La scelta Pt. 2
La finestra da quella mattina rimase vuota. Inutili le mie levate anticipate del mattino: decisi di rinunciare a perdere il sonno.
Non sapevo se rallegrarmene o dispiacermene.
Non sapevo se rallegrarmene o dispiacermene.
Dopo un po’ smisi di pensarci e archiviai l’episodio come un piacevole incidente nel fluire monotono della quotidianità.
Ma ancora non immaginavo quale imprevedibile seguito avrebbe avuto quell’episodio nel prosieguo della mia vita.
Trascorsero diversi mesi. Si giunse con la piena estate alle vacanze aziendali.
Ogni tanto la cosa mi tornava in mente. Inutile dire che tette come quelle non si dimenticavano con facilità.
Ma ancora non immaginavo quale imprevedibile seguito avrebbe avuto quell’episodio nel prosieguo della mia vita.
Trascorsero diversi mesi. Si giunse con la piena estate alle vacanze aziendali.
Ogni tanto la cosa mi tornava in mente. Inutile dire che tette come quelle non si dimenticavano con facilità.
Poi c’era l’inconfessabile gusto, un po’ perverso, della cosa “rubata”, un evento imprevisto, quasi impensabile, con cui la fortuna ti premia, facendoti trovare nel luogo e nel momento giusto.
Stavo scoprendo una parte decisamente poco nobile della mia personalità, ma riuscivo anche a giustificarmi, elasticizzando la mia coscienza.
In fondo, mi dicevo, non avevo colpa per aver casualmente assistito a una cosa che non avevo certo cercato né provocato intenzionalmente.
Poi, sì, c’era un po’ di dolo nell’aver cercato di verificare se quello spogliarello fosse stato un episodio isolato o se avesse una replica, ma lo ritenevo un peccato veniale.
Sostanzialmente, se peccato vi era stato, si trattava di un peccato consumato con gli occhi: non l’avevo sfiorata o usata come quel porco sulla 127.
Stavo scoprendo una parte decisamente poco nobile della mia personalità, ma riuscivo anche a giustificarmi, elasticizzando la mia coscienza.
In fondo, mi dicevo, non avevo colpa per aver casualmente assistito a una cosa che non avevo certo cercato né provocato intenzionalmente.
Poi, sì, c’era un po’ di dolo nell’aver cercato di verificare se quello spogliarello fosse stato un episodio isolato o se avesse una replica, ma lo ritenevo un peccato veniale.
Sostanzialmente, se peccato vi era stato, si trattava di un peccato consumato con gli occhi: non l’avevo sfiorata o usata come quel porco sulla 127.
In fondo, uno sguardo non aveva ancora ammazzato nessuno.
Neppure sentivo rimorso verso mia moglie. Non l’avevo certo tradita.
Neppure sentivo rimorso verso mia moglie. Non l’avevo certo tradita.
Al più, avevo assistito a una scena scollacciata, come tante ne avevamo viste insieme al cinema o alla TV.
Certo, in quei casi si trattava di finzione scenica, ma le protagoniste si spogliavano ugualmente, mostrando integralmente il loro corpo, benché fosse solo un’immagine impressa su pellicola.
Qui la differenza stava nel fatto che la ragazza fosse concretamente reale, ma, in ogni caso, la distanza fisica tra noi era tale da renderla analoga a un’immagine virtuale, come quelle di un film.
Qui la differenza stava nel fatto che la ragazza fosse concretamente reale, ma, in ogni caso, la distanza fisica tra noi era tale da renderla analoga a un’immagine virtuale, come quelle di un film.
Alla fine dell’estate, con la ripresa del lavoro, dalla vetrata del mio ufficio potevo osservare che sul balcone della sconosciuta prendesse inizio una certa animazione.
Nei pomeriggi fioriva un viavai di giovinette, coetanee in un presumibile arco d’età tra i diciassette e i vent’anni, certamente amiche o compagne di studi della padrona di casa. Ma lei non era tra loro.
