Rag Ball - Capitolo 3

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Capitolo terzo
L’eterna estate

Flora abita da sola. Da una vita.
Villetta a schiera, giardino ben curato con un cane da guardia. Argo, un pastore belga, il compagno ideale per costruire un nucleo famigliare. Lei una signora bergamasca, robusta e sempre ben vestita. In paese tutti la conoscevano, “figlia dei fiori” il suo soprannome. Era inguardabile per come si vestiva: Fuseaux a fiori e casacche colorate decoravano uno stile di una donna minuta e solitaria.
Come ogni anziana, Flora aveva il vizio di guardare fuori dalla finestra. Il tipico comportamento di sua madre Teresa defunta anni prima che, a sua insaputa si era accaparrata il primato del secolo: “miss impicciona ultra age 1945”
Ogni giorno gli occhi spenti della donna spiavano con tristezza quel suo giardino confinante sulla strada, un senso unico che dalla mattina presto alla sera diventava un’odiosa autostrada. Ogni settimana per lei era sempre uguale, monotona e logorante come le lancette dell’orologio: dritte, attente e accusanti. Flora guardava in continuazione quel quadrante che girava inesorabile allo stesso modo; ogni tanto sospirava e si sentiva stanca. Il tempo, diventò il suo peggiore nemico.
L’anziana, restava ore ed ore a fissare un angolo del giardino dove, un tempo, c’erano tre meravigliosi pini grandi e forti. Appartenevano alla famiglia del cedro dorato. Erano grandi e rigorosi. Ora non c’era più niente, l’avevano tagliati anni prima senza il suo consenso. Un durissimo colpo.
Flora mentre guardava fuori, ricordava con rammarico quel periodo felice.
Improvvisamente lasciò cadere la tenda ricamata che, come una pagina di un libro, ritornò stesa e senza pieghe limitando così la luce che proveniva da fuori.
C'era molto da fare in casa, Flora fin da piccola aveva imparato a rassettare un intera abitazione ma negli ultimi anni aveva perso ogni tipo d’interesse, sentendosi sempre stanca e angosciata. Spesso dava da bere al pavimento con qualche lacrimuccia senza fonte. Flora non aveva nessun impegno giornaliero ma era perennemente in lotta contro il tempo. Quel tic—tac appeso al muro gli dava sui nervi, come se fosse una bomba che doveva esplodere da un momento all'altro. Passava le sue giornate a contare quanti rintocchi mancavano per la sera. Il letto era il posto più sicuro che conosceva in questo mondo. Si sentiva più serena soltanto verso l'imbrunire, quando calava quel buio che rendeva scuro ogni commento indesiderato.
Da un po' di tempo, Flora aveva una brutta cera. Tutti se n’erano accorti.
Era risaputo che la signora Flora non stava bene, aveva iniziato a soffrire di una forma strana di psicosi. Non sopportava la luce del giorno, temeva qualcosa da lei. La rendeva nervosa come non mai. Ogni raggio di sole, le ricordava soltanto un altro giorno davanti. Monotono e insostenibile. Nella sua marcata ignoranza, si convinse che il suo problema era il tempo.
Si presentò una mattina d'agosto come un turbine interiore, molto burrascoso che lei stessa definì come un incubo dell'eterna estate. La signora Flora aveva paura per la sua stessa incolumità, ogni angolo della casa illuminato a giorno rappresentava un pericolo. Il sole la rendeva triste e disorientata, a volte sragionava, se ne accorgeva lei stessa. Quando succedeva ciò, alzava il sopracciglio e si spaventava; come se riceveva un pizzicotto da un fantasma. Sgranava gli occhi e pensava alla sua sorte. Era molto depressa, la sua inconsiderata malattia era una resilienza ad una violenta folata di vento senza una sciarpa di lana. Qualcosa di inaspettato senza ripari efficaci. Così era Flora, una donna su “chi-va-la”.
Nonostante ciò, la signora Flora aveva la forza di guardare fuori dalla finestra. Osservava come le macchine transitavano, come gli uccellini cinguettavano anche se era inverno inoltrato. Ogni tanto sorrideva dietro alla vetrata quando sentiva qualche passante che borbottava. Rideva sdentata pensando di essere quel pedone che passava accanto alla sua casa, il suo sogno più grande era essere un’altra persona. Più solare e con meno problemi. Ma quell’illusione durava davvero poco, passava il pedone e svaniva quel suo destino tanto sperato.
Flora quando non guardava fuori dalla finestra, cercava disperatamente di dare un senso alla sua vita. In ogni angolo della sua abitazione cercava una piccolezza a cui aggrapparsi come un ancora di salvataggio. Un giorno, per puro caso trovò in cantina una vecchia palla di pezza. Era di sua cugina Matilde, ai tempi una bambina smorfiosa e antipatica a cui spesso e volentieri, Flora gli rubava i giocattoli più belli tra cui la famosa palla della Mattel. Un litigio unico tra le due cugine, un tira e molla di palla, il gioco più gettonato di quegli anni.
Dal baule di cartone, la palla di pezza finì nel soggiorno di Flora, in bella vista. Un ottima compagna. L’anziana la scrutava ogni volta che si sentiva sola, specialmente quando era a pezzi a causa della sua depressione. La cugina Matilde se ne andò via anni prima, una malformazione al cuore gli fece abbandonare la vita troppo presto.
Ogni volta che il sole illuminava le poltrone e i mobili, Flora si sentiva fuori luogo. Aveva paura della vita e della sua stessa ombra. Nella sua mente succedeva qualcosa di inspiegabile; con la luce del sole andava in tilt proprio come un flipper meccanico. Nessuno capiva il perché, né lei e né i mille neurologi e psichiatrici che l’avevano visitata. Le loro uniche risposte erano pastiglie rivestite da mandare giù con amarezza. Flora le prendeva e ingoiava senza esitare. Il suo esofago sembrava fiero di accogliere una soluzione, in realtà scadente: Flora e i suoi psicofarmaci.
Così passava i giorni, giorno e notte facevano da contorno a quel volto smarrito. I suoi occhi stanchi raccontavano una sofferenza incompresa da tutti. Il suo mondo si era autodistrutto e aveva lasciato spazio ad una realtà che rendeva tutto più insopportabile: due occhi fuori dalle orbite era tutto ciò che vedeva Flora allo specchio.
L’anziana vagava senza una meta, a volte ansimava per la troppa ansia e a volte, invece, restava in un angolo a tremare. Un terrore non compreso. Flora aveva timore quando fissava certi oggetti che altri; tipo l’orologio che la terrorizzavano perché sapeva che il tempo giocava brutti scherzi, oppure non sopportava la visione di qualunque arnese appuntito o tagliante ma soprattutto Flora non tollerava guardare la palla di pezza illuminata dal sole. Se da una parte, la palla gli faceva compagnia e gli ricordava i bei tempi con Matilde dall’altra parte, gli procurava molta ansia. Osservare in continuazione
quella palla di pezza sempre girata da un lato, gli dava noia. Se poi ci si metteva anche quel sole alto del mezzogiorno che batteva solo sul quadrante morbido color bianco, Flora poteva dire addio definitivamente al suo benessere psichico. Il colpevole non era il colore giallo della stella giornaliera, l’unica responsabile di tutto era lo stato psichico di Flora. La donna considerava quel tono raggiante come un nemico. La palla di pezza diventò quel piccolo mondo che veniva illuminato da una luce comune ma fastidiosa. Un sentimento più forte di Flora, di punto in bianco, così senza chiedersi il perché, non sopportava più a, neanche la sua stessa vita. Era un sintomo incomprensibile. C’era chi la chiamava depressione acuta e chi la denominava pazzia, perspicace come un fiore donato in piena estate: un girasole che illuminava con prepotenza l’inquietudine.
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