Il seme dell’odio Pt.11

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Il seme dell’odio Pt.11

Torino - fine maggio 1985

Vesna rientrava nel primo mattino, era rimasta fuori due giorni.
Un ricco cliente l’aveva voluta a una festa tenuta nella sua villa un collina. Aveva richiesto solo lei. Non ne aveva informato Gledia poiché non voleva se ne avesse a male per quella esclusione, la sua amica, non era ritenuta adeguata in certi ambienti.
A quelle feste di vecchi maiali danarosi, bisognava possedere una certa presenza, un savoir faire che lei aveva acquisito nella lunga vicinanza con Dragan: tramite lui era entrata in contatto con la gente “bene” della città, quelli che richiedevano, oltre alle prestazioni di sesso, anche un livello
d’ immagine di una certa qualità.
Cosa della quale, purtroppo, Glenda era carente.
Erano eventi molto redditizi, ma non accadevano sovente, la loro episodicità le aveva impedito di compiere il gran salto: divenire una escort di lusso e non doversi più accompagnare a una clientela di mezze tacche, fatta di piccoli imprenditori, commercianti e professionisti di seconda fila.
Un tempo aveva sperato di guadagnare abbastanza per darsi un futuro agiato, ma ciò che aveva ottenuto era stato solo di smettere di battere la strada. Ai livelli alti la concorrenza era agguerrita, ottenere successo, anche nel fare la puttana, era impresa complessa.
Alla fine Dragan, l’aveva lasciata al suo destino: lei era stata solo un tassello, un ingranaggio del suo oscuro disegno.
Ottenuto quanto gli serviva l’aveva messa al margine: la sua esistenza era rimasta misera; come quella stamberga di abitazione nella quale si erano consumate cose che non avrebbe mai creduto di compiere.

Nei due giorni di festino si erano toccati tutti gli eccessi: era incredibile a quali livelli di depravazione e lascivia sapessero abbandonarsi in quei raffinati ambienti, il denaro ti consentiva di soddisfare le fantasie e le voglie più turpi.
Fiumi di alcol e coca erano stati l’alimento principale di quelle orge, si sentiva distrutta di stanchezza e sonno arretrato, aveva chiuso occhio per un massimo di tre ore su ventiquattro, doveva buttarsi su un letto e dormirci per almeno un giorno filato.

Il taxi l’aveva lasciata all’ inizio del bosco, dietro i campi abusi dei pensionati, c’era da percorrere a piedi un sentiero di un centinaio di metri:si sviluppava con una curva tra gli alberi, dall’ anizio della stradina non si capiva dove conducesse.
Vesna conosceva a memoria la strada, avrebbe potuto seguirla a occhi bendati, mentre avanzava poteva udire il brontolio del torrente più avanti.
Le girava la testa, le gambe sembravano di piombo per lo sfinimento, il down della coca ti stendeva, ti sentivi come se avessi spalato carbone in miniera per settimane.
Appena arrivata al rudere si sarebbe fatta un buco, l’ero l’avrebbe rilassata, togliendogli ogni tensione: allora si sarebbe lasciata affondare in un sonno profondo come un coma, senza sogni e ansie.
Il sentiero si arrestò davanti a un piccolo ponte metallico dall’ aspetto rugginoso e malfermo, l’acqua del Sangone scorreva lenta fra pietre e rifiuti, scintillando alla luce del primo mattino.
Oltre il ponticello, altri duecento metri di sentiero, poi sarebbe stata a casa.


Torino - Giugno 1985

Trascorsero altre due ore di marcia in quella jungla pedemontana, seguire i pali della luce elettrica era stata sicuramente un’idea risolutiva, non di meno farlo tra rovi e intrichi di vegetazione alta più di un uomo, non era quella che si dice “una passeggiata di salute”.
Matranca era inciampato in una radice sporgente dal terreno, si era procurato una mezza storta al piede e ora procedeva claudicando e bestemmiando ogni tre passi.
Le loro braccia esposte dalla camicia a mezza manica stagionale, laddove erano scampate alle punture degli insetti, erano martoriate dai graffi degli arbusti spinosi e dei rami sporgenti.
Seguire a vista i pali li costringeva a uscire sovente dall’ angusto sentiero e avventurarsi far le fratte che nascondevano la vista al proseguimento dei cavi elettrici.