I giovani del mio ufficio, tutti poco più che ventenni, simili a laboriose api attratte dal nettare delle infiorescenze, iniziarono a interessarsi a quel vivace e ben assortito gineceo.
Presero a lanciare verso di loro spiritosi baci con la mano e saluti agitando le braccia, esultando infine perché le ragazze, tra risatine e smorfiette, iniziarono a ricambiare i loro saluti.
Tra un impegno di lavoro e l’altro, poiché ero per loro un capoufficio assai permissivo e cameratesco, che sapeva stare allo scherzo, progettarono uno stratagemma per stabilire un contatto diretto.
Poiché il nostro era l’ufficio aziendale che si occupava della pubblicità, nonché degli allestimenti delle vetrine dei nostri negozi d’abbigliamento, non ci mancavano colore e pennelli per il lavoro.
Nei pomeriggi fioriva un viavai di giovinette, coetanee in un presumibile arco d’età tra i diciassette e i vent’anni, certamente amiche o compagne di studi della padrona di casa. Ma lei non era tra loro.
I giovani del mio ufficio, tutti poco più che ventenni, simili a laboriose api attratte dal nettare delle infiorescenze, iniziarono a interessarsi a quel vivace e ben assortito gineceo.
Presero a lanciare verso di loro spiritosi baci con la mano e saluti agitando le braccia, esultando infine perché le ragazze, tra risatine e smorfiette, iniziarono a ricambiare i loro saluti.
Tra un impegno di lavoro e l’altro, poiché ero per loro un capoufficio assai permissivo e cameratesco, che sapeva stare allo scherzo, progettarono uno stratagemma per stabilire un contatto diretto.
Poiché il nostro era l’ufficio aziendale che si occupava della pubblicità, nonché degli allestimenti delle vetrine dei nostri negozi d’abbigliamento, non ci mancavano colore e pennelli per il lavoro.
Allestirono uno striscione lungo un metro e mezzo, sul quale, a caratteri cubitali, avevano dipinto il numero telefonico del nostro ufficio, con l’incitazione: “Chiama Ora!”, facendo il verso agli slogan delle televendite.
Quell’intraprendenza fu premiata: nel volgere di una ventina di minuti dall’esposizione del messaggio, il nostro telefono iniziò a squillare.
Fra i miei giovani ci fu un tripudio vittorioso: il contatto si era realizzato con successo.
Così, nei giorni seguenti, prese vita una consuetudine che permisi venisse svolta, purché circoscritta agli ultimi quindici, venti minuti a fine pomeriggio e orario di lavoro.
In quello spazio di tempo, il telefono passava di mano in mano tra i ragazzi che, con gran divertimento, facevano conoscenza delle belle dirimpettaie.
Ognuno di loro ne aveva adocchiata una e cercava di ottenere un appuntamento per approfondire la conoscenza.
Uno di quei tardo pomeriggi mi capitò di intercettare una chiamata in arrivo con una di loro che, gentilmente, chiedeva di poter parlare con uno dei miei giovani.
Approfittando della chiamata, mi venne la curiosità di chiederle se fosse lei la padrona di casa. La ragazza rispose di no, che era solo un’amica: la padrona di casa si chiamava Roberta.
In quel frangente, non avevo in mente altro che dare un nome alla sconosciuta spogliarellista.
Però, è noto che le strade dell’inferno siano lastricate di buone intenzioni.
Un piccolo demone s’insinuò nella mia mente, come uno di quei virus che, sopiti nel corpo che li ospita, si risvegliano all’improvviso con conseguenze letali.
Quell’intraprendenza fu premiata: nel volgere di una ventina di minuti dall’esposizione del messaggio, il nostro telefono iniziò a squillare.
Fra i miei giovani ci fu un tripudio vittorioso: il contatto si era realizzato con successo.
Così, nei giorni seguenti, prese vita una consuetudine che permisi venisse svolta, purché circoscritta agli ultimi quindici, venti minuti a fine pomeriggio e orario di lavoro.
