Una rosa per Martina Pt.3

1
L'Om - Costruttori di Mondi


Una rosa per Martina Pt.3



Il mio lavoro nel settore dell’abbigliamento inevitabilmente influenzava aspetti del mio privato. Erano tempi di riflusso culturale, la società, sull’onda di una positiva congiuntura economica, viveva una ventata di nuovo consumismo. L’azienda in cui lavoravo seguiva, lucrando, il volubile mondo della moda: il trend del Made in Italy, esploso negli anni ottanta, era giunto al vertice della sua popolarità tra la massa sociale.
I nuovi valori esaltavano l’edonismo individuale, la celebrazione del lusso, del successo e della sua ostentazione. Le nuove Bibbie erano le pagine patinate di: Vogue Donna, Cosmopolitan, Men's Health, Max e Capital. L’idea di vita e del genere di mondo, mie e di mia moglie, erano state all’opposto di tutto questo.
I miei primi anni, all’interno dell’azienda e del clima che la animava, erano stati a dir poco difficili: li avevo vissuti in un totale disorientamento, sentendomi il classico pesce fuor d’acqua.
Mi aggiravo come un intruso o uno straniero, fra gente che parlava un linguaggio sconosciuto che dovevo fingere di comprendere, una spia infiltrata fra le file del nemico, con l’angoscia d’essere smascherato al primo errore commesso.
Comprendevo di non essere pronto per il mutamento della nuova società, per ciò che stava divenendo il mondo e vieppiù per quel “genere” di mondo.
Avevo vissuto, prima d’allora, in una confortevole bolla utopica: con ideali legati all’impegno sociale, a una solidale fraternità umana, lontani anni luce dai nuovi miti di un’opulenza autoreferenziale e narcisista.


Ero stato catapultato in un ambiente che faceva della competizione sfrenata la sua legge fondante. L’unico valore riconosciuto stava nella ricerca del successo personale, ottenuto disinvoltamente anche nel calpestare, senza tanti complimenti, sia antagonisti che colleghi di lavoro. Mi trovavo fra squali navigati e spregiudicati, che sapevano muoversi agilmente nei fondali più torbidi, ordire complessi agguati, in attesa d’un tuo passo falso per sbranarti.
Era deprimente e sfibrante lavorare in un continuo esercizio di sopravvivenza. Numerose mattine, nel salire al mio ufficio, venivo aggredito dalla nausea e dovevo resistere all’impulso di fuggire via. Ero assillato dal timore di non essere all’altezza di ciò che mi sarebbe stato richiesto: la stessa ansia di quando, a scuola, mi attendeva un’interrogazione per la quale non ero preparato. Accettavo di vivere quello stato ingrato come un dovere vitale per continuare a sostenere la mia famiglia.
Avevo dovuto compiere un adattamento forzoso, un cambio di pelle, abbandonando il mio vestire stracciarolo “fricchettone”, per eleganti completi di flanella grigia, camicie in cotone Oxford doppio ritorto, cravatte regimental e calzature classiche inglesi.


Certo, non scavavo pietre in miniera, molti avrebbero desiderato lavorare nel settore dell’abbigliamento, ma l’adattarmi a quell’ambiente a me alieno era stato come dover azzerare ciò che ero stato, per ricostruirmi sotto costrizione in qualcosa che non amavo né condividevo.
Nondimeno, facendo di necessità virtù, spronato dal bisogno e dal timore di perdere il pane per la mia famiglia, avevo impiegato tutte le mie forze e le mie qualità non solo per sopravvivere, ma anche per emergere.
Ero giunto a occupare il mio attuale ruolo in un lento, faticoso percorso, affrontandolo con tenacia, in una sfida con me stesso e quel mondo ostile.
Una strada che mi aveva condotto dal gradino più basso del precariato a divenire responsabile della pubblicità aziendale.
Ogni millimetro di quell’ardua ascesa nell’organigramma dell'azienda l’avevo guadagnato con un impegno estenuante.
Ma pur avendo raggiunto una posizione promettente, nel profondo continuavo a sentirmi una sorta di corpo estraneo, come un portoghese che si mescola agli invitati a un pranzo di nozze.


