L'incontro Pt.12

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(1) [CDP1 - Testo successivo all'editing] La bambola gonfiabile assassina - Costruttori di Mondi


L'incontro Pt.12


Sotto quel tavolo, coperti dalla lunga tovaglia che ci isolava dal mondo intorno, i nostri baci divennero incandescenti.
Un trionfo liberatorio per qualcosa di ineluttabile, atteso troppo a lungo.
Come in un film in bianco e nero, mi passarono davanti agli occhi le scene di tutte le occasioni mancate della nostra storia.
Le volte in cui avevamo sfiorato il confine di quei baci, inibendo i nostri trasporti e sacrificando la voglia pressante di donarceli.
Finalmente avevamo varcato quel limite, lasciandoci andare, tuffandoci a occhi chiusi in quella cascata vorticosa di corpi accesi dal desiderio di possedersi.
Ci abbandonavamo a quello stordimento in un volo cieco, senza chiederci dove ci saremmo ritrovati alla sua fine.
Come una massa d’acqua trattenuta all’eccesso fa cedere l’argine di una diga, allo stesso modo l’impeto delle nostre bocche diveniva inarrestabole nel rincorrersi.
Non avevamo detto una sola parola: era un silenzio colmato dalla frenesia dei gesti, dalle nostre mani che cercavano, s’incontravano, carezzavano, esplorando la dimensione sconosciuta di corpi, fino a quel momento solo immaginati.
Le mie vagavano sotto il madras sottile della sua blusa, si colmavano dei suoi piccoli seni, dotati di capezzoli eretti come nocciole.
Li prendevo tra i polpastrelli, strappandole fievoli gemiti che si mescolavano al risucchio umido dei nostri baci, dati con bocche adesive come ventose.


Il ritmo della musica assordante riempiva l’ambiente, coprendo il nostro ansimare, generato da quelle lunghe apnee a occhi serrati.
Eravamo scivolati sul pavimento, ci legavamo avvinghiati come serpi in amore. Il fumo consumato ci aveva avvolti in una nuvola di calda, serrandoci in un bozzolo morbido e accogliente, all’interno del quale esisteva solo il nostro desiderio di dissolverci in un unico essere.
Le mani cercavano frenetiche le cerniere delle vesti, mettendo a nudo epidermidi che venivano all’istante coperta di labbra ansiose e ricamate di saliva, lasciate dai percorsi delle lingue.
Presi a carezzarle il sesso, liquido come un frutto dischiuso; lei faceva altrettanto, ricambiando il mio desiderio teso e solido.
Lo struggimento ci rendeva ebbri e felici, immemori dell’effimero riparo costituito dal luogo in cui eravamo occultati.
Presi com’eravamo, non ci accorgemmo che qualcuno stesse sollevando un lembo della tovaglia, rendendo pubblico lo spettacolo delle nostre effusioni. Alcuni ragazzi ridevano sguaiatamente come idioti, per averci scovati lì sotto.
Fu una doccia fredda e improvvisa, il risveglio brusco da un sogno soave. Seccati, cercammo rapidamente di ricomporci.
La mia reazione fu immediata: li mandai tutti a fare in culo.
In ogni caso, il nostro momento di magia era sfumato; si era tornati alla realtà. Uscimmo dal precario nascondiglio, rintronati dallo shit e dalla frustrazione.
Per darci animo, ci versammo due bicchieri di brut, dando fondo al residuo di una bottiglia.
Trovammo un divanetto su cui abbandonarci.
Con i corpi ancora in tumulto, riprendemmo a baciarci: il palpito del desiderio fisico non ci abbandonava.
Tornammo infatti a infiammarci, a cercarci con carezze superficiali, ma per forza di cose senza costrutto.
– Ti voglio, ti desidero un casino. Scopiamo, ti prego – mi sussurrò Patty con voce febbrile.
– Anche io, ma come si fa in questo casino?
– Vieni! – disse. – Andiamo a cercarci un buco libero.
La seguii lungo le scale della casa, verso le camere da letto del piano superiore.
Tentammo con la camera di Monica, ma era chiusa: ovviamente con Alfio non avevano concluso le effusioni.
Vi erano altre due camere oltre quella dei padroni di casa: trovammo serrate anche quelle.
Non avemmo fortuna neppure col bagno del piano, occupato da chi ci aveva pensato prima di noi.
Non c’era un buco libero e discreto in tutta la casa; ogni spazio era disseminato di invitati ubriachi o strafatti: seduti sul pavimento o stesi sulla moquette.
Tutti persi nelle rispettive “cotture” alcoliche o chimiche.