In quello spazio di tempo, il telefono passava di mano in mano tra i ragazzi che, con gran divertimento, facevano conoscenza delle belle dirimpettaie.
Ognuno di loro ne aveva adocchiata una e cercava di ottenere un appuntamento per approfondire la conoscenza.
Uno di quei tardo pomeriggi mi capitò di intercettare una chiamata in arrivo con una di loro che, gentilmente, chiedeva di poter parlare con uno dei miei giovani.
Approfittando della chiamata, mi venne la curiosità di chiederle se fosse lei la padrona di casa. La ragazza rispose di no, che era solo un’amica: la padrona di casa si chiamava Roberta.
In quel frangente, non avevo in mente altro che dare un nome alla sconosciuta spogliarellista.
Però, è noto che le strade dell’inferno siano lastricate di buone intenzioni.
Un piccolo demone s’insinuò nella mia mente, come uno di quei virus che, sopiti nel corpo che li ospita, si risvegliano all’improvviso con conseguenze letali.
Due giorni dopo feci un piccolo passo in avanti: a una delle ragazze che chiamavano, chiesi gentilmente se poteva passarmi al telefono l’amica Roberta.
Certo, ero consapevole che il mio atto non fosse del tutto encomiabile, ma non è che al telefono si potessero fare chissà quali danni. Era, in fondo, una cosa giocosa.
La ragazza, titubante, rispose che avrebbe verificato se alla sua amica andasse di parlarmi.
Ne seguì una pausa nella quale giungevano voci concitate da un punto lontano dall’apparecchio.
Dopo un fitto conciliabolo, la giovane tornò alla cornetta:
– Roberta chiede chi sei e perché le vuoi parlare?
Non mi aspettavo quella diffidenza. Ebbi un attimo d’imbarazzo, nel quale mi chiesi se non stessi facendo una cazzata.
Poi, assumendo un tono neutro, risposi:
– Dille che sono il capoufficio dei giovani con cui parlate qui. Che l’ho vista qualche volta al balcone con voi: mi ha colpito e vorrei solo conoscerla, tutto qui.
Ci fu nuovamente silenzio e un parlottio sottovoce.
Poi una voce più giovane e incerta di quanto mi fossi immaginato si presentò al telefono:
– Ciao, piacere, sono Roberta.
Certo, ero consapevole che il mio atto non fosse del tutto encomiabile, ma non è che al telefono si potessero fare chissà quali danni. Era, in fondo, una cosa giocosa.
La ragazza, titubante, rispose che avrebbe verificato se alla sua amica andasse di parlarmi.
Ne seguì una pausa nella quale giungevano voci concitate da un punto lontano dall’apparecchio.
Dopo un fitto conciliabolo, la giovane tornò alla cornetta:
– Roberta chiede chi sei e perché le vuoi parlare?
Non mi aspettavo quella diffidenza. Ebbi un attimo d’imbarazzo, nel quale mi chiesi se non stessi facendo una cazzata.
Poi, assumendo un tono neutro, risposi:
– Dille che sono il capoufficio dei giovani con cui parlate qui. Che l’ho vista qualche volta al balcone con voi: mi ha colpito e vorrei solo conoscerla, tutto qui.
Ci fu nuovamente silenzio e un parlottio sottovoce.
Poi una voce più giovane e incerta di quanto mi fossi immaginato si presentò al telefono:
– Ciao, piacere, sono Roberta.
Ci furono alcuni minuti di convenevoli: mi chiese il nome, le confermai che, avendola vista, m’ero incuriosito e avrei avuto piacere di conoscerla.
La sentivo esitante, voleva darsi un tono, ma la voce tradiva una tensione.
Cercai di apparire rassicurante, non volevo darle l’idea di avere secondi fini. Chiesi se potevamo scambiare due parole davanti a una tazza di cioccolata con panna, un tardo pomeriggio dopo l’ufficio.
Non ero esperto di approcci con giovani donne; l’ultima esperienza la ricordavo con mia moglie al tempo del liceo, quindici anni prima.