Pur godendo i benefici economici derivati dal mio lavoro, mia moglie continuava a vedere come un tradimento dei nostri ideali quella nostra condizione di nuovi borghesi.
Quella situazione esistenziale, per lei, aveva il sapore di una sconfitta.
Sconfitta di cui ero il principale artefice, non avendo saputo incanalare le nostre esistenze nella direzione a cui ambivamo.
La mancanza del suo appoggio, di lottare per un obiettivo condiviso, mi faceva sentire solo davanti a quella sorta di fronte.
Le parole di “Una canzone per l’estate”, di De André e De Gregori, nel ritornello chiedevano:


“Com’è che non riesci più a volare?
Com’è che non riesci più a volare?
Com’è che non riesci più a volare?”


Io avevo smesso di volare da troppo tempo, quasi non ricordavo neppure più di aver posseduto ali.
Era probabile che il mio innamoramento per Martina nascesse dal bisogno di una persona che, nel suo quotidiano, vivesse identici problemi ai miei.
Una donna totalmente immersa, come me, nell’ambiente di lavoro in cui operavamo.
L’idea di non poterle dire un – ti amo – mi procurava una stretta al petto. Questo amore impossibile mi causava un costante rimpianto, ma in qualche modo mi era di conforto, si trattava di qualcosa a cui pensare con una dolce nostalgia: per assurdo, la sua assenza mi faceva compagnia.
Sapere di amare o d’essere amati da qualcuno, quand’anche non ci sia vicino, può scaldare il gelo del cuore e aiutarci a non sentirci soli.


Fu da questo che mi sorse un intento folle: quello di regalare a lei, che era sola, la convinzione d’essere amata, pur ignorando l’identità di chi l’amava. Sarei divenuto, per lei, un ammiratore segreto.
Mi piaceva l’idea che alla sera si sarebbe addormentata pensandoci e al mattino si sarebbe destata sapendo che, in qualche angolo di questa città, vi fosse qualcuno che segretamente pensava a lei.
La immaginavo a domandarsi chi fosse ad ammirarla da lontano, tanto timido da non dichiarare il sentimento provato.
A pensare che era di certo un conoscente, col quale si fossero già incontrati, magari anche numerose volte, e lei non vi aveva fatto attenzione, non ne aveva intercettato i segnali soffusi.
Avrebbe fatto la cernita di chi potesse trattarsi: avrebbe escluso amici più stretti, o forse no; avrebbe cercato sfogliando tra i fornitori di lavoro, i negozianti quotidiani, i frequentatori della palestra di aerobica, i garzoni o cassieri dei supermercati, il personale maschile dei bar in cui faceva colazione, forse un collega del nuovo lavoro.
Chiunque fosse, in ogni caso, l’aveva nei suoi pensieri e l’amava, e questo le avrebbe reso più lievi anche gli impegni più molesti della giornata.
Mi sembrò davvero una bella idea, qualcosa di fiabesco, un alito di poesia così raro da trovare nella realtà quotidiana.
Così, il giorno prima del suo compleanno, mi trovai nel negozio di un fioraio, nei pressi della sua nuova azienda.
Feci confezionare un mazzo di rose e vi allegai un bigliettino siglato con un cuoricino disegnato a matita rossa.
Mi accordai per farglielo trovare il mattino seguente sulla scrivania, al suo arrivo in ufficio.
Immaginai la sorpresa nei suoi occhi, al trovare quell’omaggio inaspettato e nel cercare di individuare l’artefice di quel biglietto che, nella sua anonima siglatura, lasciava pensare, senza ombra di dubbio, a un ammiratore sconosciuto.
Di certo le avrei riempito la giornata di una piacevole sensazione, forse avrei procurato anche un lieve palpito al suo cuore.
Mi sentivo felice come un bimbo per ciò che avevo fatto.


Decisi da quel momento che, alla stessa data di ogni mese, le avrei fatto trovare al mattino presto una rosa a gambo lungo sulla sua scrivania.
Così avvenne per sedici lunghi mesi.




(Continua)

Return to “Racconti a capitoli”