Re: Lampi di poesia 24 - Off topic

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Alda Merini cercava salvezza nella sua poesia:


O mia poesia, salvami,

per venire a te

scampo alle invitte braccia del demonio:

nel sogno bugiardo

agguanta la mia gonna la sua fiamma

e io vorrei morire

per i mille patimenti che m’infligge.

Nulla vale la durata di una vita

ma se mi alzo e divoro

con un urlo il mio tempo di respiro,

lo faccio solo pensando alla tua sorte,

mia dolce chiara bella creatura,

mia vita e morte,

mia trionfale e aperta poesia

che mi scagli al profondo

perché ti dia le risonanze nuove.

E se torno dal chiuso dell’inferno

torno perché tu sei la primavera:

perché dunque rifiuti me germoglio,

casto germoglio della vita tua?



(in Il suono dell’ombra, p. 348)
Di sabbia e catrame è la vita:
o scorre o si lega alle dita.


Poeta con te - Tre spunti di versi

Re: Lampi di poesia 24 - Off topic

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@Poeta Zaza 

Ho ricercato tra i miei file un'intervista che fecero alla Merini nel 2008, a mio avviso una delle più intense ed evocative. Ve la ripropongo con vero piacere.  :love3:


INCONTRO CON LA POETESSA
ALDA MERINI
di Antonio Prudenzano

Alda Merini abita in un posto speciale. No, non lo si può chiamare casa. Troppo riduttiva come definizione, o viceversa esagerata, a seconda della sensibilità di ognuno. È il suo regno, ed è da questo trono che governa le sue amate solitudini. È un caos organizzato di odori, flash dal passato, urla di dolore, improvvisi entusiasmi per l’inatteso sopraggiungere di un’intuizione poetica, sogni, amici che la vengono a trovare, rompiscatole (così li chiama lei) in cerca della sua considerazione, pseudo editori pronti a succhiarle un aforisma a effetto o qualche verso "dettato” da pubblicare e su cui speculare e guadagnarci senza che lei lo sappia.
No, queste quattro piccole stanze non sono una casa. Sono piuttosto tutta la propria vita per una donna a suo modo straordinaria. Sono la poesia fattasi architettura. Sono un libro aperto. La culla e la tomba accogliente della più grande poetessa italiana vivente. Un non-luogo dove il tempo non esiste. Una corazza impenetrabile per i rumori notturni dei giovani che popolano i Navigli. Un bazar dove si può trovare di tutto, e dove ogni tipo di oggetto è presente in quantità sproporzionata (e senza una giustificazione razionale) rispetto alle ristrette dimensioni dell’ambiente. Una discarica di ricordi, quadri, libri, foto, scritte sulle pareti, grovigli olfattivi ormai inscindibili, cose di uso quotidiano, opere d’arte. Totale assenza di nuove tecnologie, se si esclude un vecchio televisore. Il tutto disposto nel più completo disordine, in realtà forse l’unico ordine possibile per la carismatica mamma-regina di questo castello scavato nel tempo. Quattro stanze che sono il guscio-corazza di una donna che il 21 marzo, giorno d’inizio della primavera, compie 77 anni e che, dopo aver sperimentato l’inferno del manicomio, è tornata alla vita e si è vista candidare due volte al Nobel per la letteratura.
Ma adesso un passo indietro: sono le tre di un pomeriggio milanese soleggiato. Suono al citofono. Risponde la domestica (mandata dal Comune in seguito alle polemiche del 2004 sulle difficoltà fisiche ed economiche in cui si trovava la poetessa). Sulla porta d’ingresso, al secondo piano di un vecchio edificio che si affaccia sul Naviglio, c’è una scritta, ma l’emozione non mi permette di decifrarla. È aperto. Ed è come varcare la porta verso un’altra dimensione, come in certi film o cartoni animati di fantascienza. La domestica fa le pulizie. Sarà per colpa del miscuglio di odori “stupefacenti” che mi annebbiano i sensi, ma non è facile abituarmi immediatamente all’ambiente che ho davanti. Per qualche lunghissimo istante mi sento spaesato e faccio fatica a tenere il controllo del mio corpo.
Lei è in “salotto”. Vi sembrerà impossibile, vi farà ridere, ma Alda Merini sta guardando “Uomini e donne” condotto da Maria De Filippi. Sì, il talk show più amato dalle casalinghe italiane, quello con i tronisti corteggiati dalle aspiranti veline. Attonito, le stringo la mano. Come in un quadro surrealista, come in un’immagine tipicamente postmoderna: il sacro e il profano insieme,

