L’incontro – Pt. 6

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[MI186] Le solitudini imperfette - Costruttori di Mondi



L’incontro – Pt. 6



Si fece l’ora di pranzo, e il cielo concesse una tregua allo stillicidio di pioggia.
Usciti, come Dio volle, dalla maestosa cattedrale, dove Lanfranco e Wiligelmo, in grazia del Creatore, avevano dato il loro meglio artistico, noi, che d’artistico avevamo assai meno, eravamo stati causa d’un travaso di bile all’esimio prof. Cannarella.
Poiché, a suo dire, ci eravamo comportati peggio d’una mandria di capre acefale al pascolo.
Con i nostri lazzi sguaiati e il percepibile disinteresse per la monumentale opera artistica, nonché con la mancanza di rispetto mostrata verso di lui, avevamo sacrilegamente dissacrato la santità dello stesso sito.
Giovani e irriverenti, ridevamo tra noi di quei suoi accesi sfoghi, traendone un perfido piacere.
Il nostro burlesco dileggio non voleva essere crudele, ma aveva quel sapore di piccola rivolta, d’opposizione all’ordine costituito, del sentirci fuori dal disciplinato, serioso e monotono mondo degli adulti.
Non tutti nella nostra classe erano così: buona parte di noi potevano essere considerati studenti tranquilli e diligenti.
Ma erano quelli meno dotati di personalità creativa e indipendente; ragazzi che forse avevano scelto quel corso di studi in mancanza d’una vera vocazione, di un’idea definita di sé e di cosa essere nel futuro.
Studiare arte, per loro, equivaleva a un diploma in ragioneria; il disegnare più o meno bene era ininfluente per la loro attitudine.
Io e i miei compagni più affini amavamo quella scuola perché sentivamo le cose d’arte come parte di noi stessi, di ciò che sarebbe stato il nostro mestiere e la nostra vita.
L’arte era qualcosa di vivo e vitale, non un elenco di fatti, nomi e date, da celebrare con lo spirito cupo con cui si visita un mausoleo.
Quello che rifiutavamo nel modo d’insegnare del nostro professore era quel taglio ingessato e nozionistico, privo di amore e passione, con cui trattava la propria materia.
Lui e l’avvenente collega, per un pranzo “tête-à-tête”, si erano infilati in una pizzeria nei pressi, con l’evidente intento di lui di appoliparsi alla cavallona.
A noi fu dato il “sciogliete le righe”, a patto che non ci allontanassimo troppo dalla zona o mancassimo all’appello nell’ora del rientro, prevista per le sedici del pomeriggio.
Eravamo quindi liberi di cercarci qualche bar o altro esercizio in cui rifocillarci, oppure di dare fondo ai panini che alcuni si erano portati da casa.

Io, con Patty e l’inseparabile amica Monica, partimmo in esplorazione dei paraggi, alla ricerca d’un posto che offrisse qualcosa di commestibile per placare l’urgente appetito.
Dopo una serie di eleganti botteghe d’epoca, nei portici della centrale via Emilia, incappammo nell’insegna d’un locale di pizza al taglio che calzava a pennello.
Stremati dalla sfiancante mattinata col Cannarella, ci avventammo su generose porzioni di pizza, calda e fragrante, con la bramosia d’un digiuno in tempo di carestia.
Ci rimpinzammo di pizza nelle sue varie specialità, accompagnata da boccali schiumanti di birra rossa alla spina.
Colmi come otri e appannati dal pranzo, avevamo preso a ciondolare per le strade intorno alla cattedrale che, nel dopopranzo, risultavano deserte, salvo rare auto e qualche passante in bicicletta.
Consumato un espresso nel celebre Caffè dell’Orologio, per combattere la laboriosa digestione, s’imponeva un adeguato digestivo.
Nell’angolo discreto d’una viuzza traversa, tirai fuori dalla mia sacca uno spino realizzato con cinque cartine incollate e rollate ad arte, della lunghezza di quasi diciotto centimetri.
Lo accendemmo e iniziammo, come di consueto, a passarcelo, tirando corpose boccate.
Dopo poco, il fumo fece il suo effetto: ci prese la “ridarola” da sballo e, mentre passeggiavamo, sparavamo a raffica cazzate surreali che ci facevano sbellicare dal riso.
Avendo del tempo da impiegare, iniziammo a bighellonare nei dintorni con lo sguardo ameno del turista.
Lontani dalle soporifere lezioni del Cannarella, la nostra vena estetica prese a manifestarsi: non potemmo negare che la città possedesse scorci di incantevole fascino.

