Venerdì nero Pt 2

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Venerdì nero Pt 2

Pensavo che la cosa più importante in quella situazione fosse di non lasciarmi prendere dall’ansia, dovevo mantenere la calma e ragionare.
Ricordavo che negli anni passati c’era stato un lungo periodo in cui avevo sofferto di crisi di panico: un disturbo nervoso, provocato da stress con risultanze parecchio fastidiose.
Varie volte ero finito al pronto soccorso in preda a questi attacchi.
Mi assalivano senza apparente ragione e privi di preavviso: erano dei veri fulmini a ciel sereno.
Iniziavano con un senso di svuotamento che rapidamente mi conduceva a sentirmi in punto di morte: mancava l’aria, forte tachicardia, gambe molli e sudori freddi.
Dopo quasi un anno di supplizio avevo scoperto lo Xanax, un farmaco miracoloso che, nel volgere di poco più di un mese, mi aveva rimesso al mondo.
Le crisi erano scomparse, come erano venute.

Il primo di questi episodi era accaduto al supermercato: stavamo in fila con mia moglie davanti a una cassa col nostro carrello della spesa, la crisi era arrivata improvvisa e non c’era stato verso di dominarla.
Ero stato costretto a sdraiarmi al pavimento perché non mi reggevo sulle gambe, avevo una forte vertigine e sentivo l’anima sfuggirmi come in un palloncino forato.
Ero rimasto lì, supino, con gli occhi chiusi tipo cadavere, tra la curiosità allarmata degli acquirenti, la perplessità del personale di vendita e la preoccupazione della mia consorte.
La gente sapeva poco degli attacchi di panico: i presenti si dividevano fra chi reputava avessi un infarto in corso, chi optava fossi un tossico in crisi d’astinenza, mentre una esigua minoranza che si orientava per l’epilessia.
In ogni caso, chiamato il 118 e condotto al più vicino pronto soccorso, venivo sottoposto a un check up completo.
Accertato che non vi fosse nulla di fisico nel problema, mi esortarono a darmi una calmata, quindi, mi cacciarono fuori con venti gocce di En.
Questi attacchi si erano poi ripetuti in svariate situazioni: mentre stavo sul posto di lavoro, al cinema, in strada o in viaggio.

Fu mitico un nostro anniversario di matrimonio che si era deciso di trascorrere in un romantico week end a Venezia.
Avevamo cenato in un grazioso localino in zona a Piazza San Marco, nel dopocena ci eravamo spinti a bere un digestivo nel suggestivo caffè Florian.
Una serata tranquilla e decisamente felice: a un tavolino prossimo al nostro, avevamo anche riconosciuto Claudio Amendola e Francesca Neri che facevano altrettanto, il che aveva dato in pizzico di glamour alla nostra degustazione.
Quel piccolo viaggio ci aveva resi spensierati e pieni di rinnovata passione, sembravamo due ragazzini innamorati al loro primo viaggio insieme in una località ricca di fascino.
Il dopocena si prospettava promettente, per tutta la sera avevo corteggiato la mia signora con sensuale calore, decidemmo di non protrarre troppo a lungo la nostra uscita e di tornare in albergo a concludere la serata in maniera scoppiettante.
Neanche il tempo di chiuderci in camera che sentì arrivare la solita avvilente crisi.
Vero che ormai non necessitava più far accorrere il 118, ormai si era fatto il callo al disagevole problema, ma, nutile dire che la serata si concluse in maniera estremamente negativa.
Comprensibile a lungo andare lo scoglionamento di mia moglie, umanamente stanca del numero di volte che si replicavano scene di quel tipo, imbarazzanti e anche stressanti.