Il pomeriggio volgeva al termine, il sole, all’ orizzonte, aveva preso a degradare lentamente nel suo arco celeste: le ombre iniziavano ad allungarsi sul terreno, l’afa permaneva immutata.
De Petris pensò che avevano ancora circa due ore di luce utile, poi avrebbero dovuto procedere usando le torce elettriche, ma l’idea di muoversi al buio in quel troiaio vegetale, o di doverci tornare il mattino dopo, non lo alettava per niente.
Perché cazzo gli era saltato in mente di entrare in polizia?
La sua vita era una collezione di scelte sbagliate. Avesse fatto il concorso per i Vigli Urbani, ora sarebbe tranquillo a dirigere il traffico tra il corso Giambone e il corso Unione Sovietica, con l’unico rischio di trovarsi a sbrogliare un ingorgo di traffico in ora di punta, in ogni caso col turno che si sarebbe concluso regolarmente alle diciannove e trenta.

Si trovarono, a un certo punto, in una delle poche radure presenti sul terreno: qui i pali iniziavano a curvare la loro traiettoria verso ovest.
De Petris considerò che rispetto al punto in cui erano entrati, seguendo quella direzione si sarebbero avvicinati al Sangone.
Mezzora di ulteriore cammino la coprirono con maggior facilità: forse per la composizione del terreno in quel punto la vegetazione era più rada, presentando grossi aceri campestri e cespugli di lingusto, fiori estivi come papaveri, malva e pratoline, davano un aspetto ridente all’insieme.
Il terreno prese a salire con un declivio erboso, una piccola collinetta
s’ innalzava davanti a loro, i fili della luce la scavalcavano nascondendo il palo successivo.

- Minchia De Pè, vuoi vedere che ci tocca anche di arrampicarci? Commentò sarcastico Matranca.
- Dai Matrà, si vede che sei un sedentario, è alta quanto una cagata di cane, se fosse per te quelli che vendono articoli per la montagana sarebbero già alla fame.
- Sèè, vabbè! A parte che io sono un animale marino. Sono nato a Molfetta, davanti a un mare così limpido da potertelo bere. Qui al nord ve lo sognata un posto così. Comunque mi fa male il piede e già mi girano le palle a dover camminare, figurati a scalare anche le colline.
Matranca era un fiume in piena, la stanchezza lo rendeva caustico.
Quando toccarono la cima del dosso si trovarono davanti a una vasta spianata, a circa trecento metri correva la riva del torrente.
Rividero comparire i pali, che, al termine del tratto piano si addentravano in una nuova macchia alberata e ricca di alta vegetazione.
Si diressero verso di essa seguendo i cavi.

- De Pè. Ma se questa faceva la mignotta, vivendo in ‘sto posto, quando era fuori per lavoro, col figlio piccolo, come faceva?
- Come faceva a fare che, Matrà?
- A guardarsi il figlio. Se non aveva dove lasciarlo, che faceva? Se lo portava dietro a incontrare i clienti, o lo lasciava solo a casa?
- Boh? Magari aveva qualcuno che veniva a guardarglielo.
- Una specie di babysitter dici? Ma, se non invitava a casa neppure l’amica per prendere un caffè, mi sembra improbabile che facesse venire una babysitter in un posto come questo.
- Vabbè, Matrà, ma con i cazzi che abbiamo, ti metti a pensare alle babysitter di questa quà?
- No. Mi è venuto in mente il figlio piccolo della tipa e ci ragionavo. Ma hai ragione sono fatti suoi.

Fra i molteplici pensieri che gli affollavano la mente anche a De Petris quella cosa del bimbo gli era passata per la mente, ma non sapeva che pensare.
Certo che un bambino di quell’ età non puoi mica lasciarlo solo mentre sei fuori casa a battere, o a cercarti la roba da fiondarti in vena. I bambini piccoli non si lasciano soli. Mai.
Quel pensiero gli procurò una fiammata di prostrazione al plesso solare, come fosse stato trafitto da una lama portò, di riflesso, la mano a proteggere il punto sullo sterno.
Suo figlio aveva la stesse età del bambino della donna cercata.
Prima dell’incidente che lo aveva strappato a lui e sua moglie.

(Continua)
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