l’accostamento degli opposti, l’arte e la televisione, la Poesia e l’anti-Poesia che si incontrano.

Buonasera signora Merini. E lei, senza neppure lasciarmi finire:

Ma cosa volete tutti da me? Non riesco più a starmene in pace, questa casa è diventata un manicomio

Una spietata autoironia che ti spaventa, ti fa restare muto, ti far venir voglia di scappare. Ma ormai ci sono, devo resistere. Sta’ tranquillo, penso tra me, vuole solo mettermi alla prova dall’alto della fama di donna indomabile che si è costruita negli anni. Le sorrido. Mi siedo.

«Allora, per quale motivo è venuto a casa mia? Non sarà mica anche lei qui per chiedermi “perché scrivo”!?».

Vorrei dirle naturalmente di no, ma la donna di rosso vestita che ho davanti non mi dà il tempo di rispondere (per tutta l’ora che le resterò seduto di fronte continuerà a fumare una serie infinita di sigarette a cui ha precedentemente provveduto a spezzare con indifferente decisione il filtro).

«Scrivo per stare sola, non lo capisce?».

Dopo lo sfogo iniziale, Alda Merini si tranquillizza, e io con lei. Si fa seria, pronta ad aprirsi:

«Il poeta scrive per guadagnarsi la solitudine. Nella solitudine ritrova i suoi pensieri, l’amore per il prossimo e per se stesso. E soprattutto si riprende la Poesia. Per un poeta è essenziale essere solo».

Eppure questa casa è un continuo via vai. Quando trova il tempo per restare sola e per scrivere?

«Non scrivo più, sono vecchia ormai».

Subito dopo però si corregge.

«Ieri ho scritto una poesia sulla Sindone, pur non avendola mai vista dal vivo. Ho usato la fantasia. Mi sono lasciata trasportare dalle sensazioni. La poesia è una grazia ricevuta, un dono di Dio. Non dia retta a chi esalta il mito inventato del poeta maledetto. Pensi a San Francesco, di cui di recente ho scritto. Era un uomo gioioso, in pace con la vita e con Dio. Ed era un grandissimo poeta».

Quella della Merini è una fede sincera e inattaccabile

«Neanche in manicomio ho smarrito l’amore per il Signore».

E qui la poetessa comincia un intenso, irresistibile, commovente e spiazzante flusso di coscienza sui terribili anni passati in quei “lager”, come li definisce lei stessa:

«Non ci davano da bere, da mangiare, né vestiti per coprirci, e ci lasciavano al gelo e allo sbando. Eppure ogni sera noi “matti” ringraziavamo Dio con la preghiera. E non ci lamentavamo mai nonostante le privazioni e le atrocità subite».

A questo punto, la poetessa dice con assurda naturalezza una cosa che mi sconvolge:

«In realtà in manicomio ero felice».

Un sospiro, qualche attimo di silenzio, poi continua:

«Lì dentro non ho mai avuto un giorno di disperazione, semmai mi è capitato quando sono “rientrata” nel mondo».

