L'incontro – Pt. 5

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L'incontro – Pt. 5


Il duomo di Modena, il cui nome ufficiale è Cattedrale di Santa Maria Assunta in Cielo e San Geminiano, è il principale luogo di culto dell’arcidiocesi di Modena-Nonantola.
Capolavoro dello stile romanico, è opera dell’architetto Lanfranco, eretto sul luogo del sepolcro di San Geminiano.
La facciata presenta una decorazione marmorea dovuta in gran parte a Wiligelmo, insigne scultore italiano di età romanica, tra i primi in Italia a firmare le proprie opere.
Sono suoi i quattro grandi rilievi con le Storie della Genesi; fu anche l’architetto responsabile dell’edificazione della facciata e della parte anteriore della cattedrale modenese. L’artista è considerato il più insigne maestro della scultura romanica in Italia: le sue opere possiedono una grande forza vitale e un senso della narrazione, superato forse unicamente da Nicola Pisano, oltre cento anni più tardi.
Questo resoconto faceva parte del programma di Storia dell’Arte che ognuno di noi doveva saper citare a memoria, senza trascurarne la benché minima virgola, nonché commentare con proprietà di termini durante le perigliose interrogazioni subite sotto il nostro fiscale docente di Storia dell’Arte: il professor Piergiorgio Cannarella.

Questi, dopo averci frantumato gli zebedei con le soporifere lezioni sul romanico, essendone un fanatico estimatore, aveva deciso di portarci in gita a Modena per farci apprezzare dal vivo le succitate opere.
L’intento, poiché ci prospettava una giornata di svago al di fuori delle mura scolastiche, era stato accolto con grande favore.
Già si pregustava la baldoria che avrebbe accompagnato il viaggio, previsto con l’aggiunta di una seconda classe di studenti, altrettanto “sguandrati” quanto noi, accompagnati dalla loro docente.
Costei era una bionda cavallona trentenne dalle lunghe gambe, sempre fasciata in aderenti tubini che ne esaltavano le forme assai invitanti e procaci.
Cosa per la quale, considerata la perfidia del destino nell’averci destinato il Cannarella, li invidiavamo in maniera feroce.
Il nostro professore appariva come un maturo stoccafisso prossimo alla pensione, che si pregiava di esibire una spocchia da nobile britannico decaduto.
Vestiva doppiopetto di grisaglia a rigoroso taglio inglese, camicie con candidi colletti inamidati e cravatte a farfalla con fantasie tra le più strambe, unica concessione colorata all’aplomb della sua cinerea persona.
Portava occhialini a lunetta dalla montatura in oro, che gli conferivano il cipiglio austero e autorevole a cui ambiva apparire.
Un grigio pizzetto caprino gli ornava il mento, a compensazione della calvizie che, sulla fronte glabra, apriva uno spiazzo ampio quanto un campo da calcio.
Nella stagione autunnale, adottava un impermeabile Burberry color panna che gli sfiorava i talloni e un cappello in tartan a foggia “deerstalker”: in sostanza, quello usato da Sherlock Holmes.
Si riteneva una sorta di luminare della Storia dell’Arte, ma era in realtà dotato di un’erudizione accademica priva di qualsiasi slancio creativo o autonoma elaborazione.
Reazionario per natura, si scagliava contro la critica artistica più moderna che, a parer suo, si legava a una visione storica e politica infettata dal funesto pensiero marxista.
I volumi di Storia dell’arte italiana scritti da Giulio Carlo Argan, adottati in quasi tutti i licei pubblici del Paese, erano da lui considerati alla stregua di Vangeli apocrifi, quindi ritenuti diseducativi e fuorvianti per la reale comprensione della materia.
In sostanza, eravamo tutti convinti che gli rodesse in maniera urticante di non essere mai riuscito, personalmente, a pubblicare neppure un bugiardino per l’Aspirina.
Il disamore verso Cannarella aveva diverse ragioni, ma certo la prima stava nel fatto che, per lui, insegnare qualcosa a noi equivaleva a gettare perle ai porci.
Cosa sicuramente in parte fondata, ma questo suo disprezzo, prossimo alla ripugnanza, risultava fastidioso, poiché mostrato ogni qualvolta si accostasse a noi, mantenendo fisicamente una distanza non inferiore al metro.
Distanza certamente ispirata dal timore di essere contaminato da qualche pestilenza annidata fra le nostre chiome fluenti o negli abiti stracciaroli raccattati in qualche bottega del “vintage”.
Per come era fatto, di certo si reputava uno degli ultimi umani dotati di cultura, intelletto e decoro nell’abbigliarsi, che un fato ingiusto aveva destinato a una classe di cavernicoli.

