo compiuto un adattamento forzoso, ridisegnando, soprattutto esteriormente, la mia identità.
Dovetti abbandonando il mio abbigliamento da straccione “fricchettaro”, per indossare eleganti completi di flanella grigia, camice in cotone Oxford, cravatte regimental e calzature classiche inglesi.
Certo, non scavavo pietre in miniera, molti avrebbero desiderato lavorare in un posto che si occupava di abbigliamento, ma io avevo vent'anni e fino al giorno prima vivevo come un avanzo post hippy, ero giunto a occupare il mio attuale ruolo in un lento, faticoso, percorso che mi aveva condotto da magazziniere precario, assunto in nero, a divenire responsabile della pubblicità aziendale.
Avevo impiegato tutte le mie risorse, guadagnando ogni millimetro di quell’ascesa nell’organigramma aziendale.
Pur avendo raggiunto una posizione promettente, nel profondo continuavo a sentirmi una sorta di corpo estraneo, come un infiltrato a un pranzo di nozze.
Di fatto vivevo in una condizione di sdoppiamento interiore: sul lavoro assumevo alla perfezione la figura del giovane manager in carriera, adottandone il dinamismo operativo e il linguaggio del mondo del business, mentre a casa cercavo di mantenere il me stesso originale.

Ma non si può servire Dio e Mammona: essere servitore di due padroni si rischia di non soddisfarne bene nessuno.
Infatti, pur godendo i benefici economici derivati al mio lavoro, cosa che accettava passivamente per mancanza di alternative, mia moglie continuava a vedere come un tradimento di noi stessi, la nostra condizione di neo borghesi.
Tra noi non c’era più comunione d'intenti: quella situazione esistenziale, per lei, aveva il sapore di un ripiego, in definitiva di una sconfitta.
Della quale ero il principale artefice, non avendo saputo incanalare le nostre vite nella direzione a cui ambivamo.
Era difficile combattere, fuori casa, una guerra non desiderata, senza avere il sostegno della propria moglie.
Mi mancava la forza che ti viene un obiettivo condiviso: mi sentivo solo al fronte.

Quando guardavo alla nostra vita, mi venivano in mente le parole di “Una canzone per l’estate”, di de André e De Gregori:

“Con tua moglie che lavava i piatti in cucina e non capiva
con tua figlia che provava il suo vestito nuovo e sorrideva
con la radio che ronzava per il mondo cose strane
e il respiro del tuo cane che dormiva.

Con i tuoi entusiasmi lenti precisati da ricordi stagionali
e una bella addormentata che si sveglia a tutto quel che le regali
col tuo freddo di montagna e il divieto di sudare
e più niente per poterti vergognare.

Com'è che non riesci più a volare?
com'è che non riesci più a volare?
com'è che non riesci più a volare?”

Avevo smesso di volare da troppo tempo, non ricordavo neppure più di aver posseduto delle ali.
Era probabile che il mio innamoramento per Martina nascesse dal bisogno di una persona che, nel suo quotidiano, condividesse gli identici miei problemi con l’ambiente del lavoro in cui operavamo.
L'idea di non poterle dire: “ti amo”, mi procurava una stretta dolorosa al petto.
Questo amore impossibile, che pur mi causava un costante rimpianto, in qualche modo mi era di conforto: per assurdo, mi faceva compagnia.
Sapere di amare o d’essere amati da qualcuno, quand’anche non ci sia vicino, può scaldare il gelo del cuore e aiutarci a non sentirci soli.

Fu da questo che mi sorse un'idea folle: quella di regalarle l’idea d’essere amata, cosa inoltre realmente vera, pur ignorando l'identità di chi l'amava.
Sarei divenuto, per lei, un ammiratore segreto.
Mi piaceva l’idea che alla sera si sarebbe addormentata pensandoci, e al mattino si sarebbe levata sapendo che, in qualche angolo di questa città, vi fosse qualcuno pensava a lei.
Uno che la conosceva personalmente o l’aveva solo prediletta da lontano: forse, si erano già incontrati numerose volte e lei non aveva fatto attenzione, non ne aveva intercettato i segnali.
Avrebbe fatto la cernita mentale di chi potesse essere: avrebbe escluso amici e conoscenti più stretti, o forse no.
Avrebbe cercato nei volti ricordati il possibile misterioso innamorato, sfogliando tra i fornitori di lavoro, i negozianti dei suoi acquisti quotidiani, i frequentatori della palestra di aerobica, i garzoni o cassieri dei supermercati, il personale maschile dei bar in cui faceva colazione.
Chiunque fosse, in ogni caso, l’aveva nei suoi pensieri e segretamente l’amava, anche se ancora non si era rivelato.
Questo pensiero le avrebbe reso più lievi anche gli impegni più duri della propria giornata.

Mi sembrò davvero una bella fiaba, un alito di poesia, così difficile da trovare nella realtà in cui vivevamo.
Così, il giorno prima del suo compleanno, mi trovai nel negozio di un fioraio, nei pressi della sua nuova Azienda.
Feci confezionare un mazzo di rose col numero dei suoi anni e vi allegai un bigliettino siglato con un cuoricino disegnato a matita rossa.
Mi accordai per farglielo trovare sulla scrivania, al suo arrivo in ufficio, il mattino dopo.
Immaginai la sorpresa nei suoi occhi al trovare quell’omaggio inaspettato, e l’interrogativo di quel biglietto che, nella sua anonimia, lasciava inequivocabilmente pensare a un ammiratore sconosciuto.
Di certo le avrei riempito la giornata di una piacevole, intima, sensazione.
Mi sentii felice come un bimbo per ciò che avevo fatto.
Decisi da quel momento che, alla stessa data di ogni mese, al mattino presto, le avrei fatto trovare una rosa a gambo lungo sulla sua scrivania.
Così avvenne per 16 lunghi mesi.

(Continua)
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