Sentirla ricordare quel tempo della sua vita mette i brividi:

«In manicomio, però, vivevo a contatto anche con dei pazzi pericolosi. Avevo paura. Non va dimenticato che la malattia mentale è soprattutto una malattia fisica, dolorosa. Altro che il genio della follia. L’elettrochoc fu un’esperienza tremenda. Mi faceva tremare dalla testa ai piedi. Ma mi ha creato forti vuoti di memoria, facendomi dimenticare tanti di quei soprusi. Se penso però a quel gruppo di psichiatri che oggi vorrebbero reintrodurne l’utilizzo… La violenza dell’uomo sull’uomo può essere tremenda».

Alda Merini parla di quel periodo senza nascondere nulla, si potrebbe quasi dire che lo ricordi con serenità, forte della consapevolezza che non possa mai più ritornare.

«Quella poca fama che ho come poetessa non mi è stata certo regalata. Me la sono conquistata dopo tanta sofferenza. In verità, più che la celebrità mi sono conquistata la vita, che è la cosa più importante. Sì, lo ammetto, mi fa piacere che il pubblico apprezzi quello che scrivo, mi dà appagamento, ma per me la croce della gloria è pesante da portare, specialmente quando si è toccato il massimo del riconoscimento poetico. Diventa un supplizio. Cominciano a invadere la tua vita, perdi il piacere della solitudine».

Quindi non è vero che ci tiene tanto a vincere il premio Nobel, dopo che pochi anni fa ci è andata molto vicina.

«Ma per carità, sono vecchia. Non vede che non mi reggo più in piedi? Come potrei viaggiare? E poi, a che serve la gloria? Preferisco l’amata solitudine di questa casa, che non potrei mai più abbandonare».

Inutile provare a distoglierla dal ricordo dell’esperienza del manicomio, magari inducendola a parlare del premio dei premi per chiunque scriva; è lei che volontariamente ci ritorna:

«C’è chi esce dal manicomio incattivito e disperato, e chi, come me, ne viene fuori felice, grazie alla poesia e al desiderio di libertà. Ma soprattutto non vedevo l’ora di dedicarmi finalmente alle mie figlie».

Le cinque creature a cui ha dato la vita sono sempre nel suo cuore, e quando parla di loro i suoi occhi ormai anziani diventano lucidi. Alda Merini è ed è stata una mamma che ha dato tutto per le sue bambine. Purtroppo, i pregiudizi culturali e l’ignoranza hanno reso difficile la sua esperienza di madre. Ma è giusto che questa storia dolorosa resti solo sua.

Ormai non la sento più ostile. Anzi la trovo disponibile ed equilibrata. Mi vergogno dei pregiudizi con cui io stesso ero venuto a bussare alla sua porta. Non è una donna lunatica. E non è affatto un personaggio costruito, una maschera “maledetta”

«Sa perché sono entrata in manicomio? Perché la persona che amavo più di me stessa, mio marito, mi ha tradito, facendomi passare per demente. Hanno creduto a lui e non a me perché era più forte, era quello che portava i soldi a casa. Si è disfatto di me. Però a volte penso che se non avessi provato sulla mia pelle l’esperienza tremenda del tradimento, e quindi quella del “lager”, dopo non avrei scritto gran parte delle mie poesie più belle. Dopo tutto, volendo usare una metafora religiosa, se non ci fosse stato Giuda non avremmo avuto il Cristianesimo. Con gli anni ho capito che quel “mezzo” terribile (il tradimento, n.d.r.), che ha sfasciato una famiglia, e che poteva distruggere la mia anima per sempre, è stato una linfa vitale per la mia poesia. Non avrei mai potuto scrivere la mia raccolta più bella, “La terra santa”.
Ho odiato mio marito per il male che mi ha fatto. Uscita dal manicomio non ho raccontato nulla di ciò che mi era capitato né a lui né ad altri. Poi, dopo cinque anni, mi sono messa a scrivere “L’altra verità. Diario di una diversa”, che nessuno voleva pubblicare, visto che per la prima volta raccontavo gli orrori che subivamo noi matti. Avevo messo il dito nella piaga. Lui, il mio primo marito, era in fin di vita. Io, nonostante tutto, l’ho curato fino all’ultimo. Quando ha letto quelle pagine, piangendo mi ha chiesto di perdonarlo, non poteva credere che io fossi stata vittima, insieme a tanti altri, di tali soprusi».