Come Dio volle, in una mattina d’aprile, per altro piovosa nonostante l’avanzata primavera, venimmo imbarcati su un capace pullman gran turismo in direzione del capoluogo emiliano.
All’andata, le due classi vennero tenute separate, dividendo i posti sulla longitudine del veicolo, con i due professori in testa al mezzo, a vegliare sulla perizia dell’autista e a chiacchierare dei fatti loro.
Fin da subito si comprendeva che il Cannarella stesse sciorinando il suo repertorio di fascino “british” per catturare l’attenzione della maliarda collega.
Quest’ultima, certamente, aveva il suo da fare nel contenere gli sbadigli, fingendo di interessarsi alle pedanti dissertazioni del maturo civettone.
Quando entrammo a Modena, molti sonnecchiavano ancora, cullati dal tepore del pullman e dalla monotonia del percorso. Parcheggiato il mezzo in prossimità della nostra destinazione, ci riversammo in città.
Il tempo si manteneva fresco, piovigginava senza tregua.
Alcuni erano muniti di K-way, altri di ombrelli portatili; i meno organizzati si riparavano col sacchetto di plastica che conteneva il panino del pranzo.
Eravamo in una quarantina: Cannarella ci voleva in fila per due come scolaretti delle elementari, ma nessuno aveva intenzione di ascoltarlo.
Fuori da scuola, la sua autorità aveva la stessa credibilità di un bagnino in perizoma che tenti di irreggimentare un plotone di alpini.
Come una variegata armata Brancaleone, a piccoli gruppi creavamo una processione sfilacciata e chiassosa che ingombrava i marciapiedi o incasinava il traffico urbano sulla carreggiata delle vie.
Giunti di fronte alla facciata del duomo, benché fossimo degli animali, non potemmo che restarne impressionati: vedere nella realtà la maestà di ciò che avevamo unicamente osservato nelle illustrazioni dei libri di testo induceva rispetto e contemplazione anche negli animi più gretti di noi.
All’interno dell’edificio, tutto appariva essenziale e al contempo magnifico e austero: ampi archi a tutto sesto su pilastri compositi si alternavano a colonne, separando le tre navate.
Su quella centrale si affacciavano due finti matronei privi di pavimento, con arcate divise in trifore; al fondo di essa, tre grandi arcate trasversali indicavano la cripta che si innalzava dal sottosuolo, in cui era sepolto San Geminiano.
Mentre, con tono solenne, Cannarella ci illustrava i rilevanti capolavori artistici e architettonici in cui eravamo immersi, non tutti prestavano la meritata attenzione.
Diversi tra i più indisciplinati si erano sparsi qua e là in un’autonoma esplorazione della cattedrale.
Vi erano punti in prossimità dell’ingresso dotati di apparecchi “audioguida” nei quali, con alcune monete, si ottenevano informazioni su nozioni storiche e artistiche del sito.
Intorno a questi si era raccolto un certo numero di compagni che snobbavano la pallosa esposizione del professore. Quando se ne accorse, disse che rappresentava un affronto alla sua professionalità, sconfinante nel sacrilegio, e andò in escandescenze, investendoci di parole assai pesanti. Giurava di non aver mai incontrato, nei lunghi anni di docenza, una tale accozzaglia di screanzati e irrecuperabili somari.
Affermava, amareggiato, che non meritassimo il suo sforzo volto a tentare di condurci alla civiltà e sentenziò, minaccioso, che mai più ci avrebbe condotto neppure a visitare un giardino zoologico, dove incontrare i nostri simili.


(Continua)

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