Reputai che, per una ragazza di quell’età, l’idea di una cioccolata con panna apparisse più rassicurante della proposta di un aperitivo alcolico.
Ci pensò un momento, poi disse che la cioccolata andava bene.
Sfogliai veloce l’agenda e fissammo per il venerdì della settimana successiva.
Ero contento che avesse accettato, anche se non avevo ben chiaro dentro di me il perché stessi facendo questa cosa.
In parte, la curiosità di capire perché una bella ragazza di quell’età avesse il bisogno di fare ciò che faceva per avere l’attenzione di un uomo, e soprattutto di quel genere d’uomo.
L’altro aspetto era di certo la gratificazione di essere riuscito, nonostante la ruggine dell’età, a ottenere da lei un appuntamento, come fossi un suo coetaneo.
La mia coscienza avanzava comunque qualche dubbio sulla correttezza di quel gesto: la misi a tacere con la motivazione che una cioccolata con panna, in una rispettabile cremeria, non era certo un’attività granché peccaminosa.
La sentivo esitante, voleva darsi un tono, ma la voce tradiva una tensione.
Cercai di apparire rassicurante, non volevo darle l’idea di avere secondi fini. Chiesi se potevamo scambiare due parole davanti a una tazza di cioccolata con panna, un tardo pomeriggio dopo l’ufficio.
Non ero esperto di approcci con giovani donne; l’ultima esperienza la ricordavo con mia moglie al tempo del liceo, quindici anni prima.
Reputai che, per una ragazza di quell’età, l’idea di una cioccolata con panna apparisse più rassicurante della proposta di un aperitivo alcolico.
Ci pensò un momento, poi disse che la cioccolata andava bene.
Sfogliai veloce l’agenda e fissammo per il venerdì della settimana successiva.
Ero contento che avesse accettato, anche se non avevo ben chiaro dentro di me il perché stessi facendo questa cosa.
In parte, la curiosità di capire perché una bella ragazza di quell’età avesse il bisogno di fare ciò che faceva per avere l’attenzione di un uomo, e soprattutto di quel genere d’uomo.
L’altro aspetto era di certo la gratificazione di essere riuscito, nonostante la ruggine dell’età, a ottenere da lei un appuntamento, come fossi un suo coetaneo.
La mia coscienza avanzava comunque qualche dubbio sulla correttezza di quel gesto: la misi a tacere con la motivazione che una cioccolata con panna, in una rispettabile cremeria, non era certo un’attività granché peccaminosa.
Pensai che, in definitiva, la vita era una sola e, se non si facevano danni al prossimo, tanto valeva avere il coraggio di vivere un’esperienza nuova, se capitava.
Era l’idea, in maniera innocente, di movimentare la mia esistenza di quel periodo, tutta concentrata sul lavoro e il benessere della famiglia.
Una piccola vacanza mentale, uno sguardo leggero sulla vita fuori dai rigidi binari del quotidiano.
Era l’idea, in maniera innocente, di movimentare la mia esistenza di quel periodo, tutta concentrata sul lavoro e il benessere della famiglia.
Una piccola vacanza mentale, uno sguardo leggero sulla vita fuori dai rigidi binari del quotidiano.
Nell’ora e nel giorno fissati, passai a prenderla all’angolo di due traverse prima della via in cui abitava, per evitare che qualcuno che conoscesse lei o me ci vedesse andar via in auto insieme.
Al primo colpo d’occhio, ridimensionai totalmente l’idea che mi ero fatto di lei: appariva più giovane dell’età che le avevo attribuito, era abbigliata con capi non esattamente all’ultima moda, aveva raccolto i capelli in un alto chignon e, nell’intento di mostrarsi più adulta, aveva esagerato col trucco.
Anche col profumo c’era andata pesante, pareva ci avesse fatto il bagno; l’abitacolo dell’auto ne venne totalmente saturato.
Sperai che non ne rimanesse traccia, nel caso dovessi accompagnare mia moglie in auto da qualche parte.