Mi accorgo della sua stanchezza e capisco che la nostra conversazione sta per terminare. Allora le chiedo di Taranto, dove lei ha vissuto tre anni, dall’ ’83 all’86, con il secondo marito, un ufficiale.

«Al di là dei problemi che ebbi con i suoi figli, ho un ricordo bellissimo di quel periodo e di quella terra meravigliosa. La gente ci voleva bene. Io e mio marito eravamo due benefattori, aiutammo molti poveri. Ho nostalgia del Sud, di quei paesaggi».

All’inizio ha detto che oggi scrive molto meno. È così anche per la lettura?

Cosa ne pensa dei poeti italiani contemporanei? Perché tendono a escluderla?

«Da ragazza leggevo tantissimo, oggi faccio più fatica, la vista mi sta abbandonando. E poi perché dovrei leggere i poeti di oggi!? Forse per disimparare a scrivere? Il poeta geniale nasce una volta ogni tanto, mentre questi si credono tutti dei grandi.

Gli italiani?

Sì, la Valduga, Cucchi, Neri, tutti molto bravi, ma non li frequento, appartengono a un’altra generazione. Io ho avuto un maestro come Quasimodo. E poi sono invidiosi del mio successo».

Visto che ormai il clima si è alleggerito, cerco di provocarla. Ma lo sa che lei è la poetessa italiana con più editori? Perché detta poesie e aforismi, anche per telefono, al primo che capita? Lo sa che molti di questi, senza magari dirle niente, poi pubblicano tutto e guadagnano sulla sua pelle?

«Ma io lo faccio solo per togliermeli davanti, altrimenti non saprei come fare».

E con la sua consueta pungente ironia aggiunge, lei sì maestra di provocazioni:

«Questi strani personaggi che vengono a chiedermi le poesie si credono i miei ispiratori, e vorrebbero essere miei amanti. A proposito, lo sa che sono la poetessa con più amanti della storia? Altro che editori che speculano sul mio nome…», e ride di gusto..

Che ne pensa dei tantissimi italiani che pagano migliaia di euro per vedere il proprio cognome sulla copertina di un libro? E di quegli editori che approfittano di tali ingenui sogni di gloria per arricchirsi?

«Quelli non sono editori, ma stampatori. Io la chiamo “la società editoriale a delinquere”. Comunque oggi tutti scrivono e vogliono pubblicare. Vanni Scheiwiller, lui sì un vero editore, che per primo mi ha pubblicato e che è stato l’unico ad avere il coraggio di dare alle stampe “Il Diario”, spesso mi diceva: “Ma perché tutta questa gente che non lo sa fare vuole scrivere!?”».

È tardi. Alda Merini è stanca ma serena. Altro che donna intrattabile. Mi accompagna alla porta, non prima di avermi fatto fare il giro della “casa”. Mi appare come una nonna dolce e comprensiva. E infatti in camera da letto mi mostra le foto dei suoi nipotini. Ormai queste stanze aulenti di fascino e poesia non mi sconvolgono più. Forse dopo solo un’ora sono già anestetizzato dal “profumo” indimenticabile che emana la sua vita? Mi chiede di tornarla a trovare. Le dico subito che lo farò senz’altro, ma in realtà non ne sono sicuro. Incontrarla è un’esperienza totale, capace di scuoterti dentro. Scendo le scale. Esco fuori. Le giornate si stanno allungando: c’è ancora il sole in cielo. Ragazzi e turisti popolano i Navigli. Qui tutti corrono. Tutti comprano. Tutti non si guardano. Non scherza affatto la Merini quando dice che oggi è nelle strade di città il vero manicomio. E come lei, improvvisamente, pure io ho nostalgia dei paesaggi della mia terra, del Sud.

Milano, 4 marzo 2008
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