[CC25] Stinky Blues - Costruttori di Mondi
L'incontro – Pt.8
Dopo una mezz'ora d'uggiosa attesa e una tenace pioggerella, alla spicciolata, il nostro gregge si radunò intorno al nostro pullman.
Cannarella, fatto il conto delle teste presenti e verificato che fossimo tutti, fece aprire le porte; quindi, rimontammo sul pullman per fare ritorno.
L'autista mise in moto l'automezzo e lo puntò verso l'entrata dell'A1, in direzione Torino.
Vestivo un field jacket militare usato, color sabbia, raccattato al mercato di Porta Pila. Era di un cotone ruvido e spesso, che avrebbe dovuto essere impermeabile; ciò nonostante, a forza di prendere acqua tutto il giorno, era fradicio.
I lunghi jeans a zampa d'elefante avevano prosciugato un numero imprecisato di pozzanghere e ai piedi calzavo un paio di “quattro stagioni”, altrettanto zuppe.
Le “quattro stagioni” erano comunemente conosciute come desert boots, essendo in origine create in pelle scamosciata e chiara.
Per l'uso protratto, erano divenute di un colore che ricordava il fondo paludoso della foresta amazzonica.
Le portavo ininterrottamente da due anni, estate e inverno, con la sola variante che in estate le calzavo senza calze e con le calze in inverno.
Le avevo adottate quando avevo conosciuto Giulio, che ne possedeva un paio uguale.
Era stato lui che, per il pratico uso pluristagionale a cui si prestavano, aveva coniato la denominazione di “quattro stagioni”.
Ero affezionato a queste scarpe, che mi erano divenute un compagno di vita fedele e utile.
Le avrei tenute ai piedi anche a letto la notte, ma poiché ormai possedevano una loro proliferazione biologica, percepibile nel fetore che emanavano, mia madre, ferocemente disgustata, mi costringeva a tenerle sul balcone di casa ogni volta che rientravo.
In sostanza, erano scarpe tecniche, nate per attraversare senza problemi il deserto più aspro e secco, ma non erano ovviamente scarpe da vela, quindi imbarcavano acqua come un’idrovora: avevo i piedi marci e gelidi da ore.
Inerte da diverse ore, appena ci fummo messi in viaggio, l'interno del pullman risultava decisamente fresco e poco accogliente.
Purtroppo, aveva un problema col termostato dell'aria calda.
Infatti, al mattino, l'autista aveva tentato di inserirla, ma in breve il veicolo era divenuto un forno invivibile, quindi si era proceduto a disattivarlo.
Patty, Monica e io, come del resto gli altri ragazzi della comitiva, stavamo letteralmente battendo i denti.
Ci eravamo sistemati negli ultimi posti al fondo del mezzo, stando vicini, accoccolati, cercando il tepore dei corpi.
Avevo preso posto a lato del finestrino con Patty al mio fianco, mentre nelle postazioni parallele, oltre la corsia centrale, Monica stava vicina a un ragazzo dell'altra classe.
Cannarella aveva un cipiglio malmostoso e silente; non chiacchierava a ruota libera con la collega come nel viaggio d'andata, anzi, pareva ignorarla di proposito.
Lei sembrava non darsi pena, immersa nella lettura di un corposo libro che si era portata, e non lo degnava di uno sguardo.
Era presumibile che il pranzetto tête-à-tête con cui il vecchio marpione sperava di ammaliare la bella collega si fosse risolto nel classico, brutale, due di picche.
Cosa ovvia, poiché lei era una gran gnocca e con metà degli anni di lui.
Inoltre, Cannarella non possedeva il fascino di un Brando in Ultimo tango a Parigi con la Maria Schneider, ergo non c'era stata trippa per gatti.
Nel volgere di una ventina di minuti, mentre lei leggeva, lui si era appisolato, russando sommessamente.
A quel punto, come in ogni gita che si rispetti, invece di dormire come il nostro professore, un nostro compagno tirò fuori dalla custodia una chitarra folk a dodici corde per rianimare lo spirito della comitiva infreddolita.
Per essere meglio udito da tutti, si era piazzato a metà del pullman, sedendo sul bracciolo di un posto lato corridoio.
Imbracciata la chitarra e armato di plettro, il nostro iniziò a suonare.
Si partì con i cantautori più impegnati, sciorinando pezzi di Dylan, De André, Guccini, De Gregori, per finire nel più commerciale repertorio di Baglioni e Battisti, accompagnando ogni brano col ritmo delle mani e con cori dei più intrepidi e intonati.
Tra canzoni e risa, l'allegria e il calore si diffusero rapidi all'interno del mezzo; il freddo e l'umidità evaporarono, annebbiando di condensa i finestrini.
Era bravino alla chitarra il nostro intrattenitore.
Di nome faceva Enea Baldini, era di origini romagnole: alto, longilineo, occhi azzurri, faccia larga e piatta.
Un cordino di pelle raccoglieva in una coda la lunga zazzera bionda.