Il profumo che usava, purtroppo, lo conoscevo: era il “Charlie” di Revlon, che andava per la maggiore fra le consumatrici di cosmetici a basso prezzo.
Aveva un viso quadrato con grandi labbra, un naso leggermente aquilino e occhi grandi, con la tonalità dell’ambra.
Non era sicuramente una star da copertina: un volto non spiacevole, ma privo di note particolarmente seducenti, simile a migliaia di volti di ragazze della sua età.
Aveva comunque il pregio della gioventù, che dona ai lineamenti una luce interiore e perdona quelli esteticamente meno ideali.
Il primo pensiero fu che, se l’avessi incrociata per strada senza averla vista a quella finestra, non avrei davvero avuto la tentazione di conoscerla.
Appariva molto diversa dalla ragazza risoluta vista al di là dei vetri: la trovavo insicura, quasi smarrita.
Guardava gli interni della BMW come se si sentisse a disagio.
Forse anche lei mi aveva immaginato diverso, meno impegnativo, più alla mano, meno adulto, più vicino alla sua età.
Non capivo se fosse solo intimidita o già pentita di essere venuta.
Naturalmente, evitai di lasciarle intuire le impressioni provate. Mi mostrai cortese e premuroso, come se scortassi una principessa.
Nel percorso verso il locale che avevo scelto, una prestigiosa, storica pasticceria del centro, scambiammo poche frasi.
L’imbarazzo reciproco era percepibile: io prestavo attenzione al traffico, non sapendo bene di cosa parlare; lei guardava fissa la strada, tentando di mascherare la tensione. Ogni tanto, con la coda dell’occhio, la coglievo a studiarmi furtivamente.
Davanti alla cioccolata con panna e al suo calore, poco alla volta ci sciogliemmo.
Non avevo vocazione di intrattenitore, ma l’esperienza di continui contatti con clienti e fornitori tornava utile per mostrarmi disinvolto e, a tratti, spiritoso.
Mi riuscì di farla ridere per qualche battuta, e la vidi ammorbidirsi: divenne serena e più ciarliera.
Mi raccontò di frequentare il quarto anno dell’Istituto Professionale, con l’intento di diplomarsi in ragioneria, mentre io le illustrai a grandi linee il lavoro che facevo nell’azienda sulla via parallela a quella di casa sua.
Dopo la cioccolata, prendemmo anche due caffè. La nostra chiacchierata divenne più confidenziale e rilassata.
Al primo colpo d’occhio, ridimensionai totalmente l’idea che mi ero fatto di lei: appariva più giovane dell’età che le avevo attribuito, era abbigliata con capi non esattamente all’ultima moda, aveva raccolto i capelli in un alto chignon e, nell’intento di mostrarsi più adulta, aveva esagerato col trucco.
Anche col profumo c’era andata pesante, pareva ci avesse fatto il bagno; l’abitacolo dell’auto ne venne totalmente saturato.
Sperai che non ne rimanesse traccia, nel caso dovessi accompagnare mia moglie in auto da qualche parte.
Il profumo che usava, purtroppo, lo conoscevo: era il “Charlie” di Revlon, che andava per la maggiore fra le consumatrici di cosmetici a basso prezzo.
Aveva un viso quadrato con grandi labbra, un naso leggermente aquilino e occhi grandi, con la tonalità dell’ambra.
Non era sicuramente una star da copertina: un volto non spiacevole, ma privo di note particolarmente seducenti, simile a migliaia di volti di ragazze della sua età.
Aveva comunque il pregio della gioventù, che dona ai lineamenti una luce interiore e perdona quelli esteticamente meno ideali.
Il primo pensiero fu che, se l’avessi incrociata per strada senza averla vista a quella finestra, non avrei davvero avuto la tentazione di conoscerla.
Appariva molto diversa dalla ragazza risoluta vista al di là dei vetri: la trovavo insicura, quasi smarrita.
Guardava gli interni della BMW come se si sentisse a disagio.
Forse anche lei mi aveva immaginato diverso, meno impegnativo, più alla mano, meno adulto, più vicino alla sua età.
