[Lab16] Mentre il cielo si spegne - Costruttori di Mondi
L'incontro – Pt.16
Il volto serio e autorevole del Presidente dell'azienda mi osservava con aria interrogativa: mi sentii travolgere dal terrore, mentre scrutava la mia mano che stringeva ancora il mozzicone dello spinello spento tra le dita.
Di colpo mi sembrava di essere immerso in una melassa agghiacciante di angoscia.
La situazione era gravissima: dalla finestra aperta fuoriusciva ancora qualche filo di fumo appena consumato, l’odore inconfondibile della cannabis aleggiava intorno alla mia testa ed ero convinto che giungesse anche alle sue narici.
Si era avvicinato a una distanza di meno di sessanta centimetri dalla finestra.
Pensavo al mio sguardo stranito e agli occhi rossi che certo dovevo avere, segni inequivocabili della “fattanza” in corso.
Il Presidente tornò a parlare:
- Lo sa che il fumo fa male? La sua azione irritante provoca tosse, eccesso di muco, bronchite cronica, enfisema. Può essere causa di disturbi circolatori e persino di cancro polmonare.
Ero intontito, col cervello in pappa, e balbettai:
- Il fumo, dice, Presidente?
- Certo! Che cazzo! Non legge i giornali o guarda le trasmissioni TV? È risaputo che il fumo sia dannoso ed è una delle principali cause di morte a livello mondiale. Dal fumo che esce da questa finestra è evidente che là dentro fumate tutti come turchi, e non vi fa bene.
Ero confuso oltre che terrorizzato. Non capivo di cosa stesse parlando, ma iniziava a formarsi in me l’idea che non avesse compreso di quale fumo si trattasse.
- Ha ragione, Presidente! – dissi, cercando un tono che non sembrasse un piagnisteo. – Siamo degli incoscienti, ma da domani promulgherò il divieto di fumare in tutto l’ufficio.
- Bravo! Faccia proprio così, salvaguardi la sua salute e quella dei suoi sottoposti.
- Ci conti, Presidente. Anzi, apporrò il cartello “Vietato fumare” in ogni ambiente di lavoro.
- Ottimo, figliolo! Così mi piace: assertivo e responsabile.
- Grazie, signore. Mi attiverò immediatamente.
- Lei mi piace, ragazzo mio. Farà strada nella nostra azienda, ci conti.
Non aveva capito un tubo della situazione: il sangue riprese a circolarmi nel corpo. Non avevo idea di come avesse fatto a non rendersi conto che ci eravamo fatti uno spinello, ma era certo che non l’avesse capito.
Ringraziai mentalmente gli dèi tossici per la botta di culo che mi era toccata: il mio posto di lavoro, il mio futuro aziendale e il sostentamento della mia famiglia erano salvi.
Il Presidente sarà stato di certo una cima nel mondo del business imprenditoriale, ma era evidente che non avesse mai visto una canna in vita sua.
- Allora, dicevamo: come procede il lavoro qui? – tornò a chiedere.
Scattai sull’attenti come un sergente di battaglione di fronte al proprio colonnello:
- Benissimo, signore! Lavoriamo alacremente, come un unico corpo, per offrire il meglio delle nostre abilità creative all’azienda.
- Ne sono molto felice, ragazzo. Così bisogna operare.
- Certo, Presidente, per il successo presente e futuro della nostra grande famiglia! – conclusi enfatico e infervorato, come un garibaldino dopo la vittoriosa sconfitta inferta alle truppe borboniche a Calatafimi, o come uno che avesse ricevuto la grazia mentre era già con la corda al collo sul patibolo.
- Ottimo! Sono queste le cose che voglio sentire. Continuate così! Buon lavoro a tutti voi.
- Grazie, Presidente! Riferirò il suo augurio a tutti i membri del mio ufficio, non ne dubiti.
Voltò le spalle in direzione della sua ammiraglia Mercedes, motorizzata con 3000 cm³ di cilindrata e 250 cavalli di potenza.
Chiusi la finestra e mi lasciai cadere sul pavimento, stremato dallo stress appena subito.
Scoraggiato, trascinavo stancamente la bandiera bianca della rinuncia e della resa, ormai convinto del fallimento.
Quando alle due e mezza del pomeriggio il telefono sulla mia scrivania prese a squillare.
Sollevai la cornetta senza convinzione, certo che fosse una chiamata aziendale per qualche rottura di coglioni riguardante il lavoro.
Ma in una frazione di secondo mi ritrovai proiettato al settimo cielo, come spinto da un missile supersonico.
Era lei in linea, e chiedeva di parlare con me: il miracolo atteso era avvenuto.
- Patty! Mio Dio, tesoro, che piacere risentirti! Sono io! – esplosi raggiante.
Ero così felice che solo una sezione d’archi di un’orchestra sinfonica, con un tappeto sonoro squillante e armonico, avrebbe potuto sottolineare il prodigio di quel momento.
- Ciao! Mia zia mi ha detto che mi hai cercato. Che bella cosa risentirti!
- È meraviglioso anche per me. Sapessi quanto ti ho pensata in questi anni, senza sapere dove fossi e senza avere il coraggio di cercarti.
Rideva:
- Davvero ti ricordavi ancora di me?
- Come puoi stupirtene, tesoro mio? Lo sai bene quanto fossi importante per me. Ti ho sempre portata nel cuore. Pensa che ho anche scritto una canzone per te.
- Che dolce sei! Pensavo che mi avessi dimenticata, dopo tutti questi anni.
- Non si dimenticano le cose che restano scritte nell’anima, Patty.
- Che belle parole sai ancora dire! Eri così anche al tempo della scuola. Sei sempre stato sensibile e con un animo nobile. Per questo mi piacevi, ma eri troppo impegnato perché tra noi nascesse qualcosa di più.