Tornammo al salone, ci sistemammo a terra in un angolo della stanza.
Per consolarci, rollammo un’altra canna, sperando che il fumo ci avrebbe rilassati.
Speranza del tutto illusoria: infatti, riprendemmo a baciarci senza tregua.
I nostri non erano solo baci profondi, ma un gioco sensuale, delicato e minuzioso, che accomunava quei baci all’intimità del sesso: ci stavamo scopando con le labbra e le anime.
– Quanto tempo c’è voluto per arrivare a baciarci – dissi, mentre vellicavano con le labbra il lobo del suo orecchio.
– Quasi due anni – rispose con un sospiro.
– Mi auguro che non ci voglia lo stesso tempo per fare l’amore – replicai.
– No. Spero proprio di no. Dobbiamo farlo al più presto – rispose trepidante.
– Sì, non possiamo più aspettare. Domani combiniamo per andare in soffitta appena si può – conclusi.
Lei mi baciò con ancora maggiore passione; a occhi chiusi, sentivamo vorticare la stanza.
Era ormai il tramonto della giornata quando venne l’ora di sciogliere la compagnia e porre fine a quell’orgiastica festa. Il segno della conclusione fu decretato dalla comparsa in salone di Monica e Alfio: avevano l’aspetto di due limoni spremuti, l’aria spossata e scarmigliata. Io e Patty li guardammo con invidia; erano stati certamente più fortunati di noi nel godersi l’aspetto più appagante della festa. La loro aria soddisfatta e rilassata era l’opposto della nostra, beati loro.

Al momento di separarci, Patty mostrava, come me, un velo di malinconia per ciò che eravamo stati a un passo da compiere, ma al contempo ci univa la speranza che nutrivamo: sarebbe stato un distacco temporaneo, ci separavano solo ore.
Ci baciammo ancora, impiegando ogni istante che precedeva il nostro salutarci. Poi lei salì sulla macchina degli amici che l’avevano portata, mentre io e Alfio montavamo sulla moto.
Dal cielo, ormai buio, iniziavano a scendere alcune gocce d’acqua.
Avevamo percorso pochi chilometri quando la pioggia prese a cadere con un impeto torrenziale.
Alfio era dotato di un Barbour impermeabile da moto, mentre io portavo uno spesso giaccone vintage da marina, acquistato in un negozio di usato militare. La pioggia battente ci aveva costretto a procedere con attenzione e lentezza, per evitare di finire contro qualche albero che costeggiava la statale. Sollevando pareti d’acqua sulla nostra scia, più che su una moto, pareva di stare su un offshore nel mezzo d'uno specchio d’acqua.
In breve, il mio giaccone, i jeans e i capelli erano fradici di pioggia; la temperatura era bassa e battevo i denti dal freddo.
Come Dio volle, dopo più di un'ora di percorso giungemmo in città.
Alfio mi depositò davanti al portone di casa e ripartì nella notte sotto quel diluvio.
A casa, per trovare conforto, presi del tè caldo.
Sentivo il freddo nelle ossa e starnutivo a raffica: di certo mi ero beccato un raffreddore.
Maledicendo la sfiga di quel tempo infame, me ne andai a letto.

Sotto le coperte rivivevo le immagini di quel sublime pomeriggio, ancora incredulo di quanto avevo vissuto.
Ma pareva di sentire ancora il sapore dei suoi baci e la sensazione tattile delle carezze sul corpo di lei.
Mi addormentai sperando di sognarla, con l’ansia di rivederla e di fare l’amore con lei in maniera completa.
Stranamente, per tutto quel giorno avevo totalmente rimosso il ricordo di Sampo, quasi che tutto il nostro grande amore fosse svanito, lavato via da quei baci e dal nubifragio che mi aveva investito con uguale forza.
La mattina successiva, mi destai alla luce dell’alba, con l’ansia del pensiero di Patty e della sensazione molesta di ossa rotte.
Mi sentivo come se avessi preso una robusta dose di legnate,
Dall’insolito calore del corpo, da un disgustoso sapore di merda in bocca e dalla testa pesante come un macigno, compresi d'avere la febbre.
Il termometro segnava trentotto e mezzo: ero fottuto! Porca troia!
Presi a bestemmiare con un impeto da essere arso in piazza dalla Sanra Inquisizione.
Non era possibile che mi fossi ammalato proprio mentre mi accingevo a realizzare un sogno, penosamente, trascinato da anni.
Ero nero d'incazzatura, l’idea di un tête-à-tête intimo, in soffitta con Patty il mattino seguente, sfumava ancor prima di nascere.
Non avevo neppure modo avvisarla nella mattina che m’ero preso il malanno.
Magari avrebbe pensato che m’ero pentito dell'impegno preso, che scappavo per mancanza di coraggio nel dirglielo.
irraggiungibile nonostante l'avessi cercato più volte.
Ecco il testo corretto con un'orografia sistemata, mantenendo lo stile e il tono originali:
Avrei voluto almeno chiamarla al telefono per giustificare la mia assenza e confermarle la volontà di incontrarci, appena l'infreddatura mi fosse passata.
Ma non possedevo il suo numero di telefono, né quello di Monica, per farle sapere del mio stato momentaneo di infermo.
Inoltre, dato che la fortuna è cieca, mentre la sfiga ci vede benissimo, anche Alfio, che sicuramente possedeva quello di Monica, risultava irraggiungibile, nonostante l'avessi cercato più volte.
Dio, che palle! Per una volta che le cose sembravano fatte, il destino
carogna mi infilava un bastone tra le gambe.

Mi presi due aspirine, un caffè e mi rimisi sotto le coperte a sbollire la rabbia. Sarebbe stata una giornata pessima: oltre la febbre e il fastidio fisico generale, mi sarei macerato nella frustrazione, nello sconforto e nella voglia di fumare una sigaretta nonostante il mal di gola.


Continua

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