Non capivo se fosse solo intimidita o già pentita di essere venuta.
Naturalmente, evitai di lasciarle intuire le impressioni provate. Mi mostrai cortese e premuroso, come se scortassi una principessa.
Nel percorso verso il locale che avevo scelto, una prestigiosa, storica pasticceria del centro, scambiammo poche frasi.
L’imbarazzo reciproco era percepibile: io prestavo attenzione al traffico, non sapendo bene di cosa parlare; lei guardava fissa la strada, tentando di mascherare la tensione. Ogni tanto, con la coda dell’occhio, la coglievo a studiarmi furtivamente.
Davanti alla cioccolata con panna e al suo calore, poco alla volta ci sciogliemmo.
Non avevo vocazione di intrattenitore, ma l’esperienza di continui contatti con clienti e fornitori tornava utile per mostrarmi disinvolto e, a tratti, spiritoso.
Mi riuscì di farla ridere per qualche battuta, e la vidi ammorbidirsi: divenne serena e più ciarliera.
Mi raccontò di frequentare il quarto anno dell’Istituto Professionale, con l’intento di diplomarsi in ragioneria, mentre io le illustrai a grandi linee il lavoro che facevo nell’azienda sulla via parallela a quella di casa sua.
Dopo la cioccolata, prendemmo anche due caffè. La nostra chiacchierata divenne più confidenziale e rilassata.
Vedendo l’anello al mio dito, chiese se ero sposato.
Le dissi di sì e che avevo una figlia di dieci anni.
Chiese dei rapporti con mia moglie: se andavamo d’accordo.
Confermai che erano buoni e collaudati.
– La ami come quando vi siete sposati? – aggiunse timidamente.
Risposi affermativamente:
– Sì. Certo che l’amo.
Rimase pensosa in silenzio per qualche attimo, poi, sorridendo:
– L’hai mai tradita? – chiese, arrossendo.
La domanda mi colse di sorpresa, non me l’aspettavo in quel momento. Mi pareva un po’ prematura per il nostro livello di confidenza.
Dovetti fare un’espressione strana, perché immediatamente si scusò per essere stata indiscreta.
Le dissi che non c’era problema:
– No, mai. In quindici anni che stiamo insieme, non l’ho mai tradita.
– Capito – aggiunse, laconica.
Faceva caldo nel locale, le guance le si erano colorite, il rimmel sbavava leggermente per la traspirazione, conferendole una nota tragica allo sguardo.
Per tutto il tempo, mi ero chiesto cosa avessero in comune la ragazza dai modi semplici e riservati che avevo davanti con la seduttiva spogliarellista che avevo visto esibirsi.
Ero fortemente perplesso.
Le dissi di sì e che avevo una figlia di dieci anni.
Chiese dei rapporti con mia moglie: se andavamo d’accordo.
Confermai che erano buoni e collaudati.
– La ami come quando vi siete sposati? – aggiunse timidamente.
Risposi affermativamente:
– Sì. Certo che l’amo.
Rimase pensosa in silenzio per qualche attimo, poi, sorridendo:
– L’hai mai tradita? – chiese, arrossendo.
La domanda mi colse di sorpresa, non me l’aspettavo in quel momento. Mi pareva un po’ prematura per il nostro livello di confidenza.
Dovetti fare un’espressione strana, perché immediatamente si scusò per essere stata indiscreta.
Le dissi che non c’era problema:
– No, mai. In quindici anni che stiamo insieme, non l’ho mai tradita.
– Capito – aggiunse, laconica.
Faceva caldo nel locale, le guance le si erano colorite, il rimmel sbavava leggermente per la traspirazione, conferendole una nota tragica allo sguardo.
Per tutto il tempo, mi ero chiesto cosa avessero in comune la ragazza dai modi semplici e riservati che avevo davanti con la seduttiva spogliarellista che avevo visto esibirsi.
Ero fortemente perplesso.
Se non fossi stato certo della sua identità, avrei detto che si trattasse di uno scambio di persona.
(Continua)