Quelle parole mi scioglievano il cuore con la dolcezza di un miele caldo.
Volevo risponderle: “Mai dire mai”, ma al momento non mi pareva il caso.
- Sai, non ridere: l’idea di cercarti mi è nata da un sogno. Sì, un sogno fantasioso: pensa che ti ho incontrata sulle scale del palazzo in cui vivo e mi hai rivelato che ci vivevi anche tu da anni, ma non ci eravamo mai incrociati. Pensa: nel sogno ti ho anche baciata, mi è sembrata una cosa così vera che mi sono svegliato con la voglia pazza di rivederti.
Rideva di nuovo:
- Che pazzo sei, anche nei sogni non cambi mai! Ma dimmi: con quella ragazza con cui giravi allora, avete continuato? Come si chiamava?
- Sì, si chiama Luisa e abbiamo continuato. È mia moglie, siamo sposati e abbiamo una bambina di sette anni.
- Che bello! E siete felici?
- Sì, posso dire che siamo felici.
- Mi piacerebbe incontrarvi tutti, ma purtroppo non mi è possibile.
- Patty, io voglio rivedere te, non presentarti la mia famiglia. Voglio vederti e che mi racconti tutto di te, di questi dieci anni. Ti va se ci vediamo a pranzo uno di questi giorni, quando ti è comodo? – chiesi.
Avevo notato, durante la telefonata, che nonostante l’evidente piacere di risentirmi, la sua voce aveva un tono vagamente spento, come se fosse stanca. Non era la voce vivace e sonora che ricordavo di lei.
- Mi spiace davvero, sai – disse mesta. – Ma in questi dieci anni sono accadute tante cose che mi hanno cambiato la vita, e non posso disporre del mio tempo, anche se lo farei volentieri per te.
Questo mi investì come una doccia fredda. Ero deluso, ma insistetti:
- Patty, dai, non ti voglio certo impegnare sottraendoti alle molte cose che avrai da fare. Voglio solo due ore al massimo, per rivederci e raccontarci le nostre storie di questi anni.
- Lo so, tesoro, ma credimi, non è possibile.
- Non voglio essere importuno, ma insisto. Che problema c’è? Hai forse un marito geloso?
- No, non sono sposata. Non è quello che pensi. Davvero, credimi, vorrei con tutto il cuore, ma non posso.
Mi stai facendo stare male, lo sai? Dimmi che non vuoi, piuttosto, così mi metto l’anima in pace. Ma non credo possibile che tu non possa regalarmi due ore della tua vita.
- Ahahah! – rise, ma non era una risata allegra.
- Perché ridi, amore mio? Sono buffo?
Tesoro, io non ho più una vita di cui disporre. Le prossime due ore potrei non esserci più. Io conto i minuti e i secondi della vita che mi resta. Prendere impegni non è più qualcosa che dipenda da me. E poi, non voglio che tu mi veda come sono oggi.
Stavo sprofondando in un buco nero di angoscia. Speravo ardentemente di aver frainteso il significato di quelle parole funebri.
- Cosa significa, Patty? Mi stai facendo paura. Cosa è questa storia del tempo che non hai, delle cose che non puoi fare? Cosa c’è di male se ti vedo?
- Ci fu una lunga pausa di silenzio. Il suo respiro nella cornetta era affannato.
- Hai tempo? – disse a un certo punto. – È una cosa lunga.
- Ho aspettato dieci anni per risentire la tua voce, davvero mi chiedi se ho tempo?
Ci fu un’altra lunga pausa, come se cercasse il fiato e le parole, poi parlò:
- Ho fatto diverse cose in questi anni. Ho lavorato come ragazza alla pari in diverse famiglie: in Inghilterra, Olanda, Germania e in Francia. Ho girato molto, conosciuto posti e gente, fatto cose belle e... cose brutte.
È stato nel mio ultimo lavoro a Lione, in Francia, una città alla confluenza tra la Saona e il Rodano, in una regione di pianure con nebbia e freddo durante l’inverno, che diventano calde e secche in estate.
Ma i côteaux costituiscono zone privilegiate, poiché riparate dai venti freddi del nord e dotate in estate di correnti d’aria fresca, che favoriscono le colture di frutteti e vigneti. Stavo appunto presso una famiglia di viticoltori.
Certe sere, quando ero libera, mi univo a giovani del posto: lo sai, i giovani sono uguali dappertutto, anche lì non era diverso.
Avevo un giro di amici che si facevano canne, si ubriacavano, occupavano il tempo libero suonando, andando a ballare, facendo sesso e divertendosi, come noi ai nostri tempi.
Ho incontrato un ragazzo, un musicista. Suonava il sax, bravo come un novello Charlie Parker. Ci siamo messi insieme. Dopo un po’ ho scoperto che si faceva di ero
Mi spaventava, ma ho voluto provare con lui, non l’avevo mai fatto prima. Ero sicura di non caderci.
Invece, dopo due mesi ero già infognata fino al collo, mi facevo due dosi al giorno.
Quando quelli da cui stavo si sono accorti che ero tossica, mi hanno sbattuta fuori.
Sono andata a vivere da lui. Aveva pochi soldi, io meno di lui, e dovevamo farci tutti i giorni. Ci prostituivamo entrambi nella zona della stazione, poi la sera stavamo a letto insieme, cotti dalla roba, senza più la voglia né la capacità di amarci o fare sesso.
A casa sua si riunivano spesso altri “fiondati” come noi. Girava la roba, girava la siringa per bucarci, a volte la stessa siringa per cinque o otto persone.
Allora non c’erano le siringhe monouso; le hanno introdotte come norma igienica quando i tossici hanno iniziato ad ammalarsi in massa.
(Continua)
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