In forza di quella infausta esperienza pensai subito a un ritorno del disturbo, causato della tensione nervosa cumulata nella giornata: la riduzione del campo visivo poteva solo essere una variante del fenomeno, del resto, se non perdevo conoscenza, non provavo nausea, deambulavo con passo fermo, non potevo essere in punto di morte.
Presi a controllare il respiro e decisi di proseguire nel mio percorso, distrarmi forse mi avrebbe giovato e la cosa sarebbe cessata: giunsi quindi dal cliente ed effettuai la consegna.
Lasciato il negozio, non avvertivo miglioramenti: allora, evitando toni tragici, chiamai mia moglie al cellulare spiegandole l’accaduto e le chiesi, cortesemente, di accompagnarmi in auto all’ospedale.
Ero privo della mia auto poiché avendo sotto casa una linea di metropolitana "leggera", che nel suo percorso faceva una fermata a venti metri dal mio ufficio, da anni avevo rinunciato a venire al lavoro in centro col mio mezzo, risparmiando su spese di trasporto, di parcheggio e di code nel traffico.
Smadonnò un po’, ribadendo che ne avevo sempre una, che ero un rompicoglioni, ma, nel giro di venti mi aveva prelevato e condotto a destinazione.
Così ora attendeva, annoiata, con me.
Per ingannare il tempo passeggiava facendo la spola tra il corridoio e lo stanzino dove stavo, non era granché preoccupata, era un film già visto per entrambi.

A parte essere mezzo cieco da un occhio, il resto funzionava regolarmente: avevo voglia di fumare e un discreto appetito, considerato che si erano fatte le nove di sera.
La nota positiva di tutto l’ambaradan era che ci era passata la voglia di litigare: non tutto il male veniva per nuocere.
Stanco e stufo, pregavo che si dessero una mossa a visitarmi, purtroppo la cosa si faceva lunga: nel corridoio passavano di continuo lettighe del 118 con gente malconcia che si torcevano dal dolore.
Ovviamente provavo compassione per loro, ma, non potevo non pensare che a ogni nuovo arrivo, il momento della mia visita slittava di almeno quaranta di minuti.
Tra le altre cose mi angustiava l’idea che l’intoppo potesse mandare a monte il mio viaggio del lunedì seguente.
La cosa sarebbe stata una bella complicazione, perché dietro ognuno di questi viaggi c’era un’organizzazione calibrata al millesimo che rischiava di naufragare.
Attendevo l’evento da oltre tre mesi, tanto era passato dall’ultima volta che ci eravamo incontrati, poiché disporre un nostro incontro non era cosa da improvvisare.
Questo amore clandestino, vissuto alla distanza di cinquecento e rotti chilometri, non era certo la cosa più agevole per una relazione fedifraga.
I nostri incontri avvenivano sempre in città a metà strada dalle rispettive residenze dove risultavamo anonimi sconosciuti.
Questo perché i rischi d’essere scoperti divenivano minimi: non si rischiava d'incontrare casualmente i rispettivi coniugi in qualche luogo pubblico o per strada.
Né d’essere individuati da parenti o amici che, successivamente, si prendessero l’incomodo d'informarne le nostre metà.

Stare insieme due giorni comportava: anzitutto di trovare entrambi il momento favorevole per assentarci dai reciproci impegni di lavoro e famiglia, giustificando l’assenza come fastidiosa, ma inevitabile, incombenza lavorativa.
Vi era la prenotazione per tempo dell’albergo e dei biglietti di viaggio, non ultimo, poi, il disporre di un budget per finanziare l’intera trasferta.
Per me che in certe cose ero un po’ all’antica, non era contemplato di dividere le spese di vitto e alloggio con la mia compagna di evasioni.
In queste cose muovevo, inoltre, dal ferreo principio che le spese delle mie infedeltà non dovessero mai gravare sui conti del ménage famigliare, quindi necessitavo di un fondo extra segreto.
Il mio lavoro era adeguatamente retribuito, ma non un centesimo doveva provenire della mia retribuzione, pertanto quei miei viaggi erano finanziati unicamente da lavori in nero di miei clienti privati.
In mancanza di questa condizione rinunciavo a compierli.
Non partire senza preavviso avrebbe significato: disdire l’albergo, perdere il costo del biglietto aereo, soprattutto costringere lei a inventarsi col proprio marito una scusa plausibile per annullare la partenza.

Ma c’era una cosa assai più grave che mi assillava, fastidiosa come un tafano sulle parti intime.
Avevo commesso una leggerezza imperdonabile: mi ero separato dal mio cellulare.
Sicuramente perché la situazione mi aveva fatto perdere la consueta lucidità, quando mi ero sistemato sulla barella avevo lasciato a mia moglie la pipa, la scatola del tabacco, il portafoglio con i documenti e denaro e il cellulare.
Questa era stata una vera cazzata.


(continua)
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