L'incontro – Pt. 17 - Fine

1
[Lab16] Tempesta - Costruttori di Mondi


 
L'incontro – Pt. 17 - Fine


Continuava a parlare, ora la voce la sentivo più flebile e affaticata.
Mi sentivo in colpa per averla costretta con la mia insistenza a quella confessione dolorosa, che certo le costava fatica e disagio.
Quel racconto, però, era una scelta di sincerità brutale, nel presentarmi il quadro desolato di quei suoi ultimi dieci anni di vita.
- Allora non sapevamo nulla di queste cose – continuò. - C'era solo il buco che pareva condurti in una dimensione inesplorata, ti salvava dal male di vivere, era la cura a un mondo ostile e nemico.
Non era una fuga, ma una porta aperta a un livello più elevato di esperienza, di conoscenza di sé.
Una porta ben più ampia di quella offerta dal fumo.
Certo, non eravamo ingenui, sapevamo che insieme all'estasi, al flash di un momento, quel paradiso in terra era veleno.
Sapevamo che quella strada avrebbe avuto una fine inevitabile.
Anch’io avevo letto Flash, il grande viaggio a Katmandu di Charles Duchaussois, ma sulle pagine di quel libro la dipendenza trovava una dimensione epica, un sogno di dissoluzione terribile ma splendente.
Così chiudevo gli occhi sul poi, su quello che sarebbe venuto.
Quando ti fai, non pensi al futuro, vivi nell'oggi senza domani, in un tuo eterno presente.
Un presente diviso a metà nel tempo delle tue giornate: quello che impieghi per procurarti la roba e pagarla ai pusher, e quello che fai quando la roba ce l'hai e la scaldi nel cucchiaino con due gocce d’acqua e limone, per preparare la spada, cercando nel corpo una vena ancora buona dove bucarti.
Quello che non sapevamo della fine era che lungo la strada del tossico ci sono delle malattie terribili, che vengono mentre la percorri.
- Mio Dio, Patty, devi aver visto l'inferno.
- Sì, ma non è finito, ci sono ancora dentro – disse con un tono che mi fece rabbrividire.
Riprese il suo racconto.
- Non sapevo nulla dell’Epatite di tipo C.
È una malattia che colpisce una moltitudine di tossicodipendenti da eroina e la causa della sua propagazione è l’uso della stessa siringa.
Quello che è un gesto di condivisione fraterna o di necessità pratica diventa lo strumento di un contagio mortale.
Io ho scoperto di essermi ammalata quando era già in fase acuta, poiché per molto tempo l’Epatite C resta asintomatica, la chiamano il “silent killer”, lo sapevi?
Questo perché è subdola, non danneggia subito la salute, quantomeno in apparenza.
Appena si è manifestata l’infezione, ho avuto febbre, senso di stanchezza, inappetenza, dolore di stomaco, poi urine scure, nausea, dolori ai muscoli e alle giunture, depressione.
Tutte cose che già provavo quando entravo in “carenza”, quindi non ci facevo caso.
Solo che la carenza cessava col buco, mentre questi sintomi continuavano anche quando non ero più in astinenza.
Ma in genere erano sintomi transitori, alternati a periodi in cui stavo bene, che mi rassicuravano. La malattia non dava segni di sé, ed è così che si è cronicizzata.
Solo quando il dolore all’addome è divenuto troppo acuto ho deciso di rivolgermi a un medico.
Mi hanno fatto una serie approfondita di esami e ho scoperto di avere sviluppato un “carcinoma epatico”: un cancro al fegato, in altre parole.
- Cristo! Un cancro?
- Sì, ed è inoperabile. Non è stata una bella notizia. Quando l’ho saputo, sono tornata in Italia. Per un anno, insieme alle cure palliative, ho frequentato un SERT per disintossicarmi con l’assunzione di metadone.
Mia zia ha voluto che venissi a Torino per la terapia di contenimento, qui su questa patologia tumorale sono molto avanti.
Così, una volta al mese, vengo su e faccio della chemioterapia, poi mi fermo qualche giorno per rimettermi in forze prima di tornare a Vicenza. Per questo ora mi trovo qui.
- Santo Dio, Patty! Ma perché ti hanno detto che è inoperabile? Magari possono addirittura sostituirti il fegato.
Non è possibile perché sono invasa di metastasi. Ne ho al pancreas, nell’intestino, allo stomaco, stanno fiorendo ai polmoni e chissà dove. Non serve un fegato nuovo, ci vorrebbe un corpo nuovo. – Seguì una risata soffocata d’amarezza.
Ero devastato da ciò che mi stava narrando, mi atterriva che il male che la consumava non le desse scampo.
Iniziarono a scendermi silenziose le lacrime.
Mi sforzai di dire qualcosa, non sapevo da dove incominciare, la disperazione mi toglieva l’aria.
- Patty, ma queste cure che fai, hanno detto che non serviranno a fermare la malattia?
- No. Nulla può più fermarla. Quando ho iniziato i cicli di chemio, mi hanno prospettato cinque anni di vita al massimo.
- Cristo! E quanto tempo ti resta ancora?
- Nulla. Il tempo è finito. Non hai idea di come scorra rapido quando la tua vita ha un termine.
- Ma quel maledetto Dio, dove cazzo sta? Accidenti a lui!
- Dio non c’è, non c’è mai stato. Ci siamo solo noi con la merda di cui siamo capaci di riempirci la vita.
Amore – singhiozzavo sommessamente – non lo posso accettare. Voglio vederti subito.
- Tesoro, te l’ho detto, vorrei vederti anch’io, ma non voglio farlo.
- Perché non vuoi? Almeno un’ultima volta, un ultimo abbraccio, un bacio.
- Peso quaranta chili scarsi, sono uno scheletro vivente, ho l’aspetto di un cadavere raggrinzito. Risparmiami questa umiliazione, te ne prego. Vivo ogni secondo come fosse l’ultimo che mi resta, respiro a stento. Non sono in grado di affermare se ci sarò ancora nei prossimi due minuti.
- Ti ho amata e ti amo ancora, lo sai? – dissi con trasporto. – Nonostante l’amore per Luisa, sei sempre rimasta nel mio cuore come una gemma preziosa.
- Ti ho amato anch’io, porterò con me un ricordo bellissimo di noi, di te. - disse ancora - Ricordati di me come ero e non come sono. È stata una storia bellissima la nostra, è valsa la pena di averla vissuta.
Un silenzio gonfio di nostalgia, rimpianto e dolore cadde sulla linea.
- Ci sei ancora? – chiesi con voce fioca.
- Sì. Ma sono stanchissima, ti lascio. È stato bello sentirti, un regalo prezioso che mi hai fatto. Mantieniti bene e cresci bene la tua bambina.
- Grazie. Lo farò. Ti amo, ricordalo.
- Anch’io. Ciao, amore mio.
- Ciao, Patty...

C’è un tempo per i sogni, quello della gioventù.
Dove le cose appaiono a portata di mano, raggiungibili, se abbiamo il coraggio di coglierle e realizzarle.
Ma se le lasciamo sfumare incompiute, è meglio dimenticarle, abbandonarle senza rimpianti.
Perché coltivarle al di fuori del loro tempo fa perdere la magia che le ha generate, e il loro sapore prende il gusto amaro della realtà.

Non siamo eterni, non siamo dei, non abbiamo seconde possibilità.
Siamo solo uomini.

(Fine)

Return to “Racconti a capitoli”