Come a Torino, anche qui si trovavano ampi portici, assai apprezzabili nelle giornate piovose come quella.
Il portico di Piazza Grande, cuore pulsante della città, anticamente era il luogo di mercato per eccellenza, nonché fulcro della vita politica, religiosa e commerciale.
Sulla piazza si affacciavano il Duomo, con l’imponente torre della Ghirlandina, e lo splendido Palazzo Comunale, un aggregato seicentesco di edifici con funzioni diverse, nato in epoca medievale.
Gli spazi che un tempo ospitavano i banchi del mercato erano ora sostituiti dai tavolini di bar e ristoranti che animavano la piazza in ogni stagione dell’anno, creando un suggestivo angolo cittadino.
Stanchi di vagare, avevamo trovato, dietro Piazza della Torre, dei grossi gradini in granito, lunghi più di due metri, posti ai piedi delle mura della torre.
Una vera manna per le nostre gambe stanche, ottimi per riposare fino al momento della ripartenza.
Più che sederci, ci eravamo stravaccati: Patty e Monica si erano allungate su due dei massicci gradini, incuranti dell’umidità presente sulla superficie.
Io mi ero buttato sul terzo lì accanto, poggiando le spalle su una delle colonne che intercalavano la distanza tra i grossi gradini.
Un pallido sole si era affacciato, conferendo un tenero tepore alla temperatura del pomeriggio. Cotti dallo shit, giacevamo in uno stato di profonda beatitudine dei sensi.
Cazzeggiando d’argomenti fantasiosi e assolutamente irrazionali, eravamo preda d’una ilarità delirante.
Ci sentivamo grati che la vita ci offrisse momenti così lieti, immersi nella cornice di tanta suggestiva bellezza estetica, regalandoci istanti di piccola magia.
Trascorsa così quasi un’ora, ormai esaurite le batterie, giacevamo in quella fase discendente del fumo, nella quale la calma interiore produce uno stato di sonnolento benessere che può condurre all’abbiocco.
Mi ero adagiato, con gli occhi chiusi, in una veglia soffusa, intento a respiri profondi che colmavano i polmoni di quell’aria tiepida e tersa, in totale pace con l’universo.
Anche Patty e Monica si erano abbandonate, silenziose e sonnolenti, al pacato momento di relax.

Una voce rauca e ravvicinata mi aveva improvvisamente destato: «Che c’hai, del fumo da vendere?»
Con riluttanza avevo dischiuso gli occhi per comprendere da chi provenisse la richiesta.
Erano in due, con l’aria sciatta e disadorna dei fricchettoni nomadi e senza fissa dimora, quelli che solitamente stazionavano in qualche centro sociale.
Questi centri erano nati da qualche tempo, creati in origine essenzialmente da movimenti di sinistra radicale o antagonista che, in quelle strutture, portavano avanti i loro principi e ideali.
Erano frequentati da giovani e meno giovani variamente assortiti: ex militanti della sinistra extraparlamentare, artisti, musicisti, fricchettoni e vagabondi vari.
Personaggi uniti da un ideale di vita marginale, dal rifiuto di ogni gabbia sociale e dal consumismo edonista che iniziava a caratterizzare la società più affluente.
Ma tra loro si inserivano anche figure meno ispirate a nobili ideali: individui al confine della legalità, pusher che trafficavano ogni sorta di sostanza, dal fumo alle micidiali pasticche di speed, fino alle mortali cocaina ed eroina.
Da poco era sorta in quegli ambienti una nuova figura legata all’emergente universo punk. Questi si distinguevano per le fogge del loro aspetto, derivato da quello delle neonate band musicali statunitensi e inglesi; i loro idoli erano i Ramones americani, i The Clash inglesi e diversi altri.
Il loro look era fatto di abiti strappati, capelli corti, incolti e sovente colorati, capi sadomaso-fetish, giubbotti e pantaloni in pelle, catene, borchie, spille da balia, collari chiodati e lucchetti usati come collane.
Amavano la provocazione più estrema, esibivano svastiche col solo intento di provocare e scandalizzare i benpensanti, adottando una complessa paraphernalia, esibita per dichiarare il loro rifiuto del sistema sociale e proclamare la loro totale anarchia.
I due che avevo davanti appartenevano indubbiamente alla frangia punk che frequentava i centri sociali.
Testa rasata il primo e una striscia di rigida cresta viola sul capo dell’altro.
L’abbigliamento rispettava i loro standard estetici: vecchi jeans slavati e consunti, “chiodo” di pelle nera con borchie in metallo per il primo, giaccone da aviatore testa di moro, con trapunte di chiodi acuminati sui lati delle spalle, per il secondo.
Cinturoni di pelle neri e borchiati, di gusto dark, fasciavano i loro fianchi, mentre ai piedi calzavano solidi stivali da biker e robusti scarponi Dr. Martens.
Quello che aveva parlato aveva un piercing argentato sul labbro inferiore, l’altro una serie di anelli appesi ai lobi delle orecchie.
Erano entrambi più vecchi di me, con una presumibile età intorno ai diciannove-vent’anni, e un’aria scazzata e tetra.


(Continua)

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