Era sempre scanzonato e gioviale, come la gente cordiale e calorosa della sua regione.
Enea era una delle colonne portanti della nostra classe, e non gli mancavano i successi con l'altro sesso.
Messo così, possedeva il fascino di un folk singer californiano, ovviamente solo prima che aprisse bocca, rivelando la sua inconfondibile cadenza d'origine.
Sull'onda dei brani più romantici, le coppie, affondate nei loro posti, iniziarono a scaldarsi.
Alcune erano coppie già formate della nostra e dell'altra classe, ma in quel contesto, rilassato e coinvolgente, i componenti di entrambe presero a mescolarsi, formandone di nuove all'istante.
Il pullman si trasformò in breve in una sorta di Love Boat.
Le lingue iniziarono a spremere limoni senza un domani, seguite da smaneggiamenti prossimi al petting spinto.
Vista la piega che aveva assunto la situazione, Enea iniziò a seccarsi e imprecare.
- Sócc'mel! - esclamò alterato. - Sempre così! Quando suoni per gli altri, finisce che tutti si mettono a pomiciare e io m'attacco al cazzo.
Rimise la chitarra nella custodia, si sistemò accanto alla biondina vicina di posto e prese rapidamente a darci dentro anche lui.
Io e Patty ci guardammo intorno; eravamo turbati dal clima di giovanile erotismo che ci circondava e assai incerti sul da farsi.
Avevamo entrambi desiderio di abbandonarci a quell'onda passionale che, nostro malgrado, sembrava richiamarci come un gorgo languido e invitante che abbassava i nostri freni inibitori.
Mi sentivo male per quel desiderio tanto sbagliato, e dal suo sguardo capivo che lei non stesse meglio di me.
Monica e il suo vicino ci davano alla grande; a un certo punto incrociai il suo sguardo che pareva dire: - Esù, ragazzi! Sveglia, cazzo! Fatevela ‘sta limonata, che cacchio aspettate?
Ero più teso di una corda di violino.
Patty era maledettamente bella, seducente, profumata, morbida e arrendevole. Il desiderio era un male fisico, la mente un sanguinoso campo di battaglia tra cedimenti a pulsioni sensuali e baluardi di censure morali.
Sentivo il calore del suo corpo a contatto col mio fianco; stavamo praticamente abbracciati.
La sua bocca aveva labbra tumide, rese ancor più rosse per il freddo subito. Sembrava il centro dell'universo che mi richiamava a sé, per annullarmi nella fiammata incandescente di una supernova passionale.
Bastava un soffio di distanza perché le nostre labbra si unissero, perché ci fondessimo in quel contatto d’amore da troppo proibito e precluso.
Impazzivo fino a desiderare di implodere in me stesso.
Ma non mi muovevo. Non mi muovevo proprio perché potevo solo impazzire.
Quel nostro bacio non sarebbe rimasto un episodio isolato e indimenticabile.
Se l’avessi baciata, sarebbe stato infinitamente di più che uno scambio di labbra e lingue: questo lo sapevo, e lo sapeva anche lei.
Sarebbe crollato quell’effimero muro che costituiva il nostro rapporto d’amicizia, un muro più sottile di una carta velina che lasciava vedere tutto con chiarezza.
Un muro di simulazione che chiamavamo rapporto d’amicizia, perché non potevamo confessare di amarci e desiderarci, né potevamo dirci cosa in realtà fosse.
Non avevo mai tradito la mia ragazza.
Meglio sarebbe stato, se fosse mai avvenuto, lo scopare con una di cui non mi fregava meno che nulla, che il tutto fosse unicamente una cosa fisica.
Con Patty non era possibile; non potevo farlo senza rischiare di mandare a puttane il mio rapporto con Sampo, che sentivo di amare come il primo giorno che stavamo insieme.
Che cazzo. Ma come era possibile amare in egual modo due donne, ognuna con una personalità e una fisicità distinta dall’altra?
Inutile chiederselo: questa era la realtà.
Patty cercò la mia mano, ci stringemmo più vicini, senza una parola.
Parlare in quel momento avrebbe rischiato di strappare il nostro labile e trasparente muro di velina e di verità taciute.
Avevo un groppo in gola e voglia di piangere per la crudeltà a cui il destino ci aveva costretti; mi trattenni a stento.
Guardavo fuori dal finestrino il paesaggio dell’autostrada correre alle nostre spalle: era allagato di pioggia, brullo e scuro come la mia mente in quel momento.
Patty si appoggiò alla mia spalla e chiuse gli occhi; forse anche lei aveva voglia di piangere.
Continuammo a tenerci per mano; il rumore del motore e lo sciabordio dei pneumatici sull’asfalto bagnato accompagnavano il nostro silenzio, confondendo i sospiri amorosi dei ragazzi intorno.
Poi Patty si addormentò.
Avrei voluto farlo anch’io, ma non mi riuscì.
(Continua)
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