Una rosa per Martina Pt.2

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[CPQ 25] Remember - Costruttori di Mondi


Una rosa per Martina Pt.2


Venne un giorno in cui l'Azienda, attraverso la voce del suo Presidente, sentenziò che la linea Donna, di cui Martina aveva la responsabilità, non fosse più remunerativa in funzione delle politiche di sviluppo.
Si era deciso che il prodotto “donna” non fosse strategico per l’operazione di espansione in franchising sul territorio nazionale.
Questo perché il settore della moda femminile era oltremodo segmentato e difficile da praticare: subiva la concorrenza di grandi griffe, sostenute da ingenti investimenti pubblicitari, con campagne sui maggiori media nazionali. L’azienda non era attrezzata per competere con quelle imponenti realtà commerciali.
I pochi punti vendita Donna esistenti sarebbero stati riconvertiti in negozi delle due linee su cui l’azienda puntava nel suo obiettivo di crescita.
La scarsa resa economica di quegli esercizi fu attribuita all’incapacità manageriale di Martina sulla linea, piuttosto che alle carenze nel sostenere con la dovuta forza pubblicitaria ll prodotto offerto.
Quindi, senza tanti complimenti, le comunicarono di trovarsi un nuovo posto di lavoro.

Quella mattina la vidi uscire dall’ufficio del Responsabile del Personale con le labbra strette di amarezza e gli occhi lucidi di lacrime.
Disse alla segretaria che usciva a prendere una cosa nell'auto, nel parcheggio aziendale.
Dalle grandi finestre del mio ufficio al primo piano la vidi seduta nell'abitacolo della macchina: la testa tra le mani e il corpo scosso dai singhiozzi.
In quel momento mi sentii morire con lei; la pena e la rabbia per quella palese ingiustizia che le avevano inflitto mi appannavano la vista.
Avrei voluto precipitarmi nell'ufficio del Presidente, gridargli che erano dei bastardi e figli di puttana, poi scendere nel parcheggio, aprire la portiera della sua auto e stringerla tra le braccia, baciarle via con tenerezza le lacrime dal volto.
Dirle che, se la cacciavano, avrei dato le mie dimissioni e sarei uscito dall'azienda con lei, che insieme avremmo trovato un nuovo e migliore impiego, lontano da quel nido di vipere.
Ma nulla di tutto questo potevo fare: non ero un uomo libero di sé, ma un individuo che doveva rispondere delle proprie azioni a una famiglia che viveva del suo lavoro.
Dovetti inghiottire quel bolo incandescente e amaro di frustrazione e rancore.

Venne l'inverno e con lui il mobbing. L’Azienda aveva sistemi infallibili per liberarsi dei collaboratori non più utili e, per sollecitarne la rapida dipartita, li impiegava tutti.
La desolazione dipinta ogni mattino sul viso di lei era lo specchio di quanto fossero efficienti i metodi impiegati.
Fortunatamente, due mesi dopo, Martina trovò posto in una grande azienda concorrente e lasciò quel luogo di quotidiane umiliazioni.
Ci salutammo nel parcheggio al termine del suo ultimo giorno di lavoro: ci abbracciammo con calore, eravamo entrambi commossi.
Lo facemmo in silenzio, perché non c’erano parole per quel distacco; riuscimmo solo ad augurarci a vicenda buona fortuna con un bisbiglio.
Restammo stretti per un lungo momento, come quelle coppie che, ai piedi del treno in partenza, non sciolgono il loro abbraccio, prolungandolo fino all'ultimo secondo, finché il capotreno non inizia a chiudere gli sportelli del convoglio.
La guardai salire in auto, cercando d'imprimere nella memoria ogni fotogramma di quegli ultimi istanti, le sole immagini che mi sarebbero rimaste di lei nei giorni grigi che sarebbero venuti; non avevo idea di quando ci saremmo rivisti.
Vivere in una grande città può creare distanze incolmabili quanto un deserto, se si hanno luoghi di lavoro diversi e nessuna giustificazione per incontrarsi, per due che sulla carta erano solo ex compagni di lavoro.
Soprattutto se uno di loro doveva fuggire da quell'incontro per reprimere un sentimento provato, inconfessabile.
La sera calava sulla spianata plumbea del parcheggio, pensai che fosse l’ultimo tramonto nel quale avrei sentito la carezza ravvicinata del suo profumo.

Era andata via da un mese, uscita per sempre dalla mia vita.
Sapevo di non poterla cercare: la nostra non poteva restare la semplice amicizia di colleghi di lavoro, perché per me non lo era.
Se avessi provato a incontrarla senza la scusa data dal lavoro, non avrei resistito a rivelarle ciò che sentivo, e questo sarebbe stato un serio problema per entrambi.
La sua area all'interno degli uffici era già stata occupata dalla linea “Giovani”, una delle due linee, insieme al “Classico Uomo”, candidate al futuro sviluppo aziendale.
Di lei nessuno più menzionava alcunché; la macchina aziendale non possedeva memorie né sentimenti, accomunava uomini e donne nelle parole “personale” e “risorse”, elementi da impiegare in vista di un’utilità.
Se tale utilità diveniva inutilizzabile o obsoleta, la scelta razionale e ineluttabile era di disfarsene, come ingranaggi difettosi o usurati; che si trattasse di esseri umani era cosa ininfluente.

Solo ora avvertivo l’algida freddezza di quelle stanze. L'aria stessa, priva della sua presenza, mi risultava opprimente al respiro.
Avevo ancora una foto di lei, scattata a sorpresa in uno dei negozi che visitavamo abitualmente.
Nello scatto sorrideva osservando qualcosa fuori dall’inquadratura. L’avevo fatta con la reflex che portavo con me durante il lavoro, era un momento sereno nel periodo prenatalizio: sullo sfondo si intravedevano gli addobbi di decorazione del punto vendita.
La conservavo in un cassetto sotto chiave della scrivania.
Ogni volta che la nostalgia mi assaliva, aprivo il cassetto e guardavo il suo sorriso in quell’immagine: era il mio piccolo sole personale in quell'inverno del cuore.
I mesi scorrevano e si alternavano lente le stagioni.
L’Azienda cresceva secondo i piani stabiliti, gli impegni del lavoro erano aumentati, talvolta incalzanti, ma, pur assorbendomi al punto di fermarmi sovente in ufficio oltre le nove della sera, la mancanza di lei non mi abbandonava.
Restava in sottotraccia, come quelle febbri maligne che ti abbandonano per brevi periodi, dando l'illusione di una guarigione, per poi tornare ad aggredire il corpo scuotendolo di tremito.
Attraverso comuni conoscenti ricevevo talvolta sue notizie: mi dicevano dei progressi nel nuovo lavoro e ne gioivo per lei.
Ricevevo i suoi saluti che ricambiavo tramite loro.
Mi informavano anche che faceva una vita ritirata con suo figlio e non aveva al momento una nuova relazione, saperla sola mi intristiva.
Avere noiizia di come stava me la faceva sentire un po’ più vicina: avevo la sensazione di portarla con me e mi faceva compagnia, come un segreto intimo, dolce e dolente.
Non ero libero, non potevo esserlo e neppure lo desideravo.
L’assurdo di questa passione stava nella biforcazione dell’anima e dei miei sentimenti.
Sentivo come una ferita non rimarginata quello che avvertivo per Martina, ma questo non impediva che restasse presente l’amore verso mia moglie.
Ero tormentato e confuso, vivevo colpevolmente la passione che mi perseguitava mettendo in crisi le mie convinzioni.
Avevo sempre creduto che due amori non potessero convivere nella mente e nel cuore umano, pensando che un nuovo amore, o quello più forte, alla fine scalzasse l’altro.
Scoprire che questa convinzione fosse errata mi gettava nello sconforto, mi corollavano i riferimenti certi, lasciandomi disorientato come un marinaio privo di firmamento celeste e bussola.
Quanto vivevo dimostrava che in amore non esistono dogmi, ogni amore è una storia a sé.
Potevo solo dire che ciò che provavo per Martina e per mia moglie fosse sicuramente amore, lo era con qualità e sfumature differenti, ma con uguale intesità.

Con Luisa, mia moglie, stavamo insieme dall’adolescenza: il nostro rapporto era nato sui banchi del Liceo e si era mantenuto con quella giovanile presunzione di assoluto, che sfidava l’eternità.
Sposati prima dei vent’anni, pieni d’entusiasmo, col ventre di lei prominente per l’attesa di un bimbo concepito cinque mesi prima.
Un figlio che avevamo deciso, con caparbia incoscienza, di mettere al mondo pur non disponendo in quel momento di mezzi per sostenere una famiglia.
Ma la voglia di stare insieme con un bimbo nostro, che poi si rivelò essere una splendida bambina, era più forte di qualsiasi difficoltà presente e futura.
Da sposati, superando le difficoltà iniziali, per quindici anni avevamo vissuto il nostro sogno, sicuramente felici, spensierati magari no.

Entrambi avevamo rinunciato a terminare gli studi all’Accademia di Belle Arti nella sezione di Pittura, inizialmente mi ero adattato a diversi lavori saltuari, poi finalmente avevo trovato un impiego fisso nell’Azienda in cui ancora mi trovavo.
Risolta l’urgenza di mettere insieme pranzo con cena, la nostra vita aveva preso a scorrere su un binario agevole.
La mia carriera si prospettava promettente, anche lei aveva trovato un buon lavoro: potevamo permetterci una casa spaziosa, con un arredo di gusto, il possesso di un’auto per ciascuno, l’asilo privato e le lezioni di danza per la bimba, che cresceva bene e colorava di gioia la nostra vita.
Da studenti con uno stile di vita da fricchettoni post-hippy, amanti delle canne e dei concerti rock, ci eravamo lentamente adagiati in un’esistenza rassicurante di piccoli borghesi. Le serate con la casa piena di amici a fare e sentire musica, spinellarci e fare casino fino a notte fonda, divennero lentamente solo cene discrete fra coppie sposate.
Forse era per questa ragione che lei, rimasta legata a un'idea di vita più informale e libera, si mostrava restia a calarsi nella nostra nuova condizione. Un’esistenza certo più solida ed economicamente tranquilla, ma assai lontana dalla vita scanzonata di freak urbani.
Avvertivo da parte sua come la silenziosa accusa di aver tradito le nostre aspirazioni e la poesia dei sogni artistici della nostra adolescenza.